Il presente articolo è già apparso nel quarto volume di “La Storia di Urania”  pubblicato da Luigi Cozzi (Edizioni Profondorosso), con il titoloI fabbricanti di universi.” Qui l’articolo appare arricchito di alcune illustrazioni che non erano presenti nella prima pubblicazione. Ringraziamo Luigi Cozzi per averci concesso l’autorizzazione a pubblicare.

Aprii gli occhi nel 1943, ma li spalancai nel 1944, sulle colossali volute di fuoco rosso che si trasformavano in ribollenti cumuli di fumo nero. Era il mese di aprile, e avevo sette mesi di vita. Il Vesuvio stava eruttando. Nel 1953, due copertine dei Romanzi di Urania fecero il resto.

I nomi altisonanti di A. E. van Vogt e di Jack Williamson incutevano soggezione, mentre l’astronave accanto ai tralicci della torre di lancio, con i due astronauti che stanno occupandone il fuso aguzzo, e la prospettiva dei grattacieli sullo sfondo, mi riempivano di meraviglia. Quasi la stessa che provavo nell’osservare il ranforinco in volo contro il cielo crepuscolare, e la testa della lupa bianca, a fauci spalancate, sul paesaggio illuminato da una cruda luce citrina che crea un forte contrasto con le ombre dei picchi lunari che C. Caesar aveva dipinto rispettivamente per i due libri: Il segreto degli Slan e Il Figlio della Notte.

Vedere quelle copertine e innamorarmene fu tutt’uno. Autentico amore a prima vista. Solo in seguito scoprii che non era la prima volta che vedevo opere di Caesar, ma il fatto che mi avessero regalato quei due fascicoli, che potessi sfogliarne il contenuto, tornando più e più volte a scrutarne la copertina, mi impediva quasi di pensare ad altro.

In quel periodo avevo undici anni, avevo iniziato a frequentare le scuole medie e i miei interessi si concentravano sul disegno, la pittura (i miei approcci coi colori, dovrei dire), qualche fumetto disneyano e un po’ di cinema. Mi interessava la zoologia (l’entomologia, più che altro), un po’ di botanica e mineralogia. E l’astronomia, naturalmente. I cieli tersi delle notti all’interno della Val d’Ossola, quando la parola inquinamento non era abbinabile né alla qualità dell’aria né al disturbo provocato dalle fonti luminose artificiali odierne, permettevano di restare incantati sotto lo spettacolo della volta stellata.

Apprezzavo la musica ma non intendevo impararla, e mi stimolavano ancor meno le materie scolastiche. A parte grammatica, storia, geografia, scienze e, ovviamente, disegno, col resto tendevo ad averci a che fare il meno possibile. Frequentavo una scuola ad avviamento professionale commerciale, e se tolleravo senza problemi le ore di stenografia, dattilografia, e merceologia, quelle di matematica, computisteria e pratica commerciale non riuscivo proprio a digerirle. Il tedio mi spingeva a riempire pagine e pagine di quaderno con disegni improvvisati a penna biro, matita o pastello, tutti invariabilmente di spunto fantascientifico. Astronavi, mostri e paesaggi alieni, apparecchiature bislacche e figure in tuta spaziale o meno, si alternavano sui fogli a righe o quadrettati, ispirati dalla voglia di sfuggire alla noia di quelle ore di lezione. Più o meno attenta all’oratoria dell’insegnante di turno, la classe, coi suoi mormorii, bisbigli e lazzi estemporanei appariva tanto più normale di me, che me ne stavo quasi sempre agli ultimi banchi, in silenzio, intento alle mie personalissime elaborazioni. Troppo intento, evidentemente, perché spesso e volentieri il docente notava proprio quel mio singolare quanto sospetto raccoglimento, e mi chiamava a consegnare quello che stavo facendo. Non essendo esattamente appunti sulla lezione ciò a cui mi stavo dedicando, l’opera veniva sequestrata e finiva in fondo a un cassetto della cattedra. Mi piace pensare che evitassero di apporre note sul mio diario, ricorrere a reprimende o pretendere convocazioni genitoriali perché, dopotutto, riconoscevano nei miei disegni una certa qualità e suggestione.

Onestamente, devo ammettere che non ero esattamente uno studente diligente. A casa sbrigavo i compiti in fretta, pronto a dedicarmi alle mie scorribande campestri, soprattutto nelle stagioni miti. Poi, quand’ero ispirato, mi rivolgevo completamente al disegno e al rifacimento di qualche soggetto che mi aveva particolarmente colpito. Le copertine degli Urania avuti in regalo furono le sole che non pensai affatto di ricopiare. Le possedevo e non era necessario che sprecassi tempo per rifarle, anche perché mi rendevo conto che non sarei riuscito nemmeno un poco a eguagliarne la qualità e il dettaglio. Se mi ero preposto di farlo con quelle dei fascicoli che mi davano in prestito, fu proprio perché non pensavo che prima o poi avrei potuto recuperarli. Nel complesso, per quanto piacevole, fu un’impresa abbastanza improba. Mi permise, però, di svolgere un esercizio che altrimenti non mi sarebbe capitato più. Ed è con l’esercizio che si impara il mestiere, arrivando gradualmente ad acquisire la competenza per intraprendere l’attività.

Non conoscevo la parola “autodidatta”, e doveva passare qualche tempo ancora prima che mi ci imbattessi, ma era esattamente ciò che ero diventato. Mi impegnai anche nella lettura di quei due libri e, un poco alla volta, imparai le mille sfaccettature della narrativa fantascientifica, appassionandomene al punto di tentare di trasmettere il contagio al mio gruppo di amici. Anche se loro rimasero piuttosto refrattari all’argomento, devo riconoscere, però, che non mi riservarono quell’aria di sufficienza e commiserazione che viene concessa a coloro che si sono fissati su un’idea balorda.

Se proponevo di andare in campagna durante qualche serata estiva per vedere le stelle cadenti, mi seguivano volentieri e accettavano di conversare sull’eventualità che nell’universo, da qualche parte, vi fossero altre creature. Lo scherzo e l’ironia non mancavano di venir fuori, talvolta, ma ne eravamo tutti partecipi, io per primo. Eravamo un gruppo affiatato, e Bruno, Franco, Guido e Italo mi tenevano davvero in considerazione, visto che quando capitava che trovassero fumetti o storie inerenti all’argomento che mi interessava, me li segnalavano o, addirittura, me li procuravano.

Per mio conto, se nelle serate limpide mi beavo di osservare le costellazioni, durante i miei giri quotidiani, quando mi ero liberato dall’incombenza dei compiti scolastici, mi mettevo a caccia dei numeri arretrati di Urania che, come avevo scoperto, venivano esposti nello spazio riservato alle pubblicazioni tascabili di seconda mano, presso l’unica bancarella di libri esistente in città, situata a poca distanza dalla stazione ferroviaria di Domodossola. Si trovava proprio sul corso, a un passo dalla sala cinematografica omonima, in cui avevo visto tantissimi film, fantascientifici o meno.

Urania era diventata la mia passione. Dopo aver ricopiato un buon numero di copertine dei fascicoli che mi avevano dato in prestito, destinavo i miei risparmi all’acquisto delle copie usate della collana che mi mancavano – ed erano parecchie – che le avessi ricopiate o no. Ovviamente, approfittavo di gite occasionali e dei periodi di vacanza da zii e conoscenti per continuare la ricerca in altri luoghi, quando mi imbattevo nei venditori di libri usati. Bancarelle-di-Libri-e-DischiUn’autentica spedizione la compii a Napoli, accompagnato dallo zio a cui ero maggiormente affezionato, il quale mi condusse nelle vie del capoluogo campano dove si concentravano botteghe e negozietti di libri d’occasione. L’usato era a disposizione del pubblico solitamente vicino all’ingresso, e il mio occhio allenato individuava immediatamente i pezzi che mi interessavano. Ansioso di impossessarmene, nemmeno mi soffermavo a dare un’occhiata al resto della mercanzia.

Quella giornata rimane memorabile per la quantità di romanzi recuperati e per il peso che si era accumulato al termine della fruttuosa battuta. Il sacco da spiaggia di cui ero munito mi aveva massacrato le spalle scottate dal sole dei primi giorni trascorsi al mare. Certamente stanco mio zio Giovanni, stoico e dolorante, ma soprattutto felice io, tornammo in serata a casa, dove potei gustarmi dopo la cena che ci attendeva, la bellezza di tutte quelle copertine viste solo di sfuggita nel momento stesso in cui le avevo scoperte, in tutta fretta proprio per aver maggior tempo da dedicare alla ricerca, per poter passare velocemente al negozio successivo.

 

Avrei difficoltà a stabilire se avevo messo insieme più Urania in quell’occasione o durante il periodo complessivo durante il quale avevo vissuto a Domodossola. Ma non escludo che il record lo stabilii quella volta, proprio a Napoli, non fosse altro che per il bruciore provato dalle mie povere spalle martoriate che mal sopportarono per parecchi giorni anche il pur esile contatto col cotone delle camicie estive.

Anche i pezzi rintracciati a Bergamo, durante il soggiorno di un paio di settimane presso altri zii, mi hanno lasciato un loro particolare ricordo, così come quelli trovati qua e là tra Genova e Castellammare. A Padova, dove trascorsi l’ultimo periodo del servizio militare, venni in possesso del romanzo C’era una volta un pianeta…, speditomi da Bologna da un compagno di camerata appena congedato, il quale, condividendo la mia passione, mi aveva promesso di procurarmelo qualora la bancarella, dove l’aveva visto durante la sua ultima licenza, non l’avesse ancora venduto. È bello e confortante che qualcuno si ricordi di noi, come fece Renato Fusconi con me benché non fosse tenuto a mantenere l’impegno, in quanto era probabile che il libro non fosse più disponibile.

Finalmente terminò anche il mio periodo di leva. Tornai a Domodossola e mi recai alla nuova abitazione dove la mia famiglia si era trasferita nel frattempo. Per il trasloco, i miei avevano anche accuratamente imballato la collezione uraniana insieme alle poche cose mie recuperate dal vecchio indirizzo. Nei giorni seguenti allineai tutto sui ripiani di un pratico armadio sistemato nella stanzetta che mi avevano riservato e mi organizzai per un viaggio a Milano per riprendere contatto con la Mondadori.

Prima di ricevere la cartolina-precetto dell’Esercito Italiano, avevo fatto in tempo a fare qualche visita alla sede di via Banca di Savoia per farmi conoscere e per parlare dei miei progetti. Ero stato ricevuto da Andreina Negretti, già da tempo segretaria redazionale di Urania, e avevo incontrato Laura Grimaldi e Gianfranco Orsi, del Giallo. Erano stati tutti cordiali, pur senza permettermi di farmi eccessive illusioni. Avevo conosciuto anche Anita Klintz, art director della Casa Editrice, e lei mi aveva accennato al contenuto di un libro che Urania doveva pubblicare, La lunga ombra della fine, suggerendomi di elaborare qualcosa a riguardo. Naturalmente mi ci ero cimentato, ma figuriamoci se, inesperto come ero, potevo competere con un professionista già introdotto e collaudato qual era Karel Thole.

Mi ero ripresentato alla Mondadori con un lavoro che mostrava la prospettiva di una strada cittadina invasa dalle sabbie, disseminate di corpi umani semisepolti. Era una scena troppo scontata, anche per quei tempi; certamente eseguita in modo dilettantesco. Era un test artistico, in fondo, e avrei dovuto mostrare ben altro per suscitare un maggiore interesse. Quando il romanzo apparve in edicola, però, mi consolai osservando che l’artista olandese aveva prodotto una copertina certamente professionale ma, a mio modo di vedere, del tutto priva di suggestione. Questo servì a non farmi perdere le speranze.

Giunto a Milano, i capelli che recavano ancora tracce del taglio militare, scoprii che le redazioni dei periodici erano state trasferite in via Quaranta. Gli uffici occupavano un complesso a moduli cubici, un prefabbricato che, pur nella sua modernità, non possedeva alcunché della sobria architettura della sede originale. I quindici mesi trascorsi al servizio dell’Esercito non avevano impedito ai miei interlocutori di ricordarsi di me, ma l’assenza mi aveva sicuramente sfavorito e, se per un autodidatta è alquanto arduo trovare sistemazione all’interno di un’importante azienda editoriale, la mancanza di rapporti che c’era stata durante quel periodo rappresentava un altro inconveniente.

Ripiegai su un piccolo studio artistico che aveva recentemente aperto le porte a chi avesse la stoffa giusta per intraprendere una collaborazione per una serie di libri sulla vita degli animali. Faceva al caso mio, anche perché volevo comunque – fantascienza o meno – occuparmi di illustrazione. Il lavoro mi consentiva di rimanere a Milano, di essere indipendente e, qualora si fosse presentata l’occasione, di farmi trovare presente e disponibile per un’eventuale convocazione. Mi ero rassegnato a pazientare, e mi andava bene il fatto di essere occupato a un argomento che mi piaceva.

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Karel Thole secondo Festino

Incontrai Karel Thole proprio in quel laboratorio di produzioni editoriali, situato in Corso Italia, a pochi passi da via Bianca di Savoia. L’artista era venuto su invito di Rinaldo D’Ami, il titolare dell’agenzia, il quale lo aveva interpellato per coinvolgerlo nella realizzazione dei volumi di zoologia, affidandogli l’esecuzione di alcune tavole di carattere ittico. Thole accettò. Essendo il successore di Caesar per le copertine di Urania, si trovò fin da quello stesso giorno a subire l’assalto (discreto, devo dire) della mia curiosità. Scoprii che condividevamo opinioni simili circa l’opera di molti artisti, e la sua carica di simpatia e comunicativa favorì la nostra conoscenza. In seguito ci frequentammo più assiduamente. Nel frattempo io avevo concluso quello che potrebbe definirsi il mio periodo di “apprendistato”, e operavo con vari altri committenti, pur senza aver avuto una sola occasione per fare qualcosa in campo fantascientifico.

Mi ero sposato, ero diventato padre di un maschietto e iniziavo a essere conosciuto in ambito editoriale. I tempi erano maturi per un rilancio della fantascienza, benché non me ne fossi ancora accorto. A Roma avevano inaugurato una rassegna cinematografica che proponeva agli appassionati del genere fantastico film degli anni ’50 e ’60, e il successo dell’iniziativa spinse gli organizzatori a riproporre l’operazione nel capoluogo lombardo. Era una magnifica occasione per mettermi alla pari con ciò che mi ero perso da ragazzo e per rivedere pellicole che mi avevano lasciato un bel ricordo. Oltre tutto, potevo entrare in contatto con qualche “addetto ai lavori” che non faceva parte della Mondadori.

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Angelo De Ceglie visto da Festino

Il mio nome cominciò a circolare tra il pubblico degli appassionati milanesi grazie all’intervento di un fan che aveva avuto modo di vedere qualcosa della mia produzione inedita. Il compianto Angelo De Ceglie mi aveva chiesto di preparare le copertine per Vox Futura, la sua pubblicazione amatoriale, e il primo disegno indusse Vittorio Curtoni, direttore della neonata Robot, a offrirmi di collaborare alla rivista. Avevo fatto il mio ingresso da professionista nel mondo della sf.

Ritrovai Karel Thole a Ferrara, in occasione della seconda edizione dello S.F.I.R. La manifestazione ospitava, tra gli altri, scrittori stranieri quali John Brunner, Pierre Barbet e il mitico Theodore Sturgeon. Il numero di Robot che conteneva il mio esordio in qualità di illustratore specializzato sarebbe arrivato nelle edicole il mese successivo, ma ciò che avevo portato con me suscitò un discreto interesse fra i presenti. Sturgeon arrivò a chiedermi il permesso di fotografare un dipinto che, come mi fece notare qualcuno, sembrava ispirato al suo Cristalli sognanti.

Da quella volta rimasi in contatto con Karel. Avendo smesso da un pezzo di recarmi alla Mondadori in quanto non collaboravo con nessuna delle redazioni, non avevo motivo di arrivare fino a Segrate, dove l’azienda aveva stabilito la propria sede. Ci si incontrava in città, quando i rispettivi momenti liberi coincidevano, e andai a trovarlo anche a casa sua, restando allibito di fronte alla quantità di libri e materiale documentario che possedeva. Mostrava molto interesse per il mio lavoro, e mi parlò del suo più importante cliente tedesco, la Heyne Verlag, specializzata in tascabili. A Brighton, nel 1978, mi fece incontrare il responsabile della collana di sf di quella Casa Editrice, attraverso il quale iniziarono i miei contatti con l’editoria straniera. In quella circostanza, alla vigilia dell’attribuzione dei premi Hugo di quell’anno, vissi momenti esaltanti nell’incontrare autori del calibro di Arthur Clarke, Fritz Leiber, Jack Williamson, le cui opere avevo letto proprio sulle pagine di Urania.

Dopo quell’esperienza, soddisfatta la necessità di lavorare in campo fantascientifico (Robot e i libri che sceglievo di illustrare per la Heyne mi tenevano più che occupato), gli incontri con Thole si erano fatti più assidui. Arrivammo a coinvolgere altri professionisti, e ne scaturì una sorta di cenacolo mensile che arrivò ad aggregare un numero considerevole di illustratori, disegnatori e grafici.

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Giuseppe Lippi (Festino)

La chiusura di Robot coincise con quel periodo, e il maggior tempo disponibile mi condusse nuovamente alla Mondadori, alla ricerca di collaborazioni non necessariamente del tipo che preferivo. Giuseppe Lippi, che avevo conosciuto alla mia prima partecipazione ferrarese e che aveva sostituito Curtoni alla redazione di Robot prima della sua cessazione, ora lavorava agli Oscar Mondadori; la sua presenza a Segrate forniva a me e a Curtoni l’opportunità di incontrarci di tanto in tanto, e fu in una di queste occasioni che la redazione del Giallo mi affidò di realizzare per loro qualcosa. Si trattava di creare un’immagine che sarebbe servita come copertina per la riedizione italiana del romanzo di Robert Block, Psycho, e del seguito, in corso di traduzione. Credo che Oreste Del Buono, al tempo direttore della testata, fosse convinto che avrei tirato fuori qualcosa di efficace, essendo rimasto favorevolmente colpito da ciò che avevo fatto per I Libri della Paura, dell’editore Armenia, che Del Buono stesso aveva recensito sull’edizione italiana di Playboy, lodando la qualità delle copertine.

Le redazioni del Giallo e di Urania erano (e sono) sempre state “comunicanti”, e questo permise a Marzio Tosello, che condivideva con Andreina Negretti la gestione della collana di sf, di esprimere la sua simpatia nei miei confronti. Cosicché, anche se in maniera informale, ero tornato ad avere rapporti con la pubblicazione a cui ero sempre stato affezionato.

Fu quando Thole dovette affrontare i problemi di vista che gli avevano colpito entrambi gli occhi che venni chiamato dall’ufficio artistico della Casa Editrice per preparare qualcosa che sarebbe stato sottoposto al vaglio di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, responsabili della cura di Urania.

Dibattuto tra due sentimenti contrastanti – l’eccitazione per la proposta e ciò che l’aveva causata – eseguii alcune versioni del medesimo soggetto fornitomi, una delle quali era concepita con una tecnica pittorica molto simile a quella del mio sfortunato collega. Quando venni convocato da Fruttero e Lucentini, mi dissero, testuali parole, che avevano trovato un degno erede di Thole.

Seduta stante mi fornirono il primo soggetto su cui avrei dovuto lavorare, e si mostrarono favorevoli al mio suggerimento di operare insieme a Karel a “quattro mani”. Io mi sarei preso l’incombenza di dettagliare le illustrazioni là dove la sua vista compromessa non glielo consentiva. In tal modo l’impianto complessivo delle copertine avrebbe conservato il carattere dell’artefice originale.

Se in un primo momento Karel aveva condiviso l’idea, subito dopo cambiò parere. Ovviamente non avevo motivo di insistere: rispettavo la sua decisione. Consegnai la copertina per un libro di R. A. Lafferty, un’altra per un romanzo di Mike Resnick, e un’altra ancora per un’antologia di Isaac Asimov. Poi mi incaricarono di preparare quelle per i Classici Urania. Scoprii ben presto di trovarmi in una situazione a dir poco critica. Il mio lavoro passava sotto le forche caudine di Andreina Negretti, di Laura Grimaldi – neo-direttore di Urania, Giallo e Segretissimo – , del caporedattore Marco Tropea e, talvolta, di Leone Bonanno, direttore editoriale. Solo Fruttero e Lucentini non rappresentavano un problema; da parte loro non ebbi mai contestazioni, perciò non mi davano pensiero. Il guaio, per me, era che avevo poche speranze di superare indenne il giudizio di tutti gli altri: ognuno aveva i propri gusti e ciascuno dava suggerimenti. Era impossibile, dunque, accontentarli in blocco.

La faccenda si risolse in breve, neanche a dirlo a mio discapito, col semplice espediente di togliere a Fruttero e a Lucentini la curatela di Urania, e a me la possibilità di proseguire la collaborazione. Occorre precisare che non si ricorse a questo ingegnoso metodo per danneggiare me: io ero solo una “vittima collaterale”; se la direzione avesse voluto che conservassi l’incarico, doveva semplicemente seguitare a fornirmi i soggetti su cui lavorare. L’obiettivo principale era l’allontanamento dei curatori e, già che c’erano, rivolgersi per le copertine a un artista di maggior richiamo. La scelta cadde su Vicente Segrelles, un professionista catalano facente parte del team dell’Agenzia Norma, di Barcellona, già fornitrice delle copertine per la serie storico-romantica I Romanzi, e per Il Giallo, non più appannaggio di Carlo Jacono. Pareva davvero che intendessero eliminare gli illustratori italiani per favorire gli stranieri, in ossequio a una non meglio specificata politica esterofila. Un fatto resta incontrovertibile: Caesar era tedesco, Thole olandese, e Segrelles spagnolo. Se consideriamo che Oscar Chichoni, il successore di quest’ultimo, è argentino, la scelta di copertinisti professionisti non italiani sembrerebbe piuttosto voluta.

Seguii per qualche tempo i disegni riservati alla sezione conclusiva della pubblicazione, poi anche quella collaborazione terminò. Dopo il pensionamento di Andreina Negretti rimasi in contatto con Marzio Tosello, poi anche Laura Grimaldi passò il testimone a Gianfranco Orsi. Realizzai qualcosa per Il Giallo, infine fu la volta di Tosello a concludere la sua carriera editoriale. Urania subì una trasformazione drastica circa l’aspetto complessivo e, dopo quelle di Chichoni, le copertine vennero date in appalto a un’agenzia esterna milanese che avrebbe provveduto a tutte le testate dei periodici tascabili. A quelle per Urania si alternarono vari esecutori, per lo più giovani che operavano attraverso la computer grafica, finché emerse il nome di Franco Brambilla, il più capace tra quelli che lavoravano coi programmi 3d. Inoltre, per rimediare al preoccupante calo di vendite che la collana subiva, si restituì alle copertine la grafica del “tondo”.

In occasione del cinquantenario della pubblicazione mi incaricarono di disegnare i personaggi che avevano fatto la storia di Urania, i cui ritratti accompagnarono i vari contributi. Nell’appendice di un numero successivo, quando Karel Thole morì, apparve il necrologio che avevo scritto al ritorno dalla cerimonia funebre.

Sono trascorsi altri nove anni, da allora, e la rivista, a partire dal fascicolo di aprile del 2009, decide di offrire ai lettori un disegno d’apertura (prima pagina dopo il titolo) che compendia il contenuto dei romanzi. Sono ben lieto di essere stato scelto per l’incombenza, anche se per riassumere in un’unica immagine il succo della storia è necessario leggere l’intero testo. Ma cosa potrebbe chiedere di meglio un appassionato?

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Franco Brambilla

Comunque, è assai improbabile che io torni a preparare altre illustrazioni per qualche copertina. Le capacità di Brambilla sono evidenti, e ci sono stuoli di giovani artisti che aspettano solo di mettersi all’opera coi loro computer. Inoltre, finché nel nostro Paese si tenderà a ritenere il prodotto dell’arte virtuale quanto di meglio si possa ottenere, agli illustratori tradizionali verrà sottratta ogni occasione per esprimere il loro talento. E questo solo a causa di una forma di ristrettezza mentale che induce a pensare che non si possa competere con le nuove tecnologie. Tutto ciò finisce col limitare le possibilità di un artista, in quanto ci si dimentica che i nuovi strumenti dovrebbero aggiungersi agli altri, non sostituirli. Sarà meglio che di questo ci si renda conto al più presto, prima che i creativi del futuro si ritrovino a dover affrontare qualche inopportuno black-out elettrico. Perché se è vero che un pittore avrà qualche difficoltà a impratichirsi di un computer, assai maggiori saranno quelle di un artista digitale che dovesse ricorrere a una semplice matita.

Oggi, alla mia non più tenera età, sento ancora ardere il sacro fuoco dell’antica passione. Qualcosa di quella precoce visione pirotecnica deve essermi rimasta dentro, evidentemente. E ogni tanto, nemmeno troppo di rado, mi accorgo di essere stato colto da un’idea “vulcanica” che nessun computer, ne sono certo, mi consentirebbe di rendere più suggestiva. Così come nessun computer avrebbe favorito Caesar, se l’artista ne avesse potuto disporre negli anni Cinquanta. Questo è evidente per tutti quelli che, come me, hanno avuto la fortuna di vedere la bellezza e la qualità di quelle copertine “artigianali” ma ineguagliabili, indimenticabili malgrado la quantità soverchiante di immagini fantascientifiche prodotte negli anni successivi. Perché, amici miei, non c’è niente da fare: non è lo strumento attraverso il quale la si crea ciò che rende un’opera degna d’essere ammirata, bensì l’ispirazione da cui scaturisce. È l’idea nuova, quel lampo speciale che guizza nelle circonvoluzioni di un cervello umano e non nei circuiti di quelli elettronici.

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nasce a Castellammare di Stabia, 22 settembre 1943 ed è uno dei più prolifici e conosciuti illustratori tradizionali di Fantascienza e pittore. Ama moltissimo i lavori di Kurt Caesar prodotti agli inizi delle pubblicazioni della rivista Urania e ha preparato una replica completa di quelle copertine, i cui originali sono stati in gran parte perduti e inviati al macero