La Principessa di Marte: Un prigioniero. Quarta puntata del famoso ciclo John Carter di Marte scritto da Edgar Rice Burroughs come l’altro suo ciclo, Tarzan delle scimmie.
Pubblicheremo poco per volta l’intero romanzo tradotto apposta per questa occasione.
Tutte le puntate sono facilmente rintracciabili cercando “John Carter,” ma ecco un elenco aggiornato dei capitoli pubblicati:

  1. Sulle Colline dell’Arizona
  2. Un cadavere in fuga
  3. Su Marte

 

Avevamo percorso forse dieci miglia quando il terreno cominciò a salire molto rapidamente. Ci stavamo avvicinando, come avrei appreso in seguito, al bordo di uno dei mari di Marte, da tempo prosciugati. Era stato proprio sul fondo di quel mare che aveva avuto luogo il mio incontro con i Marziani.

In breve tempo raggiungemmo la base delle montagne e, dopo aver attraversato una stretta gola, arrivammo in una valle aperta, all’estremità opposta della quale si trovava un altopiano poco elevato, sul quale era visibile un’enorme città. Ci dirigemmo al galoppo verso di essa, entrando da quella che sembrava una strada in rovina, che si partiva dalla città ma si interrompeva bruscamente al limitare del pianoro, diventando una scalinata larga e imponente.

Passando accanto agli edifici e osservando meglio, notai che erano disabitati e, pur non essendo molto deteriorati, davano l’impressione di non essere stati abitati da anni… forse da secoli. Al centro della città si apriva una vasta piazza, e su di essa, così come nelle aree immediatamente circostanti, erano accampate circa novecento o mille creature della stessa razza dei miei rapitori: come altro considerarli, nonostante la cortesia con cui mi avevano catturato!

Erano tutti nudi, tranne che per i loro ornamenti. Nell’aspetto le donne differivano poco dagli uomini, se non per il fatto che le loro zanne erano proporzionalmente molto più grandi, in alcuni casi così lunghe da curvarsi quasi fino alle orecchie, in alto sulla testa. I loro corpi erano più piccoli e la pelle di colore più chiaro; dita e piedi presentavano rudimenti di unghie, del tutto assenti nei maschi. Le femmine adulte avevano un’altezza compresa tra i tre metri e i tre metri e mezzo.

I bambini avevano una carnagione ancora più chiara, ancor più delle donne, e mi sembravano tutti identici, tranne l’altezza: alcuni erano più alti e immaginai fossero più grandi d’età.

Tra tutti loro non vidi alcun segno di vecchiaia, né sembravano mutare d’aspetto dalla maturità… che seppi poi giungere intorno ai quarant’anni. Al momento in cui raggiungono circa mille anni, intraprendono volontariamente il loro ultimo, misterioso pellegrinaggio lungo il fiume Iss, e la destinazione è ignota a qualsiasi Marziano vivente, ma si sa che da quell’abbraccio nessuno è mai tornato. Né, qualora lo facesse, gli sarebbe permesso vivere.

Solo un Marziano su mille muore di malattia e il pellegrinaggio volontario è intrapreso da forse una ventina su mille. Gli altri novecento e settantanove muoiono di morte violenta: in duelli, durante la caccia, in volamento o in guerra. Ma la perdita più grave, forse, è quella che capita durante l’infanzia, quando enormi numeri di piccoli Marziani cadono sotto le grinfie delle grandi scimmie bianche di Marte.

L’aspettativa di vita media, dopo la maturità, è di circa trecento anni, ma potrebbe avvicinarsi a mille, se non fosse per le numerose cause di morte violenta. A causa delle risorse ormai esaurite del pianeta, è ormai necessario controbilanciare la crescente longevità prodotta dalla loro straordinaria abilità in campo medico e chirurgico. Così, la vita umana ha ormai scarso valore su Marte, come dimostrano i loro sport pericolosi e le guerre continue tra le diverse comunità.

Esistono altre cause, naturali, che contribuiscono alla diminuzione della popolazione, ma nessuna incide tanto quanto il fatto che nessun Marziano, maschio o femmina esca mai, volontariamente, disarmato, cioè senza portar con sé un’arma distruttiva.

Quando ci avvicinammo alla piazza e la mia presenza fu notata, fummo immediatamente circondati da centinaia di creature, che sembravano ansiose di strapparmi dal cavallo della mia guardia. Un solo comando da parte del capo della spedizione bastò a placare il clamore e proseguimmo al trotto attraverso la piazza, fino all’ingresso di quello che era l’edificio più stupendo mai contemplato da occhio mortale.

Era un edificio basso, che però occupava un’area enorme. Era costruito con lucente marmo bianco, intarsiato d’oro e di pietre luccicanti che scintillavano alla luce del sole. L’ingresso principale era largo oltre trenta metri e sporgeva rispetto alla struttura, formando un immenso baldacchino sopra il vestibolo. Non c’erano scale, ma un dolce piano inclinato conduceva al pianterreno, che si apriva in una vasta sala circolare, circondata da gallerie.

Sul pavimento, disseminato di scrivanie e sedie in legno finemente scolpite, erano raccolti circa quaranta o cinquanta Marziani maschi, disposti attorno ai gradini di un podio. Sulla piattaforma vera e propria stava accovacciato un guerriero imponente, carico di ornamenti metallici, piume vivacemente colorate e bardature di cuoio finemente incise e ingegnosamente incastonate di pietre preziose. Dalle spalle del guerriero scendeva un corto mantello di pelliccia bianca, foderato internamente di seta scarlatta luminosa.

Ciò che mi colpì di più, sia nell’assemblea sia nella sala stessa in cui si trovavano, fu il fatto che le creature erano del tutto sproporzionate rispetto ai banchi, alle sedie e agli altri arredi; questi, infatti, erano chiaramente progettati per esseri umani come me, mentre le grandi corporature dei Marziani a stento avrebbero potuto incastrarsi nelle sedie, né sotto i banchi vi era lo spazio per le loro lunghe gambe. Evidentemente, dunque, su Marte dovevano esserci altri abitanti, oltre alle selvagge e grottesche creature nelle cui mani ero caduto. Ma le tracce evidenti di un’antichità estrema che mi circondavano lasciavano intendere che questi edifici potessero appartenere a una razza da tempo estinta e dimenticata, risalente a un’epoca remota nella storia di Marte.

Il nostro gruppo si era fermato davanti all’ingresso dell’edificio e, a un cenno del capo, fui fatto scendere a terra. Ancora una volta, il mio custode intrecciò il suo braccio al mio e ci avviammo nella sala dell’assemblea. Poche le formalità richieste per avvicinarsi al capo supremo: il mio rapitore si avvicinò semplicemente al podio, mentre gli altri gli facevano spazio. Il capo si alzò in piedi e pronunciò il nome del mio accompagnatore, il quale a sua volta si fermò e ripeté il nome del sovrano, seguito dal suo titolo.

In quel momento, la cerimonia e le parole che scambiarono non avevano alcun significato per me, ma più tardi appresi che si trattava del consueto saluto tra Marziani verdi. Se i due uomini fossero stati estranei e quindi impossibilitati a scambiarsi i nomi, avrebbero semplicemente scambiato i loro ornamenti, qualora le intenzioni fossero state pacifiche… In caso contrario, si sarebbero scambiati colpi d’arma da fuoco, o avrebbero risolto la presentazione con le altre tra le numerose armi in loro possesso.

Il mio rapitore, il cui nome era Tars Tarkas, era in pratica il vicecapo della comunità, un uomo di grande abilità sia come statista che come guerriero. A quanto pare, spiegò brevemente gli eventi legati a quanto era successo, incluso il mio arresto e, quando ebbe terminato, il capo si rivolse a me con un lungo discorso.

Risposi nella nostra buona e vecchia lingua inglese, solo per dimostrargli che nessuno dei due poteva comprendere l’altro, ma notai che, quando alla fine sorrisi leggermente, anche lui fece altrettanto. Questo fatto, unito a ciò che era già accaduto durante il mio primo dialogo con Tars Tarkas, mi convinse che almeno una cosa in comune l’avevamo: la capacità di sorridere e, dunque, anche di ridere; segno che entrambi possedevamo il senso dell’umorismo. Tuttavia, avrei presto imparato che il sorriso marziano è puramente meccanico e che la risata marziana è qualcosa che può far impallidire d’orrore l’uomo più coraggioso.

Il concetto di umorismo tra gli uomini verdi di Marte differisce radicalmente dalle nostre idee su ciò che suscita il riso. Per queste strane creature l’agonia di morte di un altro essere vivente è motivo di sfrenata ilarità; mentre la loro principale forma di svago consiste nell’uccidere i prigionieri di guerra nei modi orribili più ingegnosi.

I guerrieri e i capi riuniti mi esaminarono con cura, tastandomi i muscoli e verificando la consistenza della pelle. Il gran capo fece segno evidente di voler vedere come mi muovessi e, facendo un gesto, si incamminò verso la piazza aperta insieme a Tars Tarkas, chiaramente invitandomi a seguirli.

Ora, come ricorderete, non avevo più tentato di camminare dopo il mio primo, disastroso tentativo… se non aggrappato saldamente al braccio di Tars Tarkas, così mi ritrovai a saltellare e barcollare tra banchi e sedie come una gigantesca cavalletta impazzita. Dopo essermi procurato varie contusioni, tra le risate divertite dei Marziani, tornai a muovermi carponi, ma questo non piacque e fui bruscamente sollevato in piedi da un omaccione, colui che più si era divertito a osservare le mie disgrazie.

Nel momento in cui mi mise brutalmente in piedi, il suo volto era vicinissimo al mio e feci l’unica cosa degna di un gentiluomo in una situazione così brutale, cafona e di completa mancanza di rispetto per uno straniero: gli assestai un diretto alla mascella, dopo di che lui crollò come un bue abbattuto. Mentre cadeva, mi voltai mettendomi con la schiena contro il banco più vicino, aspettando di essere sopraffatto dalla vendetta dei suoi amici, ma deciso a vendere cara la pelle, pronto a offrire la miglior difesa possibile, per quanto fosse impari la battaglia, prima di soccombere.

Le mie paure si rivelarono infondate, perché gli altri Marziani, dapprima ammutoliti dallo stupore, esplosero alla fine in scoppi di risa e applausi. Non riconobbi subito quegli applausi come tali, ma in seguito, quando ebbi familiarità con i loro costumi, capii che avevo ottenuto ciò che raramente concedono: una manifestazione di approvazione.

L’individuo che avevo colpito restò là dov’era caduto e nessuno dei suoi compagni gli si avvicinò. Tars Tarkas venne verso di me, porgendomi un braccio, e così proseguimmo verso la piazza senza altri incidenti. Naturalmente non sapevo perché fossimo usciti all’aperto, ma non dovetti attendere molto per capirlo. Cominciarono a ripetere più volte la parola “sak”, poi Tars Tarkas fece diversi salti, ripetendo la stessa parola prima di ogni balzo; infine, si voltò verso di me e disse: “sak!

Compresi cosa volessero da me e, raccogliendo tutte le forze, “sakkai” con un tale successo da superare i trenta metri di salto; e questa volta non persi l’equilibrio, ma atterrai perfettamente in piedi, senza cadere. Tornai poi verso il gruppetto di guerrieri con balzi più tranquilli, di cinque o dieci metri.

La mia esibizione era stata osservata da diverse centinaia di Marziani di rango inferiore, che subito cominciarono a reclamare una ripetizione, cosa che il capo ordinò. Ma io avevo fame e sete, e allora decisi che l’unico modo che avevo per salvarmi era pretendere da quelle creature la considerazione che evidentemente non mi avrebbero concesso spontaneamente. Così ignorai i ripetuti comandi di “sak” e, ogni volta che venivano ripetuti, accennavo alla bocca e mi strofinavo lo stomaco.

Tars Tarkas e il capo scambiarono alcune parole e, il primo, chiamando a sé una giovane femmina tra la folla, le diede alcune istruzioni e mi fece cenno di seguirla. Afferrai il braccio che mi porgeva e insieme attraversammo la piazza verso un grande edificio sul lato opposto.

La mia graziosa compagna era alta circa due metri e mezzo ed era appena entrata nella maturità, per cui non aveva ancora raggiunto l’altezza massima. Aveva la pelle di un verde oliva chiaro, lucida e liscia come seta. Come avrei poi appreso, il suo nome era Sola e faceva parte del seguito di Tars Tarkas. Mi condusse in una spaziosa stanza di uno degli edifici che si affacciavano sulla piazza col pavimento coperto in maniera disordinata di sete e pellicce e pensai potesse essere il dormitorio di alcuni indigeni.

La stanza era ben illuminata da numerose grandi finestre ed era splendidamente decorata con affreschi murali e mosaici, ma su tutto aleggiava quel tocco indefinibile di antichità, che mi convinse come gli architetti e i costruttori di quelle meraviglie non avessero nulla in comune con i primitivi semi-bestiali che ora le abitavano.

Sola fece cenno di sedermi su un cumulo di sete al centro della stanza e poi, voltandosi, emise uno strano sibilo, come per chiamare qualcuno dalla stanza adiacente. In risposta al suo richiamo, ebbi la mia prima visione di una nuova meraviglia marziana. La creatura entrò barcollando sulle sue dieci corte zampe e si accucciò davanti alla ragazza come un cagnolino ubbidiente. Era grande quanto un pony delle Shetland, ma la testa ricordava vagamente quella di una rana, tranne le fauci che erano dotate di tre file di zanne lunghe e affilate.

 

Traduzione a cura di Franco Giambalvo (2025)
L’immagine di copertina è una interpretazione dell’AI Designer di Microsoft.

 

Edgar Rice Burroughs
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(Chicago, 1º settembre 1875 – Encino, 19 marzo 1950) è stato uno scrittore statunitense, autore, fra l'altro, del ciclo di romanzi incentrati sulla figura di Tarzan, il personaggio della giungla allevato dalle scimmie che ha alimentato la fantasia dei lettori e degli appassionati di cinema di più di una generazione.