fotoSiamo lieti di presentare un racconto lungo di Alessandro Fambrini, che ci è piaciuto molto per lo stile e per la magia dei paesaggi che ci regala.
Alessandro Fambrini (Seravezza 1960) insegna letteratura tedesca. Ha pubblicato articoli e racconti su “Robot“, “Nova SF“, “Futuro Europa” e in numerose antologie di fantascienza. Insieme a Stefano Carducci è autore del romanzo “Ascensore per l’Ignoto” (Mondadori 2010). Con Salvatore Proietti e Vittorio Catani ha fondato la rivista di critica fantascientifica “Anarres” (www.fantascienza.com/anarres/)

La lettura del racconto è facilitata dalle linguette con cui sono stati suddivisi i momenti topici della novella: leggete a cominciare da Scavi per finire a Poteri!

[singlepic id=633 w=300 h=242 float=right]La trivella scavava, tra i resti in rovina della fortezza di Hammershus, alta sui contrafforti di granito della costa settentrionale di Bornholm, a mezza strada tra le quattro sponde del Baltico. Costruita nel 1255 come sentinella contro i nemici della Danimarca, cui l’isola apparteneva da sempre anche se così lontana dalla madrepatria, la cittadella si era dimostrata inespugnabile fino al 1658, quando le truppe di Svezia ne avevano travolto le difese e avevano occupato la roccaforte. La conquista svedese era stata effimera e già due anni dopo una sollevazione dei contadini in armi aveva restituito la sovranità alla corona danese: ma Hammershus era ormai stata oltraggiata ed era iniziata la sua decadenza, culminata con l’abbandono nel 1684, anno in cui fu inaugurata la fortezza nuova sulla vicina, minuscola isola di Christiansø, risposta al porto militare di Landskrona dal quale dal 1680 la Svezia si affacciava verso sud.

Ora i lavori procedevano a rilento. Penetrato lo strato sottile di sabbioso terreno feldspatico, le sonde si erano imbattute nella ben più resistente massa rocciosa sottostante, il nucleo minerale, risultato dell’erosione durante il periodo cambriano, sul quale l’intera isola di Bornholm solidamente poggiava.

Le coclee elicoidali con punte al cromo avevano dovuto essere sostituite da altre al vanadio, che sopportavano maggiori velocità di taglio, e il professor Dinesen si chiedeva se non fosse ormai necessario impiantare quelle al tungsteno, destinate alle rifiniture di precisione, se non altro per creare tasselli entro i quali insinuarsi con gli strumenti più grezzi. Già molto materiale era stato danneggiato, molto tempo sprecato, e i denari della Fondazione Carlsberg non sarebbero durati in eterno. Per non parlare dei contributi dell’università americana: pochi spiccioli fin dall’inizio, nonostante tutte le loro promesse e le lusinghe, e la costante minaccia di chiudere il rubinetto anche a quelli. Né lo consolava la presenza del collega che gli avevano inviato come collaboratore: un fanfarone supponente dalle idee bislacche che parlava un danese dall’accento impossibile, a dispetto delle sue tanto vantate origini vichinghe, e passava la maggior parte del tempo nelle bettole di Sandvig, anziché sul campo, con un comportamento degno, del resto, di quel mediocre archeologo che era. Se non si fosse verificata una svolta, il progetto, lavoro di tutta una vita, avrebbe rischiato seriamente di arenarsi. La sua ipotesi – più che un’ipotesi, una certezza – che sotto le fondamenta di Hammershus si celasse un villaggio preistorico, rischiava di restare indimostrata e con essa di venire oscurato un capitolo fondamentale della storia dell’uomo nel Baltico, anzi, della civiltà umana in generale.

A un tratto le grida degli operai al lavoro attrassero la sua attenzione che tendeva ad assopirsi nella sonnolenza di quel tiepido pomeriggio di aprile e a smarrirsi nelle distese equoree che rilucevano ipnotiche nel sole oltre le pendici scabre della costa dominate dall’alto dalla fortezza di Hammershus. Il professor Dinesen si alzò dalla panchina sul ciglio della scogliera, appena fuori dal perimetro delle mura fortificate, e si avvicinò all’area di scavo con il passo più rapido che gli consentivano il bastone e la sua dignità.

Non c’era bisogno di essere esperti per rendersi conto che la trivella adesso girava a vuoto senza incontrare resistenza e già si era introdotta nel terreno per tutta la sua lunghezza. La pompa di scarico, che fino a quel momento aveva prodotto una massa trascurabile di scorie e detriti, iniziò d’un tratto a espellere un liquido denso, gorgogliante, di colore scuro.

Il professor Dinesen ordinò con un gesto secco di interrompere l’azione. Il generatore a cherosene diede un ultimo sussulto, poi la sua vibrazione si spense e cadde il silenzio.

Il professore si chinò sul cumulo degli scarti, con cautela pose un dito sul rigagnolo fumigante e vischioso e se lo portò alle narici, poi sollevò il capo verso il gruppetto di operai e di studenti che lo osservavano in attesa. C’era l’incredulità più totale nei suoi occhi sbarrati dietro gli occhiali dalle lenti spesse.

“Sangue”, disse.

L’investigatore Jørgensen, seduto alla sua scrivania del commissariato di Sandvig, aveva mosso più volte la testa di lato per guardare l’orologio fissato alla parete alla sua destra. Le diciotto, l’ora alla quale sarebbe terminato il suo turno, sembravano non arrivare mai, e Jørgensen continuava a lanciare occhiate alternate al muro, alla finestra e alla porta. Come se poi cambiasse qualcosa una volta libero, pensò. Dodici ore per riposare e svagarsi, in teoria, prima di riprendere servizio. Dodici ore che sarebbero state uguali a quelle appena trascorse: solitudine e noia.

Sandvig, con i suoi mille abitanti, era un paese in cui non accadeva mai niente. Una postazione di polizia in quel luogo appariva un omaggio al passato, quando Bornholm, per la sua posizione strategica nel cuore del Baltico, era un tesoro da conservare con cura. Ormai quei tempi erano passati. Il Baltico, e Bornholm con esso, era scivolato ai margini delle carte geografiche e non c’era più bisogno di tanta attenzione. Del resto gli abitanti dell’isola, gente bellicosa e fiera, avevano sempre saputo badare a se stessi.

[singlepic id=634 w=356 h=200 float=right]All’improvviso si udirono dei passi provenire dall’anticamera d’ingresso, seguiti da un concitato bussare alla porta. La risposta di Jørgensen non fece in tempo ad arrivare che un ometto anziano, con un lungo pastrano, il cappello e il bastone, si scagliò nella stanza liberandosi di scatto dalla stretta di un ragazzo che sembrava volerlo sorreggere e trattenere insieme.

“È un’urgenza”, esclamò l’uomo, trafelato. “Sono il professor Poul Dinesen, archeologo, emerito della Reale Università di Copenaghen”, aggiunse, come se nessuna urgenza in realtà potesse esimerlo dallo sciorinare i suoi titoli.

Jørgensen comprese. Erano gli uomini dello scavo, quelli che lavoravano alle rovine di Hammershus, lì vicino. I permessi erano transitati per il suo ufficio, uno dei pochi compiti svolti durante i quattro mesi trascorsi dal suo arrivo a Bornholm. Solo gli operai, perlopiù gente del posto, di Rønne o di Hasle, facevano qualche sortita in paese, gli altri trascorrevano il loro tempo sul sito oppure ritirati negli appartamenti che avevano affittato, in un edificio ai margini dell’abitato, un ex-albergo costruito all’inizio del Novecento, quando Sandvig, con le sue spiagge bianche tra le brughiere d’erica e le dune, aveva sognato per breve tempo di diventare un luogo di villeggiatura ambito e mondano come Travemünde o Aalsgaard. Il sogno era tramontato nel volgere di pochi anni e l’albergo, chiamato Romantik in onore dell’illusione che aveva cullato, era stato chiuso e destinato ogni tanto al soggiorno di qualche miliardario eccentrico che si ritirava in quel luogo remoto con il suo seguito pittoresco prima di essere travolto dal tedio, oppure di gruppi eterogenei come quello del professore, che a vario titolo, per una breve stagione, ne rinverdivano i fasti ormai spenti.

“Si accomodi, la prego”, disse Jørgensen, invitando Dinesen a prendere posto sulla sedia di fronte a lui, l’unica della stanza, sotto il ritratto di re Cristiano Decimo.

“È un’urgenza, capisce?”, ripeté lo scienziato, ignorando le sue parole e piegandosi sopra la scrivania. “Durante gli scavi abbiamo trovato qualcosa che non avrebbe dovuto trovarsi là. Che non può trovarsi là”.

“E che invece è là”, disse Jørgensen come per far chiarezza in quella dichiarazione contraddittoria.

“Sì, è là”, sputò fuori il professor Dinesen di controvoglia, lasciandosi finalmente andare sulla sedia. “Stavamo attuando le perforazioni preliminari intorno alla cittadella”, spiegò. “Lei sa, riteniamo che in quella zona, sulla collinetta e più precisamente sul sito dove in seguito è sorta Hammershus, vi fosse in origine un insediamento più antico, del quale contiamo di rinvenire le vestigia ora fossili, e pertanto…” Dinesen sembrò inseguire per qualche istante il filo dei suoi progetti o dei suoi sogni, poi riprese: “Ma quello che abbiamo trovato va oltre ogni datazione prevedibile. È in contrasto con ogni nozione geologica, con la stessa morfologia dell’isola”.

“Che cosa avete trovato, professore?”, domandò Jørgensen che stava cominciando a spazientirsi.

Fu il giovane in piedi al fianco di Dinesen a rispondere, poiché l’indignazione del professore sembrava averlo reso muto:

“I resti di un animale preistorico, signore”, disse. “Resti enormi”.

Si misero in moto con la camionetta di servizio che Jørgensen aveva in dotazione.

“Almeno, crediamo che sia preistorico”, disse il ragazzo dal sedile posteriore, mentre il professor Dinesen fissava imbambolato davanti a sé man mano che il veicolo saliva lungo i tornanti della strada sterrata. “Perché che cos’altro può esserci, sepolto a sette metri sottoterra?”

“Ma avete detto che sembrano resti freschi?”, chiese Jørgensen che non capiva.

“È possibile”, attaccò il professore, “che la crosta terrestre, coagulandosi, abbia formato una sacca di vuoto sotto la quale quell’animale, o parte di esso, sia rimasto intrappolato, conservandosi intatto, senza venire aggredito dai normali agenti di corruzione batterica. In questo modo potrebbero essersi conservate non soltanto le ossa, come avviene abitualmente per i fossili, ma anche le fibre e i tessuti”.

“È veramente possibile?”, chiese Jørgensen.

“A esser sincero, è assurdo”, rispose il professor Dinesen. “Ma tutto sembra assurdo in questa storia”.


[singlepic id=638 w=322 h=200 float=left]Illuminata dal sole al tramonto che la rendeva ancora più rossa, una scia di sangue portava dalla postazione dello scavo a una bassa piattaforma sulla quale il reperto era stato adagiato. Lungo almeno sei metri, assomigliava all’arto di un gallinaceo gigantesco, con la pelle corrugata e smorta, priva di piume, ma dotata di scaglie color petrolio dall’aspetto coriaceo, con due articolazioni, una dove ciò che sembrava una coscia robusta si snodava in un arto inferiore più snello, e l’altra nel punto in cui l’interminabile osso femorale terminava in una zampa a tre dita dalle estremità rostrate, curve e affilate come scimitarre. Una grande lacerazione squarciava l’epidermide a metà della sua lunghezza dove era penetrata la punta della scavatrice, rivelando la carne rossa e fibrosa fino al biancore dell’osso smisurato.

“Dobbiamo portarla al sicuro, prima che inizi il processo di decomposizione”, disse il professor Dinesen che in quel cantiere, tra i suoi punti di riferimento consueti, sembrava aver ripreso l’abituale sicurezza. “Per quanto non sia esattamente ciò che mi attendevo, e risulti estraneo alla mia disciplina, potrebbe comunque trattarsi del ritrovamento più importante della storia, di valore inestimabile per la scienza”.

“C’è la ghiacciaia giù al porto”, disse Jørgensen. “Di solito viene usata per la conservazione delle aringhe, ma è grande abbastanza e dovrebbe adattarsi bene anche a questa… cosa”.

“Il problema, semmai, è il trasporto”, disse uno degli operai. “Sollevarlo non è stato difficile”. L’uomo accennò con la testa al sistema di gru e carrucole ancora sospeso sopra la bocca sbadigliante dello scavo. “Ma per trascinarlo lungo questi pochi metri c’è voluta mezz’ora, e lavorando in dieci uomini”.

“Farò venire un camion da Rønne”, disse Jørgensen. “Voi aspettate qui”.

Riprese la jeep e, tornato al suo ufficio, telefonò al comando centrale nel capoluogo dell’isola. Rønne distava solo una ventina di chilometri da Sandvig, ma la linea era disturbata e continuava a cadere, e gli occorse quasi un’ora per comunicare ai suoi superiori di che cosa aveva bisogno. Quando alla fine il consenso fu ottenuto e arrivò la conferma che il mezzo richiesto era partito, fuori era ormai calata la notte.

Jørgensen uscì e sulla soglia si dispose all’attesa. Con il giro del vento che segue il tramonto, l’aria si era fatta pungente. Sandvig sembrava già dormire di un sonno profondo, rischiarata più dalle stelle che dai pochi lampioni incolonnati lungo le vie. Jørgensen sentì che qualcosa del freddo che lo circondava gli era entrato dentro, come una corrente che spirava dal cielo notturno. Poi, in lontananza, lungo la strada costiera, vide venire avanti il camion, arrancando.


A Hammershus gli operai se n’erano andati ed erano rimasti solo il professor Dinesen e tre studenti. La zampa abnorme era ancora lì sul suo piedistallo, illuminata da due lampade a vapore di mercurio che proiettavano ombre spettrali. A fatica, un po’ usando il sistema di carrelli degli scavi, un po’ le loro forze, riuscirono a farla slittare sul piano inclinato del camion. L’autista manovrò finché le tavole non furono in asse, quindi si avviò con cautela giù per la discesa. Jørgensen, con Dinesen e i tre ragazzi a bordo, lo seguì lentamente. La parte terminale del carico sporgeva in fuori di un metro buono e vibrava a ogni sussulto sulla strada sconnessa come se fosse viva.

Nel deposito il tanfo era tremendo. Le esalazioni del pesce di molti anni si erano aggrumate alle pareti metalliche, le avevano impregnate di un odore nauseabondo che colpiva alla gola come un’ondata solida.

Il camion si portò in retromarcia fino al grande portale di entrata e compì l’operazione inversa a quella di carico. Spingendo sul piano inclinato, la zampa fu trascinata al centro dello stanzone semivuoto.

“Se anche comincerà a puzzare, non se ne accorgerà nessuno”, disse uno degli studenti.

Il professor Dinesen controllò i sistemi di raffreddamento e ne fu moderatamente soddisfatto.

“Se vanno bene per le aringhe”, disse, “immagino che andranno bene anche per questo pezzo di carne. Qualunque cosa esso sia”.

“Dopotutto, le aringhe sono l’orgoglio di Bornholm”, disse lo studente che aveva parlato in precedenza, il più loquace dei tre.

Si era fatta quasi mezzanotte. Jørgensen, che riteneva di aver svolto i doveri che gli competevano, si ritirò nella foresteria in cui risiedeva, mentre Dinesen e i suoi studenti si avviarono verso il loro alloggio a nord-est del paese. Stanco di una giornata che, dopotutto, aveva avuto una direzione, anche se non un senso, si preparò un piatto di uova e carne prima di andare a dormire. Ne mandò giù solo pochi bocconi, tuttavia, e gettò via il resto. L’odore di pesce rancido gli serrava ancora la gola.

All’indomani, erano appena passate le otto quando un uomo indiavolato fece irruzione nel suo ufficio, gridando come un ossesso:

“Dov’è? Dov’è? Perché non mi avete avvertito? Avevo il diritto di vederlo subito!”

Era alto, massiccio, rubizzo, la giacca aperta su una camicia di lana a scacchi con colori vistosi, e parlava con un marcato accento straniero. Jørgensen lo guardò senza capire.

“Sono il professor Andersen”, disse allora lo sconosciuto, ricomponendosi un po’. “John W. Andersen, della Duke University di Durham, North Carolina. Mi occupo degli scavi, su a Hammershus”.

“Veramente, credevo che fosse il professor Dinesen…”, cominciò a dire Jørgensen.

“Quell’imbecille! Quell’asino! Quel pallone gonfiato!”, lo interruppe l’altro, mostrando un’eccellente preparazione per quanto riguardava le espressioni più colorite del danese. “Non sa fare altro che ronzare intorno agli scavi e sputare sentenze. Non invidio i suoi studenti che devono averlo sempre addosso come una cimice. Quanto a me, ritengo che sia più utile dare l’avvio a una ricerca, fornire stimoli e idee, e poi seguirla dalla distanza, senza influenzarne gli esiti con la presenza ingombrante di un maestro saccente. Non so se lei sia d’accordo”.

Jørgensen non rispose né il professor Andersen si attendeva risposta. Lo sfogo doveva comunque aver contribuito a calmarne i bollori, perché quando riprese i suoi toni erano più pacati:

“Solo stamani ho appreso da uno dei ragazzi che la nostra impresa ha condotto a una scoperta inattesa. Gradirei di vederla”.

“Il professor Dinesen ha le chiavi del deposito in cui è custodito ciò che è stato dissotterrato nel sito di Hammershus”, ribatté Jørgensen.

“Il professor Dinesen è introvabile. Probabilmente si trova agli scavi e in ogni caso i nostri rapporti sono ridotti al minimo indispensabile. Quando il minimo non è indispensabile, preferisco evitarlo”.

“Beh”, rispose Jørgensen, “dovrebbe esserci un’altra chiave giù al magazzino. Venga con me, l’accompagno”.

[singlepic id=640 w=480 h=300 float=right]Si avviarono verso il molo dove gli ultimi pescherecci rientravano dalla nottata e scaricavano le loro merci sulle calate. Jørgensen vide subito dalla distanza che il vano d’ingresso della ghiacciaia era aperto, e quando arrivarono sulla soglia ciò che sospettava ebbe conferma. La carcassa non c’era più. Una chiazza opaca ne segnava ancora la posizione nella sala quadrangolare e una larga scia untuosa si dipartiva da essa, allungandosi verso l’esterno. Jørgensen pensò che il professor Dinesen avesse trovato il modo di trasportare il reperto, forse con un camion, forse addirittura ingaggiando un’imbarcazione attrezzata per la conserva del pesce, soffiando così la gloria della scoperta al suo collega che non lo amava troppo e che non doveva troppo amare. Ascoltò quindi con rassegnazione le contumelie di Andersen e non tentò neppure di calmarlo.

A un tratto, tuttavia, l’americano si azzittì, fissando un punto dinanzi a sé e facendosi ancor più paonazzo. Jørgensen si volse. Il professor Dinesen stava risalendo la strada, diretto alla loro volta. Senza degnare di un’occhiata il collega, si affacciò sulla soglia del magazzino, poi, come percorso da una scarica elettrica, si voltò verso Andersen e, puntandogli contro il bastone, si mise a inveire:

“Che cosa ne hai fatto? Perché sei stato tu, vigliacco, confessa!”

“Tu, tu hai organizzato questa pagliacciata, questa messinscena”, passò al contrattacco Andersen, per niente intimidito. “Uno sporco trucco per rubarmi la scena. Lo so, ti conosco. Dimmi dove hai nascosto quello che abbiamo trovato!”

“Che ho trovato, vorrai dire”, puntualizzò Dinesen. “Mentre tu ti sollazzavi nei tuoi locali equivoci. Canaglia che fingi di essere uno scienziato, uno studioso, esecrabile esempio per la gioventù!”

Jørgensen pensò che non c’erano locali equivoci a Sandvig, solo tre o quattro taverne che servivano birra scadente, ma si guardò bene dall’intromettersi. Il professor Dinesen aveva appena finito di dar corpo al suo disprezzo, che sbiancò all’improvviso, dilatò le pupille e, mentre ulteriori insulti gli gelavano sulle labbra in una smorfia, crollò pesantemente sulle gambe.

“Una sincope”, esclamò il professor Andersen, accorrendo al suo fianco. Gli sollevò le palpebre e scoprì gli occhi che mostravano il bianco. Accorsero dei pescatori, fu chiamata un’ambulanza.

Mentre il povero professor Dinesen veniva trasportato verso Rønne, dove sorgeva l’unico ospedale dell’isola, Andersen mormorò a Jørgensen che sarebbe salito allo scavo per annunciare la notizia del malore occorso al collega agli altri membri del gruppo. L’investigatore lo guardò allontanarsi con il suo passo aitante, e pensò che l’uno o l’altro certo doveva aver mentito. Ma quale dei due? E perché?

[singlepic id=637 w=400 h=320 float=left]Quel pomeriggio, verso le due, ci fu il primo attacco. Jørgensen stava scrivendo un rapporto sugli eventi della sera precedente, da inviare al comando per giustificare l’utilizzo del camion, e faticava a trovare le espressioni giuste, quando con la coda dell’occhio colse un movimento nello spicchio di cielo sopra le case, nella finestra alla sua sinistra. Sollevò lo sguardo, non vide niente e pensò a un uccello. Un gabbiano, forse.

Il movimento si ripeté, e questa volta Jørgensen ebbe l’impressione di grandi ali e di lunghe zampe. Eppure, anche se la primavera si mostrava straordinariamente mite, era ancora troppo presto per le gru e le cicogne. Mentre fissava incuriosito l’azzurro venato di alti cirri, lo vide di nuovo e contemporaneamente iniziò a sentire le grida. Subito balzò in piedi e si precipitò fuori.

Sulla strada si era già radunato un certo numero di persone che guardavano in alto e puntavano le dita. Qualunque cosa fosse, non era un uccello. Aveva ali enormi e arcuate che battevano l’aria producendo un rumore stranamente soffuso, ma sembrava piuttosto un mostro preistorico, simile a quelli che illustravano le tavole dell’enciclopedia alla voce “Giurassico”, o alla pubblicità di quel nuovo film americano di cui tutti parlavano proprio in quei giorni, anche se il suo colore non era grigio come su una pellicola, ma bruno violaceo.

La creatura volteggiò due o tre volte sopra il villaggio, librandosi alta, poi puntò il capo dal lungo collo crestato e dal naso camuso, culminante in un becco corneo, verso un punto indefinito, a sud, e si lanciò in picchiata, emettendo per la prima volta un grido acuto, inarticolato, terrorizzante.

Jørgensen si rese conto di quale doveva essere il suo bersaglio ancor prima di correre con il resto della folla verso lo spiazzo aperto del porto, dal quale lo sguardo poteva spaziare su tutta la baia. C’era la chiesa di Sankt Nicolai, là in fondo, posta al culmine di una bassa collina da cui dominava il tappeto degli edifici sottostanti. Quando la figura volante si abbatté su di essa, se ne poté apprezzare appieno la mole. Il suo corpo in piena estensione corrispondeva all’intera lunghezza della facciata con il campanile. Appollaiata sulla fiancata come un doccione gigantesco, la bestia scoperchiò il tetto con un solo colpo di coda, poi voltò il muso ed eruttò un getto di fiamma nell’interno devastato, dall’alto.

Nel fumo nero che si levava mentre la chiesa cadeva in macerie, l’essere lanciò un nuovo richiamo esultante, quindi riprese il volo, stavolta diretto a nord-ovest. Mentre passava sopra la gente di Sandvig attonita e sbigottita, Jørgensen vide bene la forma delle sue zampe, i triplici artigli affilati. Poi la sua sagoma svoltò il promontorio, nella direzione in cui si trovava Hammershus.


Jørgensen Trovò il professor Andersen al terzo tentativo, a un tavolo del “Gylden Stjerne”, tra marinai vocianti e il fumo di pipa che si mescolava all’odore del pesce e dei cetrioli sottaceto.

“Come vuole che sia possibile?”, disse questi, affondando il viso nella birra. Diverse bottiglie vuote già si facevano compagnia sul tavolo. “Un corpo morto non può ritornare alla vita, e tantomeno un pezzo di un corpo morto, ricostruendosi intorno, oltretutto, le parti mancanti. E comunque”, concluse con aria di recriminazione, “io non ho visto nemmeno quel pezzo. Come posso sapere di che cosa si tratta?”

“Eppure io l’ho visto”, insisté Jørgensen, “e le assicuro che era identico alla zampa del mostro”.

“Me lo descriva ancora, quel mostro. Che aspetto aveva?” Andersen era tra i pochi a Sandvig che non avessero assistito all’incursione della creatura volante, perso com’era nella contemplazione delle geometrie che le piastrelle di ceramica assumevano sulla superficie del suo tavolo.

“Sembrava un rettile più che un uccello”, rispose Jørgensen per l’ennesima volta. “Anche se aveva gli artigli e una specie di becco, e volava”.

“Un leviatano preistorico”, mormorò il professor Andersen. “Per quanto l’emissione di fuoco faccia pensare piuttosto ai draghi delle leggende”.

“Non si tratta di leggende, in questo caso”, ribatté Jørgensen. “Un uomo è morto in modo orrendo e altri potrebbero subire la stessa sorte”.

“Se mi permette, anche in questa morte c’è qualcosa di strano”.

Era vero, Jørgensen non poté fare a meno di convenirne. L’aggressione del mostro aveva distrutto la chiesa che per fortuna in quel momento era deserta, ma il getto infuocato, oltre a incenerire i paramenti sacri e gli arredi, si era propagato alla canonica adiacente dove abitava il pastore con la sua famiglia. Il sacerdote si trovava nel suo studiolo a preparare il sermone per la domenica, e una lingua di fuoco l’aveva raggiunto, fulminandolo. Il suo corpo carbonizzato era stato scoperto dalla moglie che riposava nella stanza adiacente ed era stata miracolosamente risparmiata, così com’erano rimasti illesi i tre bambini che si trovavano al piano superiore.

“È come se quella vampata possedesse un’intenzione, una volontà”, seguitò Andersen. “E anche questa è una cosa impossibile”.

“Professore”, disse Jørgensen con voce grave. “Devo chiederle di sospendere gli scavi a Hammershus. Ora è lei l’unico responsabile”.

“Lo sono sempre stato. Più o meno”.

“Comunque sia. Abbiamo visto il mostro volare in quella direzione e riteniamo che abbia lì la sua base, nelle grotte presso il promontorio. Potreste trovarvi in mortale pericolo”.

“Non è solo questo il motivo, non è vero, investigatore?”

“No, non è solo questo”, ammise Jørgensen con riluttanza. “La gente qui a Sandvig mormora. Dicono che avete stuzzicato il Popolo Sotterraneo con le vostre ricerche. Che avete portato alla luce ciò che deve restare sepolto. La popolazione è sconvolta, ed è meglio che vi fermiate da soli prima che vi fermino loro”.

Il professor Andersen annuì con una smorfia di disappunto. “Conosco la gente di qui”, disse, “conosco le loro storie. Le ho detto che mio padre era originario proprio di quest’isola, che veniva da Svaneke?” Sorrise con aria beffarda. “E così, pensano che il vecchio Krølle Bølle abbia mandato all’attacco le sue legioni, eh? Ma non importa. Lo scavo è comunque chiuso, almeno fino a quando il professor Dinesen non si rimetterà in sesto. Se si rimetterà in sesto. Io non ho alcuna autorità sui suoi studenti e la squadra degli operai non può portare avanti il lavoro da sola. Ma io resterò qui. Mi consideri a sua disposizione, investigatore. Dopotutto, io sono uno scienziato, e deve esserci una soluzione scientifica a questo mistero”.

Non disse quale, però, né di quale scienza.


Il secondo attacco arrivò quella sera, poco dopo le dieci. Jørgensen si stava preparando per andare a dormire quando avvertì il rumore di battiti nell’aria smossa, all’esterno, come un ciclopico fruscio. Fece appena in tempo a precipitarsi fuori che il mostro emise il suo grido.

Sulla piazzetta in cui sorgeva la stazione di polizia si era raccolta una piccola folla che guardava in alto. Il cielo era nero, gonfio di nubi, e il vento portava a sprazzi una pioggia pesante. Non era facile distinguere la figura guizzante della creatura alata, ma tutti colsero il risucchio della picchiata poco sopra di loro. Poi videro il lampo e il fuoco, e sentirono di nuovo il grido.

Questa volta il bersaglio sembrava essere più vicino, nel cuore dell’abitato. Jørgensen corse insieme agli altri verso le fiamme che si levavano alte. Fu sufficiente svoltare due isolati per trovarsi di fronte allo spettacolo dell’incendio. Era l’edificio della scuola a bruciare e le sue pareti basse di legno esplodevano al calore con crepitii assordanti.

Qualcuno già accorreva con i secchi e le balle di sabbia, e anche Jørgensen prestò una mano, ma sapeva quanto fosse inutile. Nel giro di un’ora della scuola di Sandvig, chiusa e vuota a quell’ora, non restavano che ceneri e le fondamenta annerite.


Jørgensen incontrò il professor Andersen all’ora di pranzo, al “Rytterknægt”, dopo aver trascorso la mattinata in una ricognizione a Hammershus. Il sito degli scavi era abbandonato e nell’aria percorsa da dita di nebbia la fortezza appariva sinistra con i suoi muri sconnessi che sembravano abbattuti da un gigante furioso. Non c’erano segni del mostro, tuttavia, e la buca nella quale era stato recuperato il frammento che aveva dato inizio a quella storia gli era sembrata una cicatrice innocua, insignificante.

“Non l’ho visto nemmeno questa volta”, disse Andersen di fronte a un piatto abbondante delle famose aringhe locali servite con cipolla e salsa di rafano. “Mi sono precipitato in strada come tutti, ma era notte. Lei può dire di averlo visto, con quel buio?”

“Non questa volta, no”, rispose Jørgensen. “Ma non ho bisogno di averlo visto per sapere che c’era”.

Jørgensen ordinò a sua volta un piatto di polpette e della birra.

“Perché non assaggia queste aringhe?”, lo incitò Andersen. “Sono deliziose, sa?”

“Le conosco”, rispose Jørgensen. Erano due giorni ormai che l’odore delle aringhe gli dava la nausea. Poi, all’improvviso, sentì un rumore noto venire da fuori, dalla finestra aperta. “Questa volta non potrà fare a meno di vederlo anche lei”, disse scattando in piedi. “Venga, presto”.

Andersen gli tenne dietro, senza dimenticare di portare con sé la sua bottiglia di birra. Il “Rytterknægt” sorgeva in un vicolo nei pressi del porto e in pochi secondi furono sul lungomare. La creatura volante era lì, bassa nel cielo, che incrociava al largo sopra le acque, volteggiando tra impennate e discese fin quasi a sfiorarne la spuma.

La gente sostava immobile, negli sguardi di tutti una sorta di vuoto, come se si fossero assuefatti all’orrore. Alcuni ragazzini che dovevano aver approfittato della chiusura della scuola e della vacanza forzata per dedicarsi ai loro passatempi, fissavano come impietriti le evoluzioni del mostro da una spianata appena oltre il molo, tra il mare e le dune. Fu su di loro che la creatura volante puntò all’improvviso. Compì un arco nel cielo, battendo l’aria con le ali possenti, e si lanciò come un fuso lungo una linea retta, il muso grifagno teso in avanti, gli arti inferiori ripiegati sotto il corpo come una fiera al balzo.

Fu un attimo. Il terrore nei ragazzini prese il sopravvento sulla paralisi che li teneva avvinti e la maggior parte di loro si diede alla fuga, disperdendosi tra le dune. In tre restarono indietro, tuttavia, e la bestia in picchiata fu loro addosso, ne atterrò uno con lo schianto delle sue ali, lo inchiodò a terra con le zampe protese. Con la sua preda immobilizzata tra gli artigli, piagnucolante, in deliquio, inarcò il dorso possente e il collo, poi li riabbassò con un movimento fluido e spalancò il becco. Dalle sue fauci, tuttavia, non scaturì l’enorme getto di fiamma che Jørgensen si attendeva e che aveva già visto in azione, ma una lingua sottile, un raggio infuocato che dalla distanza gli spettatori attoniti riuscirono appena a distinguere nel pomeriggio luminoso.

Il bambino a terra gridò, ma la sua voce fu sovrastata da quella del mostro che sembrò esultare di trionfo, prima di riprendere il volo e di sparire alla vista.

[singlepic id=641 w=424 h=300 float=right]Jørgensen fu uno dei primi ad accorrere in soccorso del piccolo Martin. Il ragazzino giaceva pietosamente svenuto mentre tutto intorno a lui si levava il fetore delle sue carni bruciate. Il suo corpo, in preda ai brividi per lo shock, era sorprendentemente intatto. La fiammata gli aveva incendiato i capelli fino alla radice e il suo cranio si presentava come una calotta ulcerata, violacea, il cuoio capelluto ustionato in modo orrendo.

“Se la caverà”, disse il dottor Utzon che si era precipitato sul posto con la sua valigetta di pronto soccorso, dopo aver prestato le prime cure.

Già, pensò Jørgensen. Ma chi sarebbe stato il prossimo?


“È incredibile come sia riuscito a controllare la sua emissione di fiamma”, disse il professor Andersen. Sembrava che ci fosse ammirazione stupita nelle sue parole.

“La domanda giusta è: perché l’ha fatto?”, ribatté Jørgensen.

[singlepic id=642 w=313 h=200 float=left]Questa volta il luogo del loro convegno era il “Louisekro”, uno dei locali più angusti e fumosi di Sandvig. Con questo, aveva pensato Jørgensen quando ne avevano oltrepassato la soglia, abbiamo quasi finito il giro. Restava solo il “Kongens Mad”, un ristorante troppo decente, sospettava, perché corrispondesse ai gusti dell’americano.

“Indubbiamente”, convenne Andersen, “sembra che quel mostro persegua uno scopo con le sue scorrerie. Sembra. Ma forse siamo noi ad antropomorfizzarlo troppo. A proiettare su di lui i nostri comportamenti e i nostri pregiudizi”.

“Uno scopo non so. Ma certo sembra che ci sia un’intenzione dietro le sue azioni”.

“Può essere stato benissimo il caso a guidarlo nella sua sequenza di devastazioni”.

“Sarà”, disse Jørgensen come a se stesso. “Eppure gli indizi sembrano dire altrimenti, anche se la chiave ci sfugge. Ed io devo mettere insieme gli indizi ed elaborarne teorie. Gli indizi non saranno che apparenza, ma non conosco altro modo. È il mio lavoro”.

“Anche il mio”, rispose Andersen. “Anche il mio”.


La quarta incursione avvenne verso le otto di quella sera, poco dopo che Jørgensen e il professor Andersen si erano lasciati. Molti degli abitanti di Sandvig non uscirono neppure all’aperto quando udirono il sibilo nel vento e il battere d’ali che stava diventando orrendamente familiare. La vicenda del piccolo Martin aveva dimostrato che era inutile cercare un rifugio fuggendo, che il mostro poteva colpire ovunque e come voleva. E tuttavia chi uscì a guardare, o chi si trovava già fuori, vide l’enorme sagoma alata precipitarsi dal cielo.

Coloro che sostavano in Store Torv, nella piazza principale del paese, credettero che la loro ora fosse giunta. Come un bolide celeste la creatura sembrò precipitasi su di loro, oscurando il cielo già vespertino. Interrompendo di colpo il suo volo, tuttavia, il gigante restò librato al di sopra della piazza. Così rimase per qualche istante, sfida vivente alle leggi di gravità nel tempo che sembrava congelato, poi, con una virata repentina, protese il collo in direzione del suolo sotto di sé e diresse il suo fiato ardente sul chiosco di legno, verniciato di bianco e di rosso, che vendeva pølser in mezzo alla piazza. Il suo proprietario, che osservava la scena sporto a metà fuori dalla finestrella del banco, non fece in tempo a ritrarsi. Le fiamme bruciarono le sue carni e quelle della sua merce in un’unica vampa grassa e scura.


Seduto alla sua scrivania, la mattina seguente Jørgensen fissava il foglio davanti a sé e cercava di capire. Aveva iniziato a stendere un rapporto, poi aveva rinunciato e si era messo a tracciare quattro punti su un piano orizzontale che corrispondeva a una mappa della zona, ognuno a designare un bersaglio colpito, la sua posizione e il suo nome. Tirando una linea tra loro, si otteneva una figura asimmetrica, una specie di rombo schiacciato. Ma che senso poteva avere? Non trovava risposte, e decise di chiedere consiglio al professor Andersen.

Lo raggiunse presso il suo alloggio, nell’edificio cadente sul quale, semicancellata, campeggiava ancora la scritta “Hotel Romantik”. Andersen era rimasto per il momento come unico ospite, custode dei macchinari della spedizione internazionale e delle ambizioni dello scavo interrotto, con la sola compagnia di una domestica, una donna sciatta intorno ai cinquant’anni, in tono con gli arredamenti polverosi e le suppellettili fuori moda.

“Questa configurazione non mi dice niente”, disse il professore dopo aver studiato per qualche istante il foglio che Jørgensen gli aveva sottoposto. “Una chiesa, una scuola. Sembrava aver iniziato colpendo gli edifici pubblici. Ma poi è toccato a quel bambino e al chiosco di salsicce. Non vedo il nesso. Se non l’ombra di una spaventosa fatalità”.

Dietro di lui la signora Bruun smise di spolverare il mobile finto rococò che guarniva il salone e si volse verso i due uomini sprofondati nelle poltrone intorno a un basso tavolino d’onice.

“Io un nesso lo vedo”, disse. Aveva parlato esitando, ma le parole successive le sputò fuori con disprezzo, quasi con rabbia: “La signora Sahl”.

“Che cosa intende dire?”, le chiese Jørgensen senza eccessiva speranza.

“Riguardo la scuola e quel ragazzino, non saprei”, rispose la donna, “ma Jeppe, il proprietario del chiosco, quello che è morto ieri sera, era il cugino della signora Sahl. E quanto al pastore Estridsen…” S’interruppe e arrossì leggermente prima di proseguire: “Potete chiedere a tutti in paese. Si dice che qualche anno fa ne sia stato l’amante”.


Anne-Sophie Sahl abitava in una casa dalle assi scrostate, dipinta molti anni prima di un verde che il tempo aveva sbiadito, in fondo al paese. Era vedova e viveva della pensione sociale con l’unico figlio, un ragazzo non ancora adolescente, nello spazio angusto di tre stanze disposte su un unico piano. Il collegamento è labile fino ad apparire inconsistente, pensava Jørgensen mentre percorreva la strada stretta, in leggera salita, che conduceva alla sua abitazione. Aveva lasciato Andersen al “Louisekro” e andava solo. E tuttavia è l’unica cosa che abbiamo, perché non tentare?

La signora Sahl, una donna sulla quarantina precocemente sfiorita, dalle occhiaie profonde e i capelli stopposi, ricevette Jørgensen nella cucina, evitando di guardarlo negli occhi. Per qualche istante solo il borbottio dell’acqua che bolliva in una pentola sopra la stufa ruppe l’imbarazzato silenzio. Nella camera adiacente Jørn, il ragazzo, giaceva nel letto, solo il viso che spuntava dalle coperte pesanti, bianco come la cera, e li fissava attraverso lo stipite privo di porta. I suoi occhi erano febbrili e vivi, di un azzurro quasi latteo, e Jørgensen provò uno strano senso di disagio quando ne incontrò lo sguardo.

“Che volete che vi dica?”, disse la signora Sahl torcendosi le mani. “Ciò che sta succedendo è orribile. Mi dispiace moltissimo per quel bambino, e anche per il povero Jeppe”.

“E anche per il pastore Estridsen, suppongo?”, insinuò Jørgensen.

L’espressione della donna si fece dura e la sua voce tagliente:

“Sì, anche per lui. Ma per quanto sappia bene che non è da cristiani, devo dire che ha avuto soltanto ciò che si meritava”. La signora Sahl ritornò a un tono normale. “Scusatemi, sono stanca. Ho avuto il mio daffare con Jørn in questi giorni”. Indicò nella direzione della stanza vicina. “Ha una febbre che va e che viene e lo lascia spossato. Febbre di crescita, ha detto il dottor Utzon”, concluse abbassando la voce.

Jørgensen lanciò una nuova occhiata verso il bambino e si ritrovò addosso i suoi occhi sgranati.

“Ha bisogno di assistenza continua, capisce?”, disse ancora la donna.

“Capisco”, rispose Jørgensen. La preoccupazione che leggeva nelle sue parole e nella sua espressione, la sua normalità, erano in tale contrasto con l’orrore incombente sul paese che l’investigatore si sentì fuori strada, imbarazzato, confuso. Con qualche frase smozzicata salutò la signora Sahl e prese congedo. Non si volse a guardare mentre usciva, ma ebbe la certezza che gli occhi di Jørn continuassero a trafiggerlo come punte di spillo. E un’ipotesi prese a fare capolino nella sua mente.


Al “Louisekro” trovò il professor Andersen di fronte a un cimitero di bottiglie vuote. Quando Jørgensen gli raccontò le sue impressioni, l’americano sembrò colpito.

“Un adolescente, ha detto?”, gli domandò. I suoi occhi erano lucidi, ma la voce ferma.

“Quasi”, rispose Jørgensen. “Avrà dodici o tredici anni. Più o meno l’età di quel Martin”.

“È probabile che si conoscano, che siano amici”.

“O nemici”.

“Che frequentino la stessa scuola… già, la scuola!”, esclamò Andersen.

“Il collegamento sembra esserci”, disse Jørgensen, “anche se dobbiamo ancora verificarlo. E con ciò anche l’abbozzo di un motivo. Quello che non capisco affatto è il come. A meno di non ammettere sul serio la complicità di Krølle Bølle”.

L’esplosione di vitalità, quasi di entusiasmo da parte di Andersen lo colse di sorpresa.

“Ma, mio caro amico”, saltò su il professore, “è tutto chiaro, invece! Quel bambino è fonte di uno smisurato, incredibile potere psico-cinetico. Le sue potenzialità psichiche devono essere entrate in sintonia con qualcosa che giace sul sito degli scavi, sotto le rovine di Hammershus, e hanno prodotto la manifestazione che sappiamo. Io posso ben dirlo. Ho lavorato a lungo con il mio esimio collega, il professor Rhine, ho collaborato alle sue ricerche. Resterebbe di stucco, Jørgensen, se sapesse a quali miracoli ho assistito. Anche se i fenomeni di percezione extrasensoriale non sono precisamente il mio campo… Ma sono un uomo di larghe vedute, come lei avrà già compreso. Quello che conta nella scienza, in sostanza, è il metodo. Ciò che manca del tutto al mio povero collega Dinesen. Comunque sia: gli esperimenti condotti da Rhine hanno indicato in modo univoco che i poteri latenti nella mente umana tendono a esplodere nella fase puberale con furia incontrollabile, come se la tempesta ormonale che si scatena a quell’età sollecitasse le cellule corticali e mettesse in azione la parte sommersa della nostra mente, quel misterioso novanta per cento di materia grigia che resta per la maggior parte del tempo inutilizzato. Sono soggetti con quelle caratteristiche a produrre manifestazioni di poltergeist, di telecinesi, di preveggenza, e via dicendo. Questo caso, però, li batte tutti, è una vera miniera di prodigi”.

“Che cosa suggerisce di fare?”, chiese Jørgensen.

“Andiamo a casa della signora Sahl”, rispose il professor Andersen. “Voglio provare a ipnotizzare quel ragazzo”.


Questa volta, quando vide apparire Jørgensen in compagnia dell’americano, la signora Sahl non tentò neppure di mascherare la propria apprensione, ma protestò solo debolmente allorché le riferirono della loro intenzione di ipnotizzare suo figlio.

“Sta riposando”, disse piano con voce lamentosa. “Oggi la febbre non gli è salita. Si sta riprendendo, non deve affaticarsi”.

Jørgensen lanciò un’occhiata nella stanza vicina. Sul suo giaciglio il ragazzo era un fagotto coperto da coltri pesanti, da cui emergeva solo il capo riverso sui cuscini, il viso incorniciato da riccioli biondi, gli occhi chiusi nel sonno.

“Guardatelo, non sembra un angelo?”, disse ancora la signora Sahl.

“Ciò nonostante, signora, temo che dovremo interrogarlo”, ribatté Jørgensen con fermezza. “Prima, tuttavia, vorremmo porre qualche domanda a lei, se non le dispiace”.

La donna fece un rigido cenno d’assenso. Fu il professor Andersen a prendere la parola:

“Queste… febbri: quand’è che si sono manifestate?”

La signora Sahl esitò, incerta su un tempo che con ogni evidenza non era abituata a contare in ore e minuti, ma alla fine la sua ricostruzione non diede adito a dubbi. Negli ultimi tre giorni si erano verificati cinque episodi di innalzamento brusco della temperatura che avevano portato Jørn fin quasi al delirio, e con certezza pressoché assoluta avevano coinciso con gli eventi del ritrovamento della carcassa agli scavi e i successivi attacchi della creatura volante.

“Vede”, esclamò Andersen trionfante, rivolgendosi a Jørgensen, “è come le dicevo. In quello stato anormale il subconscio di Jørn deve aver prodotto quella mostruosità vivente. Da dove può averla tratta? Non certo dalla sua sola mente. È come se avesse attinto a un serbatoio di immagini e di conoscenze molto più vaste di lui, oltre i confini dello spazio e del tempo. Certo quel ragazzo ha un potenziale incredibile”.

La voce del professore si era alzata in toni acuti per l’eccitazione e doveva aver svegliato Jørn, perché Jørgensen, che continuava a lanciargli sguardi obliqui, vide che aveva aperto gli occhi e li teneva fissi su di loro.

“Bene”, disse Andersen che ne aveva a sua volta notato il risveglio. “È giunto il momento di fargli qualche domanda”.

Si avviò nella stanza vicina, sistemò accanto al letto un panchetto basso e, mentre gli altri due lo osservavano dal capezzale, estrasse dal taschino della camicia un orologio a catena. Jørn ne seguì i gesti con lo sguardo, in silenzio, e a un tratto Jørgensen comprese da dove scaturisse l’impressione che tanto lo turbava nello sguardo del ragazzo. Non batteva mai le ciglia.

Il professor Andersen prese a muovere l’orologio dalla cassa lucente di fronte ai suoi occhi, facendolo oscillare avanti e indietro a ritmo monotono, lento. La quiete dell’ambiente circostante ingigantiva il suo ticchettio.

Trascorse qualche minuto. L’espressione di Jørn non sembrava cambiata, ma Andersen iniziò comunque a porre le sue domande. Lo fece limitandosi a enunciare dei nomi, con intonazione monotona:

“Il pastore Estridsen”.

“Lo odiavo”. La voce di Jørn, che Jørgensen udì risuonare per la prima volta da quando era entrato in quella casa, era profonda, quasi cavernosa, e tuttavia venata da note stridule, sospesa nell’informità che sta tra l’età infantile e quella adulta. A quelle parole la mano della signora Sahl si tese a ghermire il braccio di Jørgensen, lo strinse con disperazione. “Aveva fatto del male alla mia mamma”, continuò il ragazzo. “Non meritava di vivere”.

“La scuola”, lo incalzò Andersen.

Anche in questo caso la risposta non si fece attendere, scandita senza emozione:

“Un luogo di sofferenza. Volevo che sparisse dalla faccia della terra. Che sparisse per sempre”.

Andersen sollevò per un istante lo sguardo a incrociare quello di Jørgensen, un lampo di trionfo negli occhi, quindi riprese:

“Martin Olsen”.

Il viso esangue di Jørn sembrò contrarsi, come sottoposto a una tensione intollerabile.

“Diceva che ero povero e sporco”. Ora nella sua voce le tonalità più stridenti avevano preso il sopravvento e le conferivano un andamento sincopato, raschiante. “Diceva che i miei riccioli erano i capelli del diavolo. Ora il diavolo si è preso i suoi, di capelli”.

Mentre la madre del ragazzo soffocava a stento un singhiozzo, il professore continuò implacabile:

“Jeppe, tuo cugino”.

Sulla fronte di Jørn una vena si contrasse, iniziò a pulsare lentamente. Sulle sue labbra le parole si formarono a fatica, una a una:

“Non… posso… dire… che… cosa… mi… ha… fatto…”

Nella tensione spasmodica di quei momenti, Jørgensen quasi non colse il rumore che si propagava dall’esterno, il noto battito d’ali. Fu l’ombra che si proiettò improvvisa nella stanza attraverso la finestra bassa dai vetri chiari a metterlo in allarme. Anche il professor Andersen doveva averla notata, perché interruppe il moto pendolare della sua mano e lanciò un’occhiata frenetica dietro di sé.

Troppo tardi. Un occhio gigantesco dall’iride smerigliata, rossastra, si profilò contro i montanti eclissando per un istante la luce, poi si ritrasse di scatto. Mentre il professore compiva un disperato tentativo di levarsi in piedi, un fiotto di fuoco infranse i vetri e lo colpì in pieno petto. Jørgensen si meravigliò di non percepirne la radiazione, come se tutto il calore fosse concentrato in un unico punto, ma mentre il grido del mostro risuonava questa volta così vicino da trapassare i timpani, Andersen avvampò di fiamma viva. La violenza dell’impatto e l’orgasmo dell’agonia lo scagliarono in avanti, sul letto, dove si strinse al ragazzo in un abbraccio sussultante e mortale.

Per pochi attimi i due corpi arsero avvinti, lasciando incredibilmente intatti il materasso di vegetale, le coperte, i cuscini, poi le fiamme rientrarono su se stesse, lasciando due cadaveri consumati. In quello di Jørn gli occhi erano ancora aperti, sbarrati. Solo a quel punto sua madre esplose in un pianto fragoroso, dirotto. Jørgensen la sorresse, a forza di braccia la trascinò fuori di lì, sulla strada, la adagiò piano sull’erba.

Non ebbe bisogno di sollevare gli occhi per sapere che il cielo era sgombro. E che lo sarebbe rimasto.


Il professor Dinesen ritornò dopo tre settimane assieme alla sua squadra. Jørgensen era stato informato del suo arrivo e lo attendeva sulla porta della stazione di polizia per consegnargli i permessi necessari.

Dinesen apparve in fondo alla strada, avanzò a fatica lungo l’acciottolato sconnesso. Il bastone, che prima era sembrato solo un vezzo, adesso era ciò che lo teneva aggrappato alla terra, e un rictus distorceva la parte destra del suo viso in una smorfia perenne.

Jørgensen lo salutò, gli andò incontro. Quando gli consegnò i documenti, il professore emise un gemito fioco, come a cercare la voce, ma le sue parole uscirono nitide, con una chiara nota di soddisfazione:

“Dunque torniamo al lavoro. Riprendiamo gli scavi”.

Jørgensen lo accompagnò a passo lento verso il piazzale dove i tre furgoni al suo seguito attendevano in sosta. Dinesen salì a fatica sul battistrada, prese posto al fianco dell’autista, e la breve carovana si mise in marcia. Jørgensen la osservò puntare a nord-ovest, verso il promontorio di Hammershus, e si chiese che cosa avrebbero trovato questa volta.

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Nasce a Seravezza (Lucca) l’8 settembre 1960, lavora presso l’Università degli Studi di Trento. Si occupa di letteratura tedesca di Ottocento e Novecento, ma al fantastico e alla fantascienza ha dedicato e dedica un impegno non secondario come autore con racconti e romanzi su “Urania” e “Robot”, anche in coppia con Stefano Carducci.