Oggi presentiamo molti capitoli, con tre diversi traduttori di Deep Crossing di E. R. Mason. I cpaitoli 16, 17 e 18 sono di Luca Meneghello, con qualche aggiunta qui e là di Paolo Beretta, che invece ha tradotto i capitoli 19 e 20. Il capitolo 21, è di Antonio Grasso. Il motivo di questa serie di capitoli è per arrivare esattamente alla metà del libro. Ricordo ancora a tutti che, oltre a cercare traduttori, stiamo anche provando a immaginare un “bel” titolo italiano.

Da sinistra Luca Meneghello, Paolo Beretta, Antonio Grasso

Il comandante Adrian Tarn è stato già protagonista di Scontro Mortale, dove ha interagito con una Nasebiana, una presenza aliena. Il fatto doveva restare segreto e invece è proprio la misteriosa aliena che lo obbliga a intraprendere questa nuova avventura. Noi sappiamo che Adrian  dovrà volare con un piccolo equipaggio, a moltissimi anni luce di distanza per recuperare un oggetto di cui non sappiamo nulla. Dopo molti test a terra, ora è il giorno del primo test nei pressi della Nube di Oort per provare anche la velocità ultraluce. Un test di routine, sembrerebbe… Ma qualcosa non va come dovrebbe!.

Capitolo 16

Traduzione di Luca Meneghello

Finalmente venne consegnato il materiale dell’equipaggio, come le tute di volo in tessuto magnetizzato. Ogni tuta aveva le mostrine della missione: una galassia attraversata dalla scritta ‘Nadir’ in verticale. Quando potemmo entrare nel Grifone, sistemammo gli oggetti personali, riempiendo le cappelliere e gli stipetti laterali fino quasi a scoppiare. La mia cabina aveva anche una piccola cassaforte per i documenti riservati, inserita sotto il letto.

Il giorno prima delle nostre due orbite di test, i simulatori di Genesis furono spenti, per obbligarci a prendere un periodo di riposo. Il mattino del volo, ci trovammo presso Genesis nelle nostre tute d’ordinanza azzurre e salimmo su un singolo trasporto diretti al Centro di assemblaggio, seguiti da una folla eccitata. Inutile dire che nessuno avrebbe voluto rimanere a terra: per tutto il percorso ci furono rimostranze e il feroce sarcasmo di quelli che sarebbero rimasti a terra.

All’uscita dal pulmino trovammo il Grifone già pronto sulla pista di lancio: nel sole del mattino, la superfice bianca mostrava un alone quasi arancio. I grossi cavi di collegamento erano ancora attaccati sotto le ali ripiegate. Dentro, le luci delle cabine erano accese. Il portello della camera stagna di prua era aperto, le scalette in posizione. Le coperture dei motori, sia orbitali che stellari, erano state rimosse: dall’apertura frontale dei motori classe Stellar emanava un debole bagliore arancione. La folla di spettatori era superiore al previsto e noi ci unimmo a loro.

Terry Costerly mi venne vicino e tese la mano. Io la strinsi, sorrisi e gli feci un cenno.

“Ci hanno assegnato il Centro di Controllo Ausiliario. Da lì avremo la telemetria e le immagini dall’orbita. Ci vado adesso. A tra poco, in cuffia.”

“Ci solleviamo a sei metri e vediamo come va?”

“Sì: a venti piedi; così controlliamo comandi e giroscopi. Non più di due minuti.”

“In attesa del tuo via.”

“Chi è il copilota?”

“Danica”

Fece un cenno affermativo e andò verso il centro di controllo. Una bella fetta della folla lo seguì.

Il parlottare degli astanti scemò quando eravamo quasi alle scalette. L’equipaggio mi venne dietro e temetti che qualcuno avrebbe insistito per entrare. Per fortuna RJ, Wilson, Erin e anche Paris alla fine si fermarono ai piedi delle scalette mentre noi salivamo.

RJ non riuscì a trattenersi: “Fai in fretta, che scappa anche a me” disse a voce alta, accompagnato da un coro di risate.

“Già, non farti venire a cercare” aggiunse Wilson.

Doc e Shelly sigillarono il portello, mentre Danica e io ci posizionavamo dentro la nave. Danica aspettò pazientemente che mi arrampicassi, poi mi venne dietro. Doc intanto si era già allacciato alla console del tecnico di bordo. Shelly era seduta accanto a lui. Ruotarono i sedili in posizione frontale e impostarono le console nelle modalità più comode per loro.

Danica iniziò l’accensione, io controllavo la checklist. A mano a mano le luci e i display crebbero sempre più e il cockpit divenne un eccentrico albero di Natale. Sul monitor dei sistemi energetici comparve il segnale di sgancio dei cavi: dalla finestra sul mio lato vidi il personale di terra trascinarli via. Dopo il test dei sistemi di emergenza e delle maschere a ossigeno, la checklist prevedeva le cuffie di comunicazione. Le indossammo controllando che tutti fossero online.

Proprio solo alla fine accendemmo i motori, temendo, inevitabilmente, di esserci seduti su una bomba nucleare. Il motore orbitale salì di giri, le valvole di pressione ticchettavano e si sentiva bene la potente vibrazione bassa che attraversava la nave. Non era più il simulatore, era la nave e si stava risvegliando. Danica passò al punto successivo della checklist: l’attivazione del motore stellare. Mi guardò e la sentii gracchiare in cuffia: “Vado?”

“Procedi.”

C’erano due levette rosse, bloccate da coperture trasparenti. Danica tolse le due coperture e attivò gli interruttori. Entrambi restammo in attesa del botto. Persino attraverso le cuffie udimmo un debole tonfo su entrambi i lati, seguito dall’inconfondibile sibilo di una turbina che saliva di giri. Sembrava vagamente il rumore di un jet, ma salì di tono molto più a lungo, fino a diventare non più udibile se non per un sordo brontolio sullo sfondo. Danica e io ci scambiammo un’occhiata di stupore. Sui display dei motori una barra salì fino a raggiungere la zona verde.

La voce di Terry si fece sentire nelle cuffie: “Grifone, qui Controllo: Terry Costerly e il suo gruppo. Ci leggete?”

“Cinque su cinque, Terry. E noi?”
“Forte e chiaro, Grifone. Controllo comunicazioni, per favore. Doc?”
“Forte e chiaro.”
“Danica?”
“Forte e chiaro.”
“Shelly?”
“Forte e chiaro.”
“Grifone, confermo che i sistemi sono a punto. Confermato anche dai presenti, avete il via libera. Dateci ancora due minuti per il profilo dei giroscopi, quindi potrete alzarvi. Grifone, restare in attesa.”
“Grifone, in attesa.”

Completata la checklist, restammo seduti col ronzio del vero Grifone tutto intorno, il sogno di una vita diventato realtà, aspettando di essere finalmente liberi di decollare con la nave spaziale più versatile, manovrabile e potente che avessi mai avuto il privilegio di pilotare. La sensazione di libertà era inebriante. Ci scambiammo sguardi pieni di attesa e di gioia. Il cielo blu riempiva la vista sopra di noi.

La voce di Terry gracchiò nelle cuffie: “Tutto a posto, Adrian. Procedere con salita e volo stazionario.”

Un ultimo sguardo attorno e spinsi il pulsante di attivazione del motore a repulsione e sul pannello di controllo attivai i comandi di volo. Il Grifone reagì subito sollevandosi dolcemente da terra in lenta ascesa. Era come se il pavimento si muovesse sotto di noi e infatti era proprio così. Mi stupii di non avvertire alcuna vibrazione, solo un morbido sollevamento con piccolissime correzioni lungo gli assi X, Y e Z. A sei metri di altezza i display di navigazione e assetto si posizionarono su ‘fermi sul posto’. Galleggiavamo a sei metri dalla pista, la gente che ci seguiva da distante scoppiò in un applauso.

“Grifone a Controllo: stazionario a venti piedi.”
“Qui Controllo: Roger Grifone. Dateci due minuti.”
“Grifone in attesa.”
Danica allungò la mano verso la leva del carrello. “Carrello su?”
“Vai!”
Azionò la leva e controllò il display: “Carrello in movimento e… rientrato.”

Avevamo già programmato salita e entrata in orbita. Una linea azzurra mostrava sul monitor di navigazione la rotta sopra continenti e oceani. Di fianco, un’altra linea blu mostrava la velocità di ascesa e il punto di apogeo, con tanto di vettori di velocità orizzontale e verticale. Il sistema di controllo collisioni, orientato in alto e avanti, ci avrebbe avvisato in caso di incontri indesiderati. Non restava che posizionare il selettore di spinta su automatico e attivare l’autopilota, quindi seguire il tragitto della nave lungo le due linee. Se avessimo avuto un problema, sarebbe bastato afferrare i controlli per tornare in manuale. L’avevamo già fatto mille volte nel simulatore, ma questa era la nave vera, con veri pericoli e vera eccitazione.

Una brezza di mare cominciò a soffiare contro e i motori si misero a lavorare molto di più per mantenere la posizione. Danica tradì l’eccitazione. “Forza. Dai il via! Se c’era un problema l’avresti già visto” mormorò.

Neanche il tempo di finire, che Terry disse. “Controllo a Grifone: via libera. Fate buon viaggio. Autorizzati al lancio.”

“Grifone a Controllo: Grazie da tutti. Partenza da stazionario in T meno cinque, quattro, tre, due, uno, attivazione…”

Spinsi il pulsante di avvio. Il muso del Grifone si sollevò in avanti. Gli smorzatori inerziali ebbero un attimo di ritardo, poi si attivarono e fummo schiacciati sui nostri sedili per qualche istante prima del fine spinta, poi tornammo a respirare. Mi chiesi se fosse un errore o se fosse così a ogni accelerazione. Nessuno commentò, ma si intuiva una certa sorpresa. Però era un equipaggio troppo professionale per dimostrare nervosismo.

Il vetro superiore mostrava solo cielo azzurro, ma c’era la sensazione di velocità; si percepiva una vibrazione profonda, regolare e rassicurante: il mondo sotto di noi scorreva veloce. Tutti i vetri si appannarono, poi l’umidità condensò in rivoletti che scorrevano sui cristalli. L’ombra delle nuvole sotto di noi formava disegni sull’oceano. Il cielo di fronte si fece improvvisamente buio e il muso si spostò in giù: le manette di spinta si mossero da sole, le finestre diventarono nere e apparvero le prime stelle abbastanza luminose da superare il bagliore residuo dell’atmosfera. Il muso del Grifone si abbassò ancora e si vide la curva della Terra nelle finestre laterali, su uno sfondo nero trapuntato di stelle. Ci fu una lieve spinta in avanti, la vibrazione sparì e il motore sul display entrò in off. Sul navigatore la posizione e la velocità diventarono gialle, perché ci stavamo avvicinandoci all’obiettivo. Nelle cuffie risuonò un segnale per confermare l’inserimento in orbita.

“Grifone a Controllo: motore orbitale spento.”
“Qui Controllo: confermato. Inserimento in orbita a punto. Buon divertimento.”

Mi guardai attorno, sorridevano tutti. Shelly fece roteare una penna priva di peso verso di noi. Doc la prese e la rimandò indietro. “Permesso di sganciarmi, Comandante” la mano già sulla fibbia.

Mi tolsi la cuffia e sorrisi: “Siete liberi di farvi un giretto in cabina.”

Shelly si sganciò e sbatté il sedere contro le nostre poltrone, il che fece ridere Danica. Doc afferrò i montanti della porta e si lanciò verso le cabine, con una piroetta sul soffitto da cui salutò con la mano.

Mi costrinsi a guardare gli schermi. Il Grifone era perfettamente allineato sulla traiettoria prevista. Sul display principale, le cifre del supporto vitale erano nei parametri. Pressione e temperatura dei motori stabili e corrette. Niente da dire, una nave solida. Lanciai uno sguardo a Danica e vidi che stava effettuando esattamente gli stessi controlli.

Dietro di noi Shelly cominciò a ridere. Doc stava facendo dei salti mortali all’indietro e Shelly gli piroettava accanto come una pattinatrice artistica. Danica valutò l’esibizione: “Nove punto cinque” al che risero tutti.

“La vista dell’emisfero nord dal vetro laterale è impressionante” disse Doc.

Shelly aggiunse: “Da questa parte è lo stesso. L’emisfero sud è tutto bianco.”

Avevamo circa tre ore per goderci la nave e l’assenza di peso. Fui sorpreso quando Doc sbucò all’improvviso con mezza barretta di cioccolato in bocca. Nessuno di noi aveva il minimo senso di nausea. Dopo un’ora, scambiammo posto con Shelly come pilota e Doc copilota. Danica ed io fluttuammo nella zona abitabile, dando persino un’occhiata al vano tecnico di servizio, dietro la porta stagna. Tutto era in ordine, perfettamente funzionante.

Fu un viaggio da sogno. Per tutte e due le orbite il Grifone seguì perfettamente la rotta, non lasciandoci altro da fare che goderci la vista e controllare i monitor. Quando arrivò il momento di uscire dall’orbita, io e Danica riprendemmo i nostri posti e inserimmo la rotta di rientro nell’autopilota. Sarebbe stato bello farlo a mano, ma i sistemi di guida avevano bisogno di un collaudo completo. Anche così la discesa fu eccitante come la salita. Uno strato di nuvole recenti ci tolse la visuale per almeno tremila metri, ma la navigazione del Grifone rimase stabile. Ci stabilizzammo a trenta metri sopra la piattaforma d’atterraggio, mantenendo retratti i carrelli fino alla discesa a quota sei metri. La folla si era di nuovo radunata per assistere al ritorno trionfale del Grifone, che si appoggiò delicatamente sul terreno, con solo un leggerissimo rimbalzo e col suo peso le sospensioni si compressero completamente. Le scalette erano già pronte ai portelli laterali, mentre noi stavamo ancora finendo la fase di spegnimento. Quando la pressione fu equalizzata, si udì un tonfo e il sibilo del portello che si apriva. Uscendo dalla nave, ci fu qualche raro applauso del tutto immeritato. Il personale di terra era già pronto con i cavi di traino, ansiosi di metterlo al riparo.

Fummo trascinati nella sala di osservazione, dove ci aspettavano dolci e altre leccornie ad alto contenuto calorico. Attraverso le vetrate guardammo il Grifone tornare nell’hangar, coccolato dal personale di terra come un bebè, del resto un po’ lo era. Così, mangiammo la torta e festeggiammo mentre un orgoglioso Terry Costerly firmava i documenti di certificazione.

Intanto, mentre festeggiavamo, da qualche parte, lontano, sopra la nostra testa una nana bruna, con una coorte di asteroidi rocciosi, ci stava aspettando. Quello era il nostro domani.

Capitolo 17

Traduzione di Luca Meneghello e Paolo Beretta

Al mattino della nana bruna, un fronte freddo raggiunse Cape Canaveral, lasciando la terra più calda dell’aria. Uno spesso banco di nebbia rese il tragitto fino a Genesis lento e pericoloso, ma tutti riuscirono ad arrivare addirittura in anticipo.

Scesi dai nostri veicoli, fummo portati al Centro di assemblaggio con un mezzo munito di scorta, ma lentissimo. Il Grifone ci aspettava nella nebbia, con della gente attorno, in un’atmosfera vagamente spettrale. Sopra di noi il cielo era di un blu profondo, ma la nebbia, in assenza di vento, vorticava sul posto mentre ci preparavamo a partire per le stelle. Un imbarco surreale.

Nel Grifone quattro sedili erano già in posizione nella zona cuccette. Danica, Doc, Shelley e io ci sistemammo in cabina, mentre Erin, RJ, Wilson e Paris si rifugiarono dietro. Un addetto al lancio segnalò dalla pista l’avvenuto sgancio e io cominciai il controllo della checklist ad alta voce. Il rumore dei motori che si accendevano diventava sempre più forte e la nebbia creò una turbolenza, dopo di che sparì di colpo dalla zona dell’astronave. Il controllo delle comunicazioni fu veloce, anche se Paris ci mise un po’ a rispondere.

Con la checklist completata e col direttore di volo soddisfatto, applicammo i repulsori gravitazionali per far sollevare la nave al di sopra del banco di nebbia, fino a sei metri. Potevo percepire la tensione nell’equipaggio dietro di me, ma lo sconcerto fu breve. Il via libera arrivò subito. Sollevato il carrello, ruotammo il muso nella direzione giusta, inserimmo le coordinate e il motore orbitale anche questa volta ci spinse contro i sedili, mentre il Grifone si impennava come uno stallone. Un grido di gioia venne da dietro, probabilmente di Wilson.

L’ascesa in orbita fu tranquilla quanto il volo di test e ci portò al di sopra di un Atlantico agitato. Dagli oblò inferiori si vedevano le creste spumose delle onde. I nostri sensi si focalizzarono sulle vibrazioni e sul ronzio dei motori, per percepire eventuali rumori anomali. Ci inserimmo in orbita alla quota corretta e iniziò una tranquilla navigazione, cielo nero stellato sopra di noi e sotto la curva luminosa della terra. Controllammo la checklist del post-inserimento in orbita e gli oggetti che fluttuavano in cabina furono bloccati e assicurati da qualche parte. C’era una bella atmosfera, togliemmo le cuffie ed inserimmo il Controllo Missione sugli altoparlanti.

Doc interruppe il momento di euforia: “Signore e signori, non ho avuto l’occasione di andare in bagno a terra, quindi con il permesso del comandante vorrei poter collaudare uno degli strizzapiselli nel retro.”

Shelly scoppiò in una risata isterica. Danica tentò un’espressione offesa, ma dovette girare la testa per nascondere un ghigno soffocato

Attivai l’intercom: “Benvenuti in orbita a tutti, pare che tutto sia a posto. Abbiamo due orbite prima di prepararci al salto. Siete autorizzati a sganciare le cinture.”

Grida di giubilo da dietro.

“Spegnimento sistemi di bordo, Adrian.”

“Confermo. Hai anche tu due ampere di ridondanza sulla navigazione?”

“Due ampere.”

RJ svolazzò in cabina e si appese al soffitto, non sembrava patire lo zero-G. Gli feci il segno di ok con il pollice: “Tutto bene là dietro?”

“Penso che Paris la soffra un po’. Gli altri a posto.”

“E tu?”

“Non arriva mai prima di un’ora. Magari stavolta non lo farà. Ehi, c’è stata una bottarella quando siamo partiti. Sono rimasto senza fiato per un attimo.”

“Non ho sentito gridare.”

“Ok, ma le facce sono rimaste impietrite per qualche minuto.”

Shelly continuava a lavorare: “Sistemi di potenza tutti entro un volt, consumo inferiore a dieci milliampere, Adrian. Controllo tutto.”

“Molto bene”.

“RJ, appena finiamo i controlli post-lancio ti restituiamo la postazione.”

“Attenderò le tue saggie parole con lieve apprensione, Kimosabi. Stiamo aspettando di poter controllare le matrici di scansione anteriori. Tieni le dita incrociate, è l’unica cosa che potrebbe ancora fermare le danze.”

Doc ritornò, galleggiando sotto RJ.

“E tu come stai, Doc?” chiese Shelly.

“Mi torna in mente una ragazza delle superiori. C’era anche una poesiola sconcia su di lei, la chiamavamo Bambi. Diceva così: Una certa Bambi di Fucecchio, S’era vestita soltanto con un secchio. Un camionista è lì e se la guarda, La fissa nonostante l’ora tarda, E strilla ‘Che gran pezzo di bernar..’”

“Può bastare così, dottore” intervenne Danica.

“Fa parte dei test di valutazione psicologica dell’equipaggio che mi hanno chiesto di fare.”

Danica mi guardò in tralice. Scossi la testa. Shelly scoppiò di nuovo a ridere.

“Oh, cara Shelly, che meravigliosa sensazione averti a bordo. Sono lieto che tu ci sia, diventeremo amici. A proposito, meno male che ci sono due toilette nella nave. Penso che il signor Denard passerà il viaggio dentro una di esse.”

“RJ, potresti andare a vedere se Paris sta bene?”

RJ si spinse all’indietro e scomparve nella zona abitativa.

Shelly chiamò: “Controlli perdita aria completi, Adrian. La pressione è stabile.”

“Verificato. Grazie.”

“Generatore primario spento, ausiliario in funzione” aggiunse Danica.

“Ottimo.”

“Avionica e controlli di rotta a punto” disse Doc. “E con questo è tutto. Stazione A controlli completati.”

Dopo qualche secondo, RJ riapparve sorridendo, a testa in giù. “Paris starà benissimo, se abbiamo a bordo abbastanza sacchetti per il vomito. Ehi, non guardare me, non ho problemi oggi. Penso che mi sia passata.”

“Come sta Erin?”

“Tranquilla nel laboratorio scientifico. Penso che non voglia farsi vedere perché sta male.”

“Andresti a controllarla, per favore?”

“Certo, impavido Comandante. Seconda stella a destra, poi dritto fino al mattino.”

Danica si bloccò e rise. I controlli dei sistemi proseguirono e Erin comparve sulla soglia dopo qualche minuto. I capelli biondo avorio le fluttuavano come una medusa. La guardai cercando di apparire comprensivo: “Erin, stai bene?”

“Tutto bene, Comandante. Se qualcuno le ha detto il contrario si è sbagliato. Tutto benissimo.”

“È tutto in ordine in laboratorio?”

“Certo, tutto in perfetto… mpfhhh!” Si incollò una mano sulla bocca, gli occhi spalancati e sparì di volata. La sua faccia fu sostituita da quella di RJ, che guardò prima lei, poi noi. “Oh diavolo. Adesso sono occupate tutte e due le toilette.”

Cercai di guardare dietro attraverso il groviglio di persone galleggianti. “Qualcuno ha visto Wilson?”

RJ si allungò verso l’alto: “Sta sistemando i sedili là dietro. Non so se qualcuno lo ha già informato che siamo nello spazio.”

“Ricordagli che abbiamo soltanto un’ora prima dell’inserimento trans-sistema. Per allora dovrete essere di nuovo tutti allacciati a quei sedili.”

“Okay, okay.”

Danica mi lanciò uno sguardo divertito: “È sempre così allegro?”

“Certo, finché non gli ricordi quanto sia importante la tecnologia.”

“Ti sei accorto che il motore stellare si è impostato in condizioni di pre-salto?”.

“Abbastanza impressionante, eh?”

“I nostri motoristi dovrebbero essere qui a guardare gli schermi con la bocca spalancata, se non la stessero usando per vomitare l’anima.”

“Magari è meglio non dirglielo proprio adesso.”

“Magari.”

Danica diede un ultimo colpetto al suo tablet. “La configurazione della nave è completa, Adrian.”

“Giusto. Passiamo ai diari di bordo.”

Finito il botta e risposta della checklist, potevamo fermarci ad ascoltare il Grifone. Ci parlava attraverso i suoni e i display, una nave obbediente che segnala tutto e che si prende cura di ogni cosa. La sensazione era che la nave fosse contenta: sembrava viva, felice di essere nello spazio. Probabilmente stavo riflettendo le mie stesse emozioni sulle migliaia di circuiti, meccanismi, sistemi così complessi da meritare il nome di intelligenza artificiale. Mi chiesi se non ci fossero all’opera altri artifici Nasebiani che non conoscevo. Mi resi anche conto che accettando questa missione avevo dato loro piena e completa fiducia.

Doc e Shelly cedettero la postazione a RJ e Wilson. Dopo quarantacinque minuti di controlli, fu chiaro che niente ci tratteneva dal fare un salto ultraluce verso il settore della nana bruna di classe G1.9. Un solo, breve lampo di energia ci avrebbe portati oltre la fascia di Kuiper, una delle mete favorite per il rifornimento di molte navi. Ci avrebbe portato appena prima della nube di Oort, dove il materiale cometario era abbastanza rarefatto da non rappresentare alcuna minaccia. Da lì in avanti cominciava la nostra caccia al tesoro elettronica. Probabilmente, se trovavamo il segnale corretto, avremmo dovuto fare un secondo salto per portarci a distanza di manovra.

Girammo attorno a Madre Terra fino al punto di sgancio dall’orbita. Tutti i segnali mostravano un verde rassicurante. Ci fu un applauso dal Controllo Missione quando accendemmo il motore orbitale per portarci in orbita alta, quindi, abbassati gli scudi sui finestrini esterni e selezionate le telecamere frontali, fummo pronti.

Mi voltai a guardare oltre la porta nel modulo abitativo. Tutti seduti al loro posto e mi guardavano. Paris aveva ancora il sacchetto in mano, ma Erin sembrava a posto. Ci fu un momento di attesa e di tensione che mi fece sorridere.

“Il direttore di volo ed il computer di navigazione ci danno il via libera. Qualcuno ha obiezioni?”

Wilson rispose per primo “Via.”

RJ: “Via”

Guardai Danica, che fece un sorriso.

“Bene là dietro, pronti al salto in cinque, quattro, tre, due, uno, accensione.”

Sullo schermo le stelle si fusero in uno sprazzo di luce. Ci fu solo una lievissima sensazione di accelerazione e l’aumento della velocità senza alcuna sensazione fisica. Mi aspettavo uno scossone passando nel tunnel quantico, ma ci fu solo la sensazione di una resistenza, superata dal flusso di energia, come una nave da crociera che taglia una grande onda. Non ci furono altri effetti fisici o psicologici.

La transizione ultraluce fu altrettanto facile. Era come la mancanza di peso che si avverte in cima alla salita delle montagne russe. Il viaggio fu così breve che non trovai nemmeno il tempo per godermelo. Qualcosa di simile per l’uscita dal salto, una strana trazione in avanti controbilanciata da una forza opposta e contraria. Mentre scendevamo subluce, si presentò il familiare effetto degli smorzatori inerziali. Le coordinate di navigazione lampeggiarono di verde, la barra del motore stellare scese a zero. Le stelle avanti a noi tornarono limpide. Eravamo arrivati.

“Sono le nostre coordinate, Adrian. Parcheggio perfetto.”

“Alza gli scudi e imposta le finestre su trasparenza. Vediamo che c’è.”

Mentre i pannelli scorrevano via, cominciarono ad apparire le stelle vere. Lo sfondo nero sembrava decorato da una distesa di stelle ancora più fitta di quello che gli schermi suggerissero. Più che un tappeto sembrava una distante barriera fatta di luce. La debole aura di una nova rossa splendeva in basso a destra. Il mormorio e clicchettio dei nostri strumenti rendeva la cosa ancor più surreale.

Uno dei monitor in alto a sinistra mostrava le stelle prima del salto, quello di fianco la vista attuale. I due sembravano così diversi da sembrare impossibile che avessimo viaggiato in linea retta soltanto per pochi attimi.

“Adrian, il navigatore mostra la nana a ore tre. Posso ruotare la nave per portarla di fronte?”

“Buona idea. A te i comandi.”

“Comandi acquisiti” Danica passò i motori in manuale e spinse lievemente i controlli a destra. Il Grifone rispose girando su sé stesso: le stelle cominciarono a scorrere verso sinistra, mettendo in vista nuove costellazioni. Poco per volta, un sole largo e rossastro riempì lo schermo. Irradiava una luce stabile, ma senza bordi definiti. Un alone rosso e violetto sullo sfondo di uno spazio nero come l’inchiostro.

“Accidenti” disse. Eravamo tutti e due impressionati.

Premetti un pulsante per aprire le porte della zona abitativa: “Riportaci come prima, così la facciamo vedere a quelli di dietro.” Danica manovrò in modo da riportare la nana rossa di fianco alla nave.

“Ragazzi, potete togliere le cinture. Staremo qui per un po’.” Guardai RJ e Wilson: “Godetevi per bene la vista, prima di cominciare le scansioni.”

Gli “Oh!” e gli “Ah!” durarono per tutto il periodo dei controlli di sistema. Il Grifone pareva ok. I display mostravano esattamente la posizione prevista per la nave.

Guardai indietro e vidi RJ infilarsi nella postazione di controllo. Ci scambiammo un cenno con la testa. “Fai sapere al Controllo Missione che siamo arrivati, tutti i sistemi sono attivi e cominciamo le scansioni.”

“Ricevuto.”

“Danica, al momento sono a posto. Mi faccio un giro nella nave. Vedrai aprirsi il portello del modulo di servizio, ma torno subito. A te la plancia.”

“Comandi acquisiti.”

Slacciai la cintura e mi spinsi all’indietro. Con un mezzo giro, mi infilai nella porta stagna B e nel modulo abitativo. Erano tutti raccolti intorno al display a guardare la nana bruna. Erin sorrideva.

“Comandante, è incredibile. Ne avevi mai visto una prima d’ora?”

“No, mai niente del genere.”

“I satelliti sembrano diamanti.”

“E uno di loro è quello che cerchiamo.”

“Incredibile.” Tornò a fissare la stella.

La sensazione nel modulo abitativo era di completo ordine e pulizia. Al di là della cambusa, nella zona notte, il ronzio delle apparecchiature era appena più forte. Le cuccette erano tutte chiuse. Premetti il pulsante della mia e attesi che la porta si aprisse. Tutto in ordine. Lo stesso per la porta della palestra e del laboratorio. Dopo la porta stagna di poppa, digitai il mio codice di sicurezza e aprii la porta del modulo di servizio. Per un istante mi sembrò di sentire uno strano odore, ma era solo la nave che sapeva di nuovo. Tutto era in ordine. Sigillai le porte e tornai indietro.

Tornando per il modulo abitativo, vidi che erano ancora tutti lì a sbirciare fuori.

“Ci vorranno probabilmente ore di scansioni prima di trovare ciò che cerchiamo. RJ ha già cominciato. Chi prende la postazione di controllo?”

Wilson colse l’occasione: “Io mi annoio facilmente. Lo faccio io.”

Paris sembrava fin troppo contento. Erin era incollata alla finestra.

Mi spinsi fino al ponte di volo. Danica mi guardò e sorrise. Le chiesi: “Che ne dici se facciamo cambio con l’altra squadra e ci prendiamo una pausa?”.

“Ottima idea. C’è ancora un bagno libero?”

“Entrambi, direi.” Senza nemmeno sedermi, spinsi il pulsante di comunicazione: “Doc, Shelly, è il vostro turno.”

Doc arrivò immediatamente, si afferrò alla mia spalla e si infilò sulla poltrona.

Danica gli sorrise. “Hai i comandi.”

“Comandi acquisiti.”

Danica si sganciò e galleggiò con me, oltrepassando Shelly che arrivava. Nell’area abitativa, era il nostro turno alle finestre. La nana bruna somigliava a un enorme occhio rosso che fissava nello spazio gli ultimi intrusi arrivati.

Doc e Shelly avevano già abbassato nel pavimento le poltrone da lancio e avevano messo in posizione il tavolo e le sedie. Presi la mia borraccia del caffè dalla cambusa e la infilai nel microonde. Dopo quindici secondi e un ‘ping’, avevo un caffè caldo con tanto di cannuccia e valvola. Dalla cannuccia usciva un filo di vapore. La miscela mi parve migliore di qualsiasi altra provata prima. Mi avvicinai a una sedia, ci appoggiai le chiappe e sentii l’unità magnetica riconoscermi, accendersi e attirarmi sulla sedia. Mi rilassai sorseggiando il caffè caldo, in pace con me stesso, la mia ciurma e la mia nave. Paris sparì nuovamente nel bagno con uno sguardo nauseato, Erin rimase incollata al vetro. Danica si infilò nel bagno libero e chiuse la porta scorrevole.

Non restava altro da fare se non godersi l’attesa. Con un po’ di fortuna, i tecnici avrebbero rilevato il segnale del nostro obiettivo, il navigatore ci avrebbe fornito la traiettoria e il tipo di motore necessario e avremmo concluso la missione in tempo record. Rimasi lì seduto, a godermi la mia buona sorte, nella stanza di un bianco immacolato con finestre circolari di un nero infinito.

Danica uscì e rimase sospesa a mezz’aria per un istante, indecisa. Vedermi con la tazza la fece decidere, quindi passò in cucina e mi raggiunse con una borraccia di zuppa.

“Incredibile essere qui.”

“Me lo sto dicendo da un po’.”

“Di solito sono piuttosto insensibile, ma lo ammetto, mi sento girare la testa.”

“A questo punto di un volo, di solito, l’equipaggio cerca di riparare noie che non sono mai emerse prima o quel che non funziona come dovrebbe funzionare. Te lo dico, non sono abituato a questo livello di perfezione su un’astronave. Sono stupefatto.”

“Un brindisi al Grifone e alla sua ciurma, allora.”

“Al Grifone e al suo nobile equipaggio!” Alzammo le borracce e succhiammo dalle cannucce.

Paris emerse dal bagno, mi raddrizzai sulla sedia: “Paris, come va? Cosa ti serve?”

Scosse la testa e si afferrò al soffitto, ma subito dopo con uno sguardo afflitto ci fece un cenno di saluto e tornò nel cubicolo.

“Quanto ci metteranno con la scansione, secondo te?” chiese Danica.

“Ogni momento può essere quello buono. Se l’hanno nascosto in un asteroide grosso ci metteremo poco, ma non credo. Scommetto che l’hanno messo su qualcosa di troppo piccolo per atterrarci sopra. Quel dannato Bernard Porre vorrà farci fare un po’ di attività extra veicolare.”

“Beh, non vorrai che la tua vita sia noiosa…”

“Secondo me hanno anche modificato l’impronta elettronica per farla assomigliare a una cosa comune da queste parti, giusto per farci faticare.”

“Ma che cosa diavolo è una chiave di bloccaggio dadi?”

“Su ciascuna delle ruote della mia Corvette c’è un dado di serraggio speciale, che può essere rimosso solo con questa chiave. Così nessuno può fregarti le ruote.”

“E non puoi comperarne un altro.”

“Sono tutti pezzi unici.”

“Beh, direi che è stata una cosa piuttosto provocante, non trovi?”

Mentre parlavamo, Erin lasciò la finestra, raggiunse la cucina e cominciò a cercare. Si prese un muffin ai mirtilli, che fluttuò via mentre lei si preparava un caffè nella borraccia. Il muffin sterzò verso Danica, che si allungò e lo prese al volo. Erin si sedette a fianco della donna e la ringraziò con un sorriso.

“Sicura di volerlo mangiare?” le chiesi, mentre scartava il muffin.

“Una fame da lupo, non provare a fermarmi.” Appoggiò il caffè sul tavolo e diede un bel morso al muffin.

“Dovremmo controllare come sta Paris?” chiese Danica.

“Ti offri volontaria?”

“Magari non subito…”

Mi voltai e accesi l’intercom sulla parete: “Ragazzi là davanti, vi va un caffè o qualcos’altro?”

La voce di Shelly rispose: “Siamo a posto, grazie.”

Wilson arrivò galleggiando e si diresse alla cucina.

“Trovato niente?”

“Anche troppo. Ci metteremo di più a valutare le scansioni che a farle.”

Si mise a scavare tra le bottigliette, trovò la sua e tornò alla postazione di controllo.

Erin parlò con la bocca mezza piena: “Io farei una scommessa su quanto ci vorrà a trovarlo.”

Danica rise: “E che cosa mettiamo in palio? Non abbiamo negozi, qui…”

Prima che Erin potesse rispondere, arrivò RJ: “Adrian, dovresti venire a vedere. C’è qualcosa di strano.”

Mi spinsi via dalla sedia e lo seguii galleggiando: “Che cosa hai trovato?”

“C’è qualcosa là fuori. È artificiale.”

“Avete già trovato il nostro pacchetto?”

“No. Questo viene dalla direzione opposta.”

“Come mai hai controllato da quella parte?”

“C’era una strana frequenza che oscurava una delle nostre. Ho rintracciato la sorgente, bella lontana là fuori, ma c’è qualcosa che non mi torna.”

“Ce ne dovremmo occupare?”

Adesso erano tutti attorno a me.

“Mah, ho una strana sensazione.”

“OK, prova ad analizzarla e vediamo cosa esce.”

“L’ho appena fatto. Sto aspettando il riflesso.”

Danica mi colpì la spalla, cercando di vedere. Wilson girò il sedile per essere di fronte a noi.

“Eccolo che arriva. Ecco, è bello grande. Ed è artificiale.”

“Cosa abbiamo sulle carte o sulle rotte delle altre navi in zona?”

 “È questo il bello. Ho già controllato, non dovrebbe esserci niente qui fuori.”

“Wow, RJ. Hai sempre ragione. Fai partire telemetria e comunicazioni. Magari è solo un vecchio relitto.”

“No no, è troppo grosso. Ecco altri dati. Niente telemetria. Nessuna risposta. Aspetta, ecco la telemetria. Un singolo segnale, debole, l’avevo quasi mancato. Wow! É un codice di transponder, ma debole.”

“Una nave? É una nave?”

“Si. Fammi cercare il codice nell’elenco. Eccola! L’Akuma. C’è l’Akuma qui fuori!”

“E sei sicuro che non sia dove dovrebbe essere?”

“Non secondo le rotte dichiarate.”

“OK. Apri un canale e manda un messaggio standard di contatto.”

RJ si voltò alle comunicazioni, inserì un messaggio di saluto e lo trasmise. Rimanemmo in attesa.

Dopo alcuni minuti di silenzio, si voltò verso di me: “C’è qualcosa che non va. Niente telemetria. Nessuna risposta ai messaggi. Che facciamo?”

“Contatta il Controllo Missione. Chiedigli di verificare come mai l’Akuma è da queste parti.”

“Sai che c’è un ritardo di trenta minuti.”

“Aspetteremo.”

Capitolo 18

Traduzione di Luca Meneghello

La ‘Scala Astronautica dei Casini per Risposta Ottenuta’ (SACRO). Quando la risposta a una comunicazione ritarda più di 1,25 volte il tempo necessario al segnale per andare e tornare, scatta il casino. In genere, il Controllo Missione afferma di aver già pronta la risposta a qualsiasi domanda prima ancora dell’inizio missione, quindi se la risposta a un problema importante non arriva subito, magari accompagnata da un pizzico di sdegno da parte loro, allora li avete colti in fallo. Se poi Controllo Missione non ha la risposta già pronta, nella sala sigillata si è certamente creato un velato allarme. Per alcuni istanti serpeggiano paura e incredulità: tutti si guardano intorno sperando che qualcun altro abbia trovato la soluzione, ma tutti assumono quell’atteggiamento da ‘io lo so, ma vediamo chi altro’. Ecco, se il ritardo raggiunge il valore di 1,5 della scala SACRO, è lecito pensare che hanno contattato (di malavoglia) qualche grosso personaggio, prendendosi cura di far notare (ingannevolmente) che è una semplice formalità e che ovviamente non si tratta di incompetenza da parte dello staff.

I ‘capoccia’ non hanno mai le risposte. Però sanno a chi passare la patata bollente. Arrivati a un ritardo di 2,0, l’equipaggio dell’astronave che ha posto la domanda sa che il problema è stato posto ai capi dei capi e che anche questi non sanno che pesci pigliare. Di solito non è un buon segno: a questo punto, è chiaro, il Controllo Missione ha capito che il problema non è loro e un grande sospiro di sollievo attraversa dall’alto al basso tutta la sala. Quindi non resta che inviare il messaggio standard ‘stiamo elaborando; restate in attesa’.

Le nostre due ore e mezzo di attesa finalmente finirono con un video registrato da un dirigente dell’Agenzia che non conoscevo: Walter Provose. Il nodo della cravatta nera a strisce viola era troppo grosso, perfettamente in linea con lo stile non-ci-capisco-un-accidente purtroppo comune a molti dei nostri quadri aziendali. Il collo della giaccia nera era troppo basso rispetto al collo troppo alto della camicia blu, i capelli avevano un bel taglio ma erano sparati in su da una parte, dandogli un’aria da nipotino arruffato che avrebbe reso qualsiasi nonnina desiderosa di abbracciarlo. Probabilmente il tipo aveva un QI più alto di Einstein, ma era attualmente in una posizione manageriale talmente elevata da averne bisogno molto raramente.

“Comandante Tarn, la Japan Space Agency e il loro Ministro alle Risorse hanno finalmente risposto alle nostre domande relative all’Akuma. Sembra che lei e il suo equipaggio abbiate sollevato un bel vespaio alla JSA: avete scoperto per caso qualcosa che ha colto di sorpresa anche loro. L’Akuma era in missione di ricognizione mineraria e non sarebbe dovuta tornare prima di due mesi. La mancanza di risposta dell’Akuma che avete riscontrato, ci fa capire come mai nessuna stazione esterna si sia accorta della sua presenza. Inutile dire che la notizia li ha turbati e hanno perciò richiesto la nostra assistenza. Non c’è alcun veicolo nelle immediate vicinanze: abbiamo avvisato i nostri amici della JSA che il vostro è un volo di prova e che non siete certificati, al momento, ad alcuna attività extra sistema, ma l’Akuma ha un equipaggio di ottanta persone, quindi sorge una questione umanitaria abbastanza seria. Washington ci fa sapere che sono disponibili ad autorizzare una deviazione della vostra missione per prendere contatto visivo con l’Akuma e determinarne le condizioni. La deviazione tuttavia è subordinata alle vostre raccomandazioni, Comandante. Sono spiacente, so che il vostro volo ha già abbastanza incognite e non volevo puntarle i riflettori addosso. Ci faccia conoscere le sue decisioni, noi la sosterremo in ogni caso. Provose chiude.”

Prima ancora che potessi dire qualcosa, Doc da davanti gridò: “Cristo, andiamo subito!”

JR era d’accordo: “Andiamo”

Danica annuì: “Giusto, si va.”

Tutti gli altri seguirono a raffica: “andiamo, andiamo.”

Tutti tranne Paris. Persino con la faccia rossa di nausea: “Assolutamente no. Non si può improvvisare una nuova missione. Non è neppure un’astronave americana. Non ho firmato per una missione di recupero, lasciamo che mandino qualcuno a salvarli. Andare noi sarebbe stupido: dobbiamo valutare questa nave e niente altro. E tra l’altro, penso che dovremmo tornare indietro direttamente: che bisogno c’è di recuperare una maledettissima chiave? Abbiamo finito, torniamo indietro. Insisto.”

Danica si tese: “Ci sono delle vite in gioco, Paris.”

“Certamente, le nostre. Pensiamo a quelle e torniamo indietro subito. Non è il nostro lavoro e non sono problemi nostri.”

Non avevo notato Shelly lasciare il sedile del copilota. Mentre mi passava di fianco notai che la cicatrice sul viso era molto più rossa del solito. Non capivo cosa volesse fare fino a che non la vidi prendere Paris per il colletto e affrontarlo faccia a faccia.

“Ascolta tu, pezzo di merda egoista. Ho sentito anche troppe delle tue stronzate nelle ultime settimane. Vai a piazzare il tuo culo presuntuoso su una sedia là dietro e alza il livello magnetico perché non si stacchi, o quanto è vero Iddio ti ci porto io e te lo attacco con la colla.”

Wilson e io ci guardammo con gli occhi sbarrati, mi fece “Wow!” con la bocca, ma senza parlare. Entrambi sapevamo che non servivano altre parole, era uno di quei momenti dove devi capire se l’idiota di turno comincerà a menare le mani o si rivelerà il bambino viziato che è. Nel caso di Denard, il fattore codardia prese il sopravvento e con il suo solito “Bah” si sottrasse alla presa di Shelly, si girò e svolazzò in direzione del suo bagno preferito. La sua dipartita non ci lasciò per niente tristi.

Shelly mi diede un’occhiata furibonda e tornò alla poltrona. Non mi andava il fatto che l’avesse abbandonata, ma non era questo il momento per discuterne. Guardai la schiena di Paris Denard, che si era completamente sgonfiato e pendeva moscio dalla porta. “Paris, mi dispiace ma non è una decisione tua. Andremo a vedere se quella gente ha bisogno di aiuto.”

Non si voltò a guardare. Strinse la salvietta che teneva in mano, fissò la porta del bagno e diede un pugno sul pulsante di apertura. Senza dire altro sparì all’interno.

“Danica, per favore prendi il posto di Doc e digli di tornare qui. Inserisci le coordinate che ha RJ e programma un salto che ci porti a distanza visiva da quella nave, ma non troppo vicini. Dimmelo appena hai finito. Noi ci prepariamo qui dietro.”

Con un attimo di esitazione, annuì e partì. Dopo un istante Doc mi raggiunse.

“Sai già perché ti ho chiesto di venire qui, eh?”.

“Non sono di primo pelo, Adrian. Alla fine il training nella piscina è stata una buona idea, eh?”

“Potrebbe anche non servire.”

“Tu sai che se non sarà affatto possibile comunicare con quella nave, ovviamente non puoi attraccare, né avere contatti fisici, a meno di non capire cosa sia successo?”

“Anch’io ho un po’ di esperienza su queste cose.”

“Come Ufficiale Medico della nave, queste sono le mie raccomandazioni.”

“Non è che mi diventi anche tu un Paris Denard, adesso?”

“Ci sono medicine che potrebbero aiutare quell’uomo.”

Lo lasciai e mi spinsi oltre la porta stagna verso le console di volo. Quattro paia di occhi si voltarono a fissarmi.

“RJ e Wilson, mettete le cinture e rimanete ai vostri posti. Continuate a cercare un contatto con l’Akuma. Cercate dati di telemetria e fate sapere a terra che andiamo a investigare. Danica e Shelly, quando usciamo dal salto teneteci orientati con la prua verso quella nave. Daremo un’occhiata attraverso gli schermi.” Mi girai a parlare con gli altri e trovai Erin incollata alla mia spalla. Doc stava già estraendo i sedili per il salto.

Dovemmo bussare alla porta del bagno per tirar fuori Paris. Il viso arrossato sembrava ancora più gonfio del solito. Non era in condizioni di parlare, figuriamoci di protestare. Lo assicurammo alla sedia in modo che potesse tenersi l’asciugamano di fronte alla bocca. Prendemmo posto tutto attorno, in attesa. A destra, la nana bruna sembrò salutarci facendo l’occhiolino. Danica fu veloce, dopo poco ci chiamò dall’interfono con tono professionale: “Comandante, siamo pronti.”

“Avanti, Danica.”

“Scudi frontali chiusi. Tra cinque, quattro, tre, due, uno, partenza.”

Il salto durò meno di cinque secondi, ma era più di quello che ci avevamo impiegato per raggiungere la stella nana. Una lieve pressione contro le cinture segnalò la decelerazione finale. La voce di Danica: “Salto effettuato. In posizione statica a seicento metri dall’obiettivo.”

Ebbi un attimo di fastidio. La distanza era minore di quella che avevo pensato io. Ci sganciammo tutti e andammo davanti. L’Akuma era un profilo solitario nel vuoto. Era precisamente al centro dello schermo frontale. Provai un senso di ammirazione per le capacità di Danica come pilota.

RJ non perse tempo: “È alla deriva, Adrian.”

“Ingrandire del 100%.”

La grande nave balzò in piena vista sullo schermo. Grigia, scafo a forma di disco, la forma classica per avvolgere un generatore di gravità. A poppa, più distante, il castello dei motori.

RJ continuò la sua analisi: “Nessuna traccia di danni esterni. Non vedo nessuna falla, ma c’è un portello aperto a dritta verso prua.”

Wilson disse: “Ho delle letture di energia all’interno, Adrian. Temperatura e ossigeno.”

“Nessuno di voi rileva altre navi o tracce di radiazione nelle vicinanze?”

“Non c’è nulla, Adrian. Sto controllando da un bel po’.” Rispose RJ.

“Manda un messaggio a terra per dire che abbiamo raggiunto l’Akuma e la vediamo. Scafo esterno intatto. In attesa di altri dati. Danica, dimezza la distanza, poi fermati.”

“Motore avanti.”

Ci tenemmo mentre il Grifone avanzava.

“Ci sono parecchi oblò spenti su quella nave” commentò Shelly, “pare che a casa non ci sia nessuno.”

RJ aggiunse: “C’è un piccolo oggetto che orbita attorno. Parecchio veloce. Ora è dietro, tornerà in vista tra circa un minuto.”

“Tenere la posizione.”

Danica disse: “Le antenne sembrano intatte. Dovrebbero essere in grado di comunicare.”

Shelly proseguì: “Per quanto vedo io, nessun danno esterno. Certo, sembra strano. C’è qualcosa che non va.”

La voce di RJ si alzò: “Ecco che torna l’oggetto orbitante. Sembra ghiaccio con qualcosa di organico.”

“Massimo ingrandimento.”

RJ divenne di colpo nervoso: “Aspetta, aspetta un attimo.”

L’avvertimento arrivò in ritardo. Lo schermo si ingrandì e centrò l’immagine del piccolo satellite adottivo dell’Akuma. Fissammo silenziosamente l’immagine a pieno schermo di un uomo congelato che roteava lentamente nello spazio, mentre si spostava sullo sfondo della nave. Era ricoperto di brina da capo a piedi, ma in qualche modo conservava l’aria di un benestante che posa per un ritratto: il mento rialzato, occhi bianchi e spenti che fissavano l’infinito, una gran testa di capelli bianchi di ghiaccio, un sorriso di superiorità. Era vestito con un frac nero, anch’esso pieno di brina, con un farfallino bianco sul colletto inamidato della camicia, pure quella bianca. Non aveva scarpe, solo calze ai piedi congelati. Le braccia appena in fuori ad altezza vita, anelli alle dita e un braccialetto al polso destro.

In cabina esplose un silenzio assordante. Qualcuno ridusse lo zoom della telecamera e l’immagine tornò a essere un piccolo satellite in orbita attorno a una nave misteriosa. Ormai, però, era fin troppo chiaro che cosa fosse quel piccolo punto luminoso che volava attorno alla nave.

Doc parlò: “Abbiamo stabilito senza ombra di dubbio che c’è qualcosa di molto strano, direi.”

Mi rivolsi a Danica: “Tieni il muso puntato verso la nave, nella sezione centrale, e fai un’orbita di 360° su e giù, così la vediamo tutta.”

Ci volle un attimo per tutti per riprendersi dallo shock. Danica avrebbe potuto fare la manovra con una mano sola, ma dovette prima riprendere la sua concentrazione. Ci portò più vicino e quindi ci fece fare un largo cerchio sull’asse X sopra l’Akuma. Mentre superavamo la cima della nave tutto sembrava intatto. Mi aspettavo di trovare dei danni dal lato opposto, ma la nave continuava a essere illesa. Tornammo indietro al nostro punto di partenza senza aver notato nulla fuori posto.

“D’accordo, rifacciamo la stessa cosa ma sull’asse Y.”

Danica ci portò su un punto di fronte alla nave. Con il muso puntato sulla nave, cominciammo la spinta verso poppa. Forse i danni erano lì. Forse avremmo trovato qualcosa.

Completammo l’orbita, ma l’Akuma non presentava il minimo indizio. Guardai Doc, alzò un sopracciglio e abbassò il mento, ma non disse niente. Gli feci cenno di seguirmi di dietro. Gli altri sapevano di dover restare in posizione. Paris ci fissò, dalla sua poltrona, mentre attraversavamo la porta stagna.

Una volta dentro mi aggrappai a una maniglia per stabilizzarmi. Doc si appese al muro.

“Che ne pensi?” gli chiesi.

“Che ne pensi?” mi rispose.

“Proviamo a entrare, o aspettiamo che arrivi qualcun altro.”

“Come medico sono addestrato a non aspettare mai che un paziente peggiori; ma possiamo entrare?”

“C’è aperta la porta esterna di una camera di equilibrio. Questi cosi hanno un codice per entrare. Le tute spaziali sono la versione K, possiamo indossarle e pressurizzarle in un’ora, il tempo che ci serve per ricevere i codici da terra. Ma potremmo anche non averne bisogno.”

“Dal momento esatto che tocchiamo quella nave, anche senza entrare, non possiamo più tornare al Grifone.”

“Non c’è un protocollo di decontaminazione, in questi casi?”

“Non esiste una vera e propria decontaminazione nello spazio. Ci sono così tante sostanze e forme di vita nuove là fuori che nessun processo di decontaminazione può eliminarle tutte. Visitiamo altri mondi e ci esponiamo ogni giorno, ed è un grosso rischio, ma le regole di quarantena si applicano soltanto quando c’è qualche problema evidente.”

“Quindi se inserisco un codice di entrata e non funziona, siamo fottuti.”

“La tua tuta lo è. Si.”

“Quindi tu aspetti fuori. Se la porta stagna non si apre almeno tu puoi tornare.”

“Non mi piace molto.”

“Mentre se riusciamo a entrare, restiamo là finché non stabiliamo che non ci sia nessuna contaminazione, o almeno fino a che non possiamo provare di non essere stati infettati.”

“Esatto.”

Attivai il pulsante dell’interfono a parete: “RJ, scusa, manda un messaggio al Controllo Missione per chiedere i codici di ingresso dell’Akuma e l’autorizzazione a salire a bordo.”

Seguì una lunga pausa; e poi una risposta scocciata. “Roger.”

“Danica, portaci a trecento metri dal portello aperto, quindi rimani stazionaria.”

“Ricevuto, Comandante.”

“Erin e Wilson, a rapporto nella camera d’equilibrio di poppa.”

Doc e io ci preparammo a indossare le tute, cosa che ho fatto più volte di quante possa contare. Stavamo infilando la calzamaglia interna quando Erin e Wilson arrivarono. Lavorarono in silenzio per terminare di bardarci. Dietro la loro professionalità potevo vedere che non erano d’accordo.

Quando i pantaloni cascanti e i busti rigidi furono allacciati e bloccati in posizione, Doc e io ci piazzammo ai lati della camera di compensazione e finimmo con guanti e collari. Erano tute top di gamma Bell Standard AEV serie K, il meglio che potessimo desiderare. Durante la mia ultima, memorabile passeggiata nello spazio avevo dovuto usare una tuta da pilota molto più modesta, che mi faceva sentire nudo e vulnerabile. Queste invece erano una sciccheria, meno agili di una tuta di volo, ma fornite di tutti gli accessori: le Bell Standard AEV erano quasi astronavi in miniatura. Ci si poteva entrare anche da soli, ma non facilmente: una volta che l’atmosfera spariva dalla camera d’equilibrio se ti accorgevi di aver fatto un errore, sistemarlo era da panico. Avere un aiuto per indossarle correttamente fu un lusso insperato.

Rimanemmo appesi alla parete, senza elmetti, controllando sui display delle maniche le autoverifiche elettriche delle tute. Quando tutti i display passarono al verde, Wilson mi diede un’ultima occhiata, regolò il microfono e posò l’elmetto sulla mia testa. Lo avvitò in posizione e batté un colpo. Le braccia e le gambe della tuta si gonfiarono

Quando la pressione della tuta si fu stabilizzata, trasformandoci in omini Michelin, il conto alla rovescia sulla manica cominciò, la barra della miscela di gas cominciò ad aumentare e la pressione nella tuta a scendere. Ci sarebbero voluti quaranta minuti per adattare la nostra biochimica all’atmosfera della tuta. Se fossimo riusciti a entrare nell’Akuma, ci sarebbe voluto lo stesso tempo per uscire. Avremmo potuto uscire subito, dato che ora le nostre tute erano già sigillate, ma avevamo imparato da tempo che era difficile lavorare in una tuta fino a che la fase di assestamento non fosse terminata.

Quando mancavano quindici minuti, Wilson ed Erin rientrarono nella navetta e depressurizzarono la camera d’equilibrio. Cinque minuti dopo, si sentì la voce di RJ: “Abbiamo l’autorizzazione a salire a bordo, Adrian. Mando i codici dei portelli al display della tuta. La JSA ha riportato online il Controllo Missione della Akuma, ora è collegato al nostro. Ci assisteranno anche loro, ma il ritardo sui tempi si allungherà un po’.”

Lo stato delle tute diventò verde e nello stesso momento la porta stagna si sbloccò. Aprii la porta laterale mentre Doc recuperava la tracolla che Erin e Wilson ci avevano portato. Ci fermammo sulla porta, mentre Wilson ci parlava in cuffia: “A proposito, Comandante, in quella sacca ci sono anche delle armi. Vi conviene tenerle a portata di mano quando arrivate là.”

“Si, mammina.”

Non mi abituerò mai a quanto sia vasto il nulla che aspetta fuori dalla porta stagna. Anche se si è già in assenza di gravità, sembra sempre di cadere in un burrone. Mentre la porta si apriva, il gelo aggredì le tute e i caschi si appannarono. Il sistema di supporto vitale cominciò a pompare un liquido caldo nelle venature della tuta interna, mentre dei getti d’aria snebbiavano la visiera. Entrando nel grande show stellare ci sentimmo infinitesimali, assaliti dalla breve ma inevitabile paura della solitudine. Dopo che Doc fu uscito, sigillammo la porta esterna. In distanza ci aspettava il fantasma grigio dell’Akuma. La silhouette nera del cadavere congelato che le faceva da guardia passò davanti e scomparve dietro la nave.

“Accendiamo i jet e diamo un’occhiata dagli oblò illuminati.”

“D’accordo. Cautela, Comandante: se c’è qualcuno all’interno lo spaventeremo a morte.”

“Andiamo a quello più vicino. Seguimi, ma stai lontano dalla paratia.”

Estraemmo le maniglie dei jet e attraversammo il baratro senza fondo che ci separava dall’Akuma, dirigendoci all’oblò illuminato più vicino. Era più o meno a tre quarti della lunghezza, a dritta della sezione anteriore, un piccolo oblò rotondo. La luce era di colore giallastro. Arrivai troppo veloce e dovetti frenare di colpo. Con i controlli regolati al minimo, mi portai vicino alla finestra.

Era una piccola sala conferenze, un grande tavolo circondato da sedie, una sedia rovesciata, completamente deserta.

“C’è gravità all’interno, ma non vedo nessuno.”

Mi spinsi indietro e raggiunsi una finestra più bassa verso prua. Arrivai a pochi centimetri e mi stabilizzai con una mano sulla paratia. Era l’ufficio di un ufficiale di rango elevato: una scrivania ingombra, una cassettiera rovesciata, una teca spaccata con un modellino di nave. Di nuovo, nessuno in vista. Mi ritrassi e mi girai verso Doc.

“Non capisco cosa sia successo. Non si vede nessuno e il posto è un macello. Andiamo a vedere il portello.”

Mentre ci dirigevamo in quella direzione, l’uomo congelato arrivò accelerando dietro di noi, come una macabra pattuglia nel suo giro d’ispezione. Ci fermammo per lasciarlo passare e notai una gardenia rosa sul risvolto. Per un istante il volto gelato ci fissò come se potesse vederci, poi si girò senza degnarci di considerazione. Ruotando in avanti ripartì per un altro giro del suo eterno orbitare.

La porta stagna aperta riluceva del giallo arancio delle luci di emergenza. Mi tirai all’interno e di colpo ritrovai il mio peso nella gravità artificiale dell’Akuma. Arrancai sulla griglia del pavimento fino alla porta interna. Sulle pareti erano appese delle tute, circondate da pannelli con scritte in giapponese, alcuni cavi ombelicali sparsi al suolo. La porta interna era chiusa ma la tastiera a fianco aveva tre bottoni illuminati di verde. Non avremmo avuto bisogno di codici. Probabilmente l’uomo là fuori era uscito da qui, senza nessuno dietro che potesse chiudere e sigillare i portelli esterni.

“Doc, la camera d’equilibrio sembra pronta per un ciclo. Ultima occasione per cambiare idea e tornare al Grifone.”

Udii un verso di scherno dalle cuffie prima di vedere Doc entrare dalla porta esterna trascinandosi la tracolla. Cadde sul pavimento piegando le ginocchia e afferrandosi a una maniglia sulla parete. Così facendo ora non poteva che restare.

Mi trascinai ai controlli della porta, quando improvvisamente il Grifone apparve là fuori. Era una immagine bellissima, la sua fusoliera bianca aveva una tinta dorata. Per la prima volta lo vedevo sospeso nello spazio, con lo sfondo di uno spesso muro di stelle. Era più che meraviglioso. Là fuori, ci faceva la guardia. All’improvviso ebbi un moto di paura. E se chiudendo il portello non avessi più potuto tornare indietro? Come mai mi trovavo di nuovo in una situazione così? Cosa non avevo considerato? Avrei potuto ritornare attivando i jet, ma ero già fuori portata: avevamo toccato l’Akuma, ora le appartenevamo. Potevamo cambiare idea e infrangere tutte le regole e tornare sul Grifone. Forse l’ultima occasione. Ma mettendo in pericolo la mia nave, il mio equipaggio? Né io, né Doc l’avremmo mai fatto.

“RJ, chiudo il portello esterno. La tastiera è attiva e in attesa del comando di chiusura.”

“Ricevuto, Adrian. Restiamo in posizione.”

La porta aveva una grossa leva di comando. La tirai verso il basso, la porta ovale si chiuse silenziosamente e gli agganci la bloccarono. A metà della camera d’equilibrio spiccava un grosso pulsante rosso con delle scritte in giapponese. Non serviva saperlo leggere per capire: il controllo di emergenza della camera d’equilibrio. Lo colpii con il palmo e una luce rossa cominciò a lampeggiare. Getti di vapore cominciarono a uscire intorno alla porta esterna. Dalle valvole sul soffitto e sul pavimento altri getti di vapore, precursori della pressurizzazione di emergenza. Doc si sporse verso di me, ma non disse niente.

“Che ne pensi?”

“Dovremmo tenere le tute per adesso. Se davvero ci fosse qualche patogeno saremo isolati.”

“Capito. A seconda di ciò che troveremo dall’altra parte di quella porta, dove pensi che dovremmo andare per primo?”

“Abbiamo bisogno di capire cosa è successo il più in fretta possibile.”

“Già. Per questo pensavo al ponte di comando, o alla cabina del Capitano, per il diario di bordo.”

“Se si trattasse di una epidemia, dovremmo raggiungere l’infermeria, capire contro cosa dobbiamo combattere.”

“Sarà meglio tirare fuori le armi dalla sacca. È un po’ tardi per chiedertelo, ma le hai già usate qualche volta?”

“Sono cresciuto in Texas.”

“Ah ecco. Impostiamole su ampio raggio, impulso di mezzo secondo, livello di stordimento 1.”

Frugò nella tracolla ed estrasse due pistole a impulso, quindi me ne passò una. Era difficile immaginare di poter sparare in tuta spaziale, anche se non sarebbe stata la prima volta. Me l’assicurai alla cintola e mi sedetti in attesa. Dallo schermo al polso vedevo la pressione salire rapidamente. Entrambi ci voltammo verso la porta interna, che si sarebbe aperta da un momento all’altro. Cosa ci aspettava dall’altra parte?

Capitolo 19

Traduzione di Paolo Beretta

Il portellone si aprì così velocemente da prenderci di sorpresa. Sbirciammo dentro la stanza d’accesso alla camera d’equilibrio. Il locale era un disastro. Le luci erano spente, tranne per un faretto a soffitto che sfarfallava tipo festa horror di Halloween. Sul mio visore apparivano lampi e sagome spettrali. Tutte le attrezzature per una AEV erano sparse in giro. Non si vedeva nessuno e la porta d’accesso era aperta, ma si affacciava sul buio.

Guardai il display da polso e attivai le comunicazioni. “Doc, abilita le comunicazioni extra tuta, perché se incrociamo qualcuno magari vorremo parlargli.”

“Ricevuto.”

“Conviene anche che lasciamo qui gli zaini di manovra e la cintura attrezzi: troppo ingombranti.”

“D’accordo.”

Sganciammo gli zaini e ci sfilammo le bretelle, quindi dovetti rotolare da un lato, aggrapparmi a una maniglia e sollevarmi in stile Robby il Robot. Doc ebbe qualche problema in più a tirarsi in piedi. Si mise a quattro zampe, poi, centimetro per centimetro, si arrampicò sulla parete e, lentamente, si voltò verso di me.

Gli segnalai OK col pollice, quindi iniziammo la nostra indagine nella stanza, con movimenti rigidi che rendevano il tutto ancora più spettrale. Attraversare l’ingresso fu anche un test per la camminata a gravità standard, che in qualche modo riuscimmo a superare. Ai due lati della stanza, due ampi corridoi si perdevano nel buio. Cercai di aguzzare la vista, ma non riuscii a scorgere nulla oltre pochi metri dalla soglia.

“Luci del casco, Doc.”

“Ricevuto.”

“Tarn a Grifone.”

“Parla, Adrian.”  

“Contatta il Controllo a terra e riferisci che siamo entrati nell’Akuma e procediamo all’interno. Nessun contatto con l’equipaggio. Riferisci anche della vittima all’esterno.”

“Qui Grifone, ricevuto.”

Il raggio di luce dell’elmetto ci faceva vedere una passerella disastrata nelle due direzioni. C’era una pentola sul pavimento a grate e uno spazzolone appoggiato al muro. A destra, abiti femminili sparpagliati sul percorso e due sedie sottosopra a bloccare il passaggio. Il ponte di comando si doveva trovare da qualche parte sulla destra, a un livello superiore. Mi avviai goffamente lungo il corridoio, spostando la scia di vestiti e trascinandone qualcuno con me. Le sedie si spostarono e il fascio di luce dell’elmetto scivolò lungo i muri e il soffitto ricurvo. Doc mi afferrò per un braccio e mi bloccò.

Stava fissando qualcosa per terra. Una scia scura, color ambra, aveva formato una pozza ormai secca alla base della parete. Pensai di chiedere cosa fosse, ma già lo sapevo. Lui mi fissò in viso, si rese subito conto che avevo capito.

“Hai preparato le armi?” chiesi.

“Sì, ho tolto la sicura. È tutto senza senso. Probabilmente scopriremo gli effetti di un virus che colpisce il sistema nervoso centrale.”
“Oppure, intrusi.”
“È mai successa una cosa simile?”
“Sì”
“Potrebbe anche trattarsi di un qualche incidente.”
“La meno probabile delle tre.”
“Vero. Che facciamo?”
“Come dice una mia vecchia conoscenza, le possibilità sono due: o si va avanti, o si torna indietro, e indietro non possiamo tornare.”
“Mi sa che è meglio andare a vedere in infermeria.”
“Se l’incrociamo per strada, ci fermiamo e vediamo se c’è qualcosa d’interessante. Sto aspettando da Controllo a terra la planimetria dell’Akuma. RJ ce la manda appena arriva, così sapremo dove stiamo andando. Se incrociassimo un giapponese, gli scanners portatili faranno la traduzione simultanea. Al momento, però, mi pare che qui ci stiamo muovendo nella merda fino al collo.”
“Concordo.”

Di colpo, dall’interno della nave eruppe un ululato che ci congelò il sangue nelle vene. Ci bloccammo, in ascolto, ma era ritornato il silenzio. Si sentiva solo il ronzio del condizionatore dell’aria.

“Quello era umano. Un punto contro l’ipotesi dell’intruso.” Mi disse Doc, con un mezzo sussurro.
“La buona notizia è che potrebbe trattarsi di un virus. La cattiva notizia è che potrebbe trattarsi di un virus.”

Ci movemmo in direzione del rumore, cercando di rimanere nascosti nei nostri pesanti e ingombranti palloni pressurizzati. Il fascio di luce mostrò che il corridoio si divideva in tre direzioni. Personalmente, avrei sperato in un ascensore, anche se l’idea di usarne uno era di per sé inquietante.

All’incrocio, demmo una rapida occhiata: ancora nessun segno di vita. A sinistra, un accesso portava a un grosso hangar. A destra c’era quella che sembrava una sfilza infinita di magazzini frigoriferi. La scelta migliore sembrava la direzione dritta davanti a noi. Il passaggio era più profondo di quanto il fascio di luce riuscisse a penetrare. Riuscimmo a distinguere nicchie per gli strumenti e scaffali di magazzino, che sfumavano in una oscurità più profonda. Di tanto in tanto, si sentivano suoni come di metallo che sbatte su metallo, ma era impossibile determinare da quale direzione arrivassero. Non troppo distante, riuscimmo a vedere una grossa corda marrone poggiata a terra, che spariva anch’essa nel buio. Provammo a tirarla e scoprimmo che era attaccata a qualcosa al di fuori della nostra visuale. Usando la fune come guida, ci avventurammo nel buio. Mentre il raggio dell’elmetto rischiarava il corridoio, in lontananza comparve una luce, un punto giallo e tremolante vicino al soffitto, ancora piuttosto distante.

Con l’aiuto dei fasci delle torce, seguimmo la fune fino alla fine. Una forma scura e indistinta sul pavimento si trasformò presto in un corpo umano contorto. La fune terminava con un cappio stretto attorno al collo del cadavere. Avvicinandoci, gettai lo sguardo più in là, ma vidi solo altri rottami sparpagliati. Doc si chinò sulla sagoma immobile e la girò sul dorso. Il corpo si rivelò quello di un uomo con un’uniforme da ufficiale di alto grado. Indossava una giacca color blu scuro, con colletto alto e fregi e bottoni dorati davanti. Lungo le gambe dei pantaloni erano state cucite strisce di seta. Gli occhi erano sbarrati, come se l’ultima visione fosse stata di un orrore indicibile. Doc si inginocchiò e gli raddrizzò il viso, quindi si avvicinò per qualche istante e si rialzò, guardandomi.

“Questo è andato.”
“Come fai ad esserne certo, con la tuta addosso?”
“Il visore non si è appannato.”

Mi ero dimenticato delle videocamere sugli elmetti. La voce di RJ entrò negli auricolari.

“Adrian?”
“RJ, continua a registrare dai caschi, ma limita l’accesso alla tua postazione. Notifica al controllo missione che la nave è nel caos e che abbiamo localizzato una seconda vittima. Causa del decesso sconosciuta, segni di probabili azioni violente.”

Ci fu un lungo silenzio, quindi di nuovo la sua voce. “Grifone, ricevuto.”

Doc si voltò verso di me, fissandomi con sguardo severo. “Staranno tutti là appoggiati su di lui.”

“Lo so, ma è il meglio che posso fare. Almeno, se qualcuno di loro non vuole seguire lo spettacolo, non sarà tenuto a farlo. Uno di noi deve tenere sempre un’arma pronta: prima io. Potremmo incrociare altre vittime”. Impugnai la pistola a impulsi, ricontrollai i settaggi e tolsi la sicura.

Eravamo quasi a fine passaggio e si vedeva ritornare il riflesso delle nostre luci: avevamo finalmente trovato quello che stavamo cercando. Il corridoio terminava con un ascensore con le porte spalancate e illuminate. A quel punto, era comunque di conforto solo il trovare delle luci accese. Io ero sempre più consapevole del peso della tuta e cominciavo a domandarmi per quanto tempo avrebbe retto Doc. Spiaccicata sulle pareti d’alluminio dell’ascensore c’era una cosa marrone e arancio; almeno, non pareva essere sangue. Mentre ci infilavamo a fatica sull’ascensore, sentimmo un urlo stridulo da qualche parte dietro di noi. Restammo immobili in ascolto, senza sentire altro. Ci chiedemmo se non fossimo seguiti da qualcuno.

Sul pannello c’erano cinque pulsanti, i numeri da uno a tre, un ideogramma giapponese e il numero cinque. Era il sistema consueto per identificare il livello del ponte. Lo premetti e le porte si chiusero. Ci posizionammo sul fondo della cabina con le armi spianate. Le porte si aprirono un istante dopo, sul lato sinistro del ponte dell’Akuma.

Sulla parete ricurva frontale alla nostra sinistra erano installati quattro grossi schermi. Erano accesi e si vedeva lo spazio stellato tranne per il lato destro, su cui si vedeva l’immagine del Grifone. Ipotizzai che la nave ci avesse automaticamente agganciato e tracciato non appena arrivati, visto che sul ponte non c’era nessuno che avesse potuto dare quell’ordine.

Il ponte era più piccolo di quanto mi aspettavo e il soffitto piuttosto basso. Alla nostra destra, in fondo al locale, si trovavano le postazioni di comando. Tre poltroncine nere dall’aspetto estremamente comodo, con tutta una serie di schermi e controlli inseriti nei braccioli. Di fronte c’erano i pannelli e le postazioni di controllo, i dati continuavano a scorrere e le letture sullo stato della nave erano funzionanti. Sugli schermi si vedeva lampeggiare moltissimo rosso e giallo. Sul lato opposto del locale, una grande porta doppia spalancata conduceva alla sala riunioni, dominata da un grande tavolo di forma ellittica, lo stesso che avevo visto da fuori. Attorno alla sala c’erano anche delle porte chiuse.

Improvvisamente si sentì un rumore dietro le poltroncine di comando. Stupefatti, vedemmo aprirsi una delle porte e un tizio, vestito come un cowboy, entrò a cavalcioni di un cavallo fatto con una scopa. Indossava un completo da cowboy, con tanto di stivali, sovra-pantaloni, giacchetta e cappello a tesa larga. Portava quello che speravo fosse un revolver giocattolo infilato in una fondina, alla cintura. Il completo sembrava troppo piccolo per lui, quasi avesse dovuto indossare una taglia da bambino. La testa del cavallo pareva ricavata da un ritaglio di materasso e, dettaglio terribilmente inquietante, sembrava dotata di veri occhi umani incassati nella schiuma espansa. Gli occhi dell’uomo erano cerchiati di nero in stile Bela Lugosi, le labbra erano di un blu brillante e da una narice sembrava colare un rivolo di sangue.

Quando lui vide noi due astronauti, rigidi e immobili, accanto all’ascensore, non esitò. Lanciando uno spaventoso “YiiiHoo”, estrasse la pistola e fece fuoco. Si udì una forte esplosione, quindi uno degli schermi di fianco a Doc andò in mille pezzi. Io puntai a mia volta la pistola e sparai. Il raggio fece stramazzare il cowboy contro la parete; scivolò, stordito, si guardò attorno, quindi si rialzò e, recuperato il cavallo, galoppò veloce oltre la porta da cui era entrato.

“Dio santo…” mormorò Doc.

RJ si mise a urlare attraverso l’intercom. “Adrian!”

“Resta in attesa, Grifone. Qui è tutto Ok.”
“Beh, sì e no…” commentò Doc.
“Direi che la questione è chiusa, no?”
“Certo. Ci troviamo di fronte a una massiccia infezione, qualcosa che attacca il sistema nervoso, forse un patogeno neuronico. In base al regolamento di navigazione, la nave è da considerarsi ufficialmente in quarantena. Dobbiamo raggiungere l’infermeria e verificare se hanno scoperto qualcosa prima di essere sopraffatti dall’infezione.”
“RJ, riferisci al Controllo a terra che confermiamo un’infezione a livello generale. Ci sono ancora delle persone vive. L’Akuma deve essere considerata subito in quarantena. Ci servono immediatamente le planimetrie della nave, in particolare dell’infermeria.”

“Qui Grifone, ricevuto.”
“C’è un’altra cosa che mi preoccupa” disse Doc.
“”Fosse l’unica” risposi.
“Dovrebbero esserci ottanta membri d’equipaggio, dove sono finiti?”
“Vediamo di trovare qualche risposta, prima di cercarli. Pensi che le tute ci proteggano abbastanza?”
“Credo di sì. Se è un virus a diffusione aerea o per contatto fisico, siamo isolati. Dovrebbe essere molto, molto speciale per penetrare nelle tute. Il problema è che non possiamo tenerle sempre addosso.”
“Non abbiamo altre possibilità a questo punto, giusto?”
“Il trucco è come tirarsi fuori da una tuta contaminata.”
 “È un problema che va affrontato, ma per prima cosa, dobbiamo capire come isolare il ponte, prima che quel tizio torni con la sua banda.”
“Isolare il ponte mi sembra un’ottima idea. Mi ricorda Alamo.”
“Dobbiamo trovare un terminale libero, qualcosa che si possa utilizzare senza dover conoscere i codici.”

Cominciammo a cercare nelle postazioni vicine. Mi sedetti davanti alla prima che, attivata dal mio peso, propose sullo schermo il profilo di un viso. Mi spostai sulla successiva, ma ottenni il medesimo risultato.

“Doc, gli accessi funzionano con il riconoscimento facciale. Tu continua a provare, io torno subito.” Mi fermai un istante voltandomi verso di lui. “Tieni pronta la pistola.”
Si voltò per guardarmi, scocciato.
“Ok, inutile ricordarlo.”

Mi diressi all’ascensore, entrai e premetti il bottone 1. Al primo livello, le porte si aprirono sul corpo senza vita che stava ancora sdraiato sul pavimento. Mi inginocchiai e gli sfilai il cappio dal collo quindi, con l’agilità di un ubriaco, lo trascinai nell’ascensore.

Tornato sul ponte, scivolai fuori col mio trofeo di caccia non appena si aprirono le porte e lo trascinai alla prima postazione, con Doc che mi fissava cupo. Posizionato il cadavere davanti allo schermo, comparve la sagoma di riconoscimento, quindi sparì sostituita da una piccola ‘X’ rossa. Postazione sbagliata, il tizio non era autorizzato lì.

Al terzo tentativo ebbi successo. Lo bloccai sulla poltroncina con la corda e mi dedicai alle opzioni in giapponese apparse sullo schermo.

“RJ, ricevi tutto?”
“Sì Adrian, riceviamo tutto quanto.”
“Traducetelo voi per me. Ingolfato in questa tuta non voglio fare casino con lo scanner manuale. C’è un’opzione che dica ‘impostazioni’ o roba simile? Vorremmo l’inglese.”
“Un attimo. Okay, trovata. Colonna di destra in fondo, dice ‘impostazioni’.”

C’erano due colonne di pulsanti su entrambi i lati dello schermo. Premetti l’ultimo in fondo sul lato destro e, con mio sollievo, comparve una nuova lista. Una piccola colonna di parole vicino al fondo dello schermo includeva la parola ‘inglese’. La selezionai e, un istante dopo, tutte le indicazioni a schermo divennero in inglese, dopo un rapido sfarfallio.”

“Doc, siamo dentro.”
Doc mi passò dietro e si pose sull’altro lato della postazione.
“Attento a non sbilanciarlo. Se il viso perde l’allineamento, il sistema ci sbatte di nuovo fuori.”
“C’era un pulsante ‘Home’. Lo premetti, facendo comparire una nuova lista in inglese. Una delle voci era ‘Sicurezza’: la premetti e la prima scelta in cima alla lista era ‘Ponte’. La lista ‘Ponte’ includeva un’opzione per chiudere tutti gli accessi esterni. La selezionai e due porte, che fino a quel momento erano rimaste aperte, si chiusero. Un prompt comparve sullo schermo, chiedendo ‘Mettere tutto in sicurezza?’ Io premetti ‘Sì’ e, di colpo, si udirono una serie di rumori secchi di serrature che si chiudevano tutto attorno. Mi alzai, tirando un respiro di sollievo.

Doc parlò nell’intercom: “Bene, questo rende la situazione più tranquilla, almeno per il momento. Adesso vediamo di accedere al giornale di bordo del Capitano.”

“Prima diamo un’occhiata allo stato generale dei sistemi della nave e vediamo se sta succedendo qualcosa di brutto.”
“Ottima idea.”

Tornai al menù principale. La terza voce era ‘Propulsione’: premetti il pulsante relativo e apparve un diagramma dei sistemi. Su cinque blocchi totali, tre lampeggiavano in rosso. Premetti quello descritto come ‘Nucleo’, ottenendo uno schema pieno zeppo di simboli rossi che lampeggiavano.

“Oh, Cristo…” disse Doc.

Il raffreddamento era bloccato. Una barra grafica a fianco del simbolo del nucleo era già sul rosso e saliva lentamente. Le valvole che dovevano fornire il liquido refrigerante erano tutte sul rosso e nella posizione di chiuso. In fondo allo schermo, un conto alla rovescia segnava nove minuti e stava diminuendo. Di fianco la scritta ‘Il contenimento sarà compromesso in:’

“Danica, pronti a muovere il Grifone a distanza di sicurezza.”

L’intercom rimase silenzioso un secondo.

“Cosa?”
“Pronti a muovere il Grifone a distanza di sicurezza. Confermate la ricezione.”
“Perché?”
“Devo anche spiegartelo, Danica?”

Un’altra pausa carica di tensione.

“N…no. Grifone ricevuto.”

Premetti il tasto di controllo della prima valvola, sperando di riuscire ad aprirla. Sullo schermo comparve la scritta “Stazione non del reparto. Si desidera trasferire le funzioni?” Premetti ‘Sì’ e, dopo un tempo terribilmente lungo, il display del nucleo riapparve con opzioni aggiuntive. Premetti di nuovo il tasto della prima valvola e un messaggio apparve sotto: ‘Valvola non operativa.’ Tentai con la successiva, solo per avere l’identico risultato. Su sei possibili percorsi, solo l’ultimo aveva una piccola valvola ausiliaria che non serviva al raffreddamento centrale. Trattenendo il fiato, premetti il tasto relativo e, con mio sollievo, l’indicatore divenne verde e, lentamente, si mise a ruotare. Il diagramma di flusso mostrò una piccola quantità di liquido di raffreddamento che, lentamente, cominciava a fluire. Mi raddrizzai, chinando la testa nel casco della tuta.

“Bene ma non benissimo”, disse Doc.
“Qualsiasi differenza rispetto a prima è un guadagno.”

Sullo schermo, il refrigerante scorreva, ma in maniera insufficiente. Il conto alla rovescia era passato da nove a novanta minuti, ma continuava a scendere.

“Abbiamo guadagnato un po’ di tempo. Sarà meglio dare un’occhiata ai sistemi energetici.” Uscii dalla schermata della Propulsione per accedere a quella dei sistemi ausiliari. Di nuovo, più della metà dei sistemi lampeggiava in rosso. Una schermata più sotto mostrava un flusso irregolare di refrigerante verso il nucleo più piccolo dei sistemi energetici. Le valvole si aprivano e si chiudevano a intervalli casuali, col fluido che passava continuamente da un percorso a un altro. Il livello della temperatura nel nucleo teneva, ma proprio al limite.

“Ma come possono esserci tutti questi guasti?” chiesi.
“Persone” rispose Doc, “La mia più grande paura, ricordi?”

Wilson irruppe nell’intercom: “Sto vedendo la situazione, Adrian. Adesso vengo lì.”
“Non muoverti, Wilson. Lascia che ce ne occupiamo noi, non c’è bisogno che altri si avvicinino.”
“Erin mi sta aiutando con la tuta.”

La voce di Erin s’intromise nella comunicazione: “Sto arrivando anch’io. Avete bisogno di un motorista e ne avete bisogno subito.”

“Erin, qui è peggio dell’Hotel California. Nessuno deve trasferirsi qui, mi hai sentito?”
“La trasmissione è disturbata, Comandante, la stiamo perdendo…”
“Non cominciare con queste stronzate. Mi hai sentito benissimo, nessuno deve venire qui.”

Doc mi fissò con le sopracciglia aggrottate: “Pensi che verranno comunque?”

“Già.”
“Comandante, direi che la disciplina della tua ciurma lascia alquanto a desiderare.”
“Già. Mi somigliano troppo.”

Capitolo 20

Traduzione di Paolo Beretta

“Abbiamo guadagnato un po’ di tempo, ma poco. Dobbiamo vedere i registri di bordo e capire contro chi o cosa combattiamo, poi andremo a spasso per la nave. I nuclei sono il problema: se non riusciamo a stabilizzarli, dell’epidemia non ci importerà niente. Se, come penso, quei due si presenteranno qui, ti chiudiamo dentro l’infermeria e noi altri cerchiamo di salvare la nave.”

“90 minuti per trovare una cura, comandante?”
“Così, o il paziente muore per combustione spontanea.”

La voce di RJ si inserì negli auricolari. “Adrian, abbiamo ricevuto la planimetria dell’astronave e i codici di comando. Ti trasmetto tutto.”

La tempistica di RJ era impeccabile. Dal menu principale selezionammo Archivio, dove trovammo quattro pagine ordinate alfabeticamente. Nella seconda c’era un’opzione segnata come “Capitano”. La selezionai e comparve un messaggio, “Codice di comando richiesto”. Il cadavere dietro di noi era autorizzato a modificare i sistemi di propulsione, ma non a leggere il diario di bordo del comandante. Usando il display da polso, inserii il codice di comando di grado più elevato dalla lista inviata da RJ, facendo comparire sullo schermo una serie di date. Vidi qualcosa che mi fece riflettere.

Diario del Capitano
Capitano Mako Hayashi
Autorizzazione JSA CD84973Z
Comandante della nave Akuma

Il nome mi era più che familiare. Il Capitano Mako Hayashi era una donna, giovane per essere una leggenda, ma aveva trascorso più tempo sui ponti di navi stellari di altri ufficiali col doppio della sua età. Era la donna più giovane con licenza di prima classe per navi da carico pesanti. La più giovane con un comando per un’astronave di classe Fuso. Aveva comandato la Yamashiro. Era proprio una leggenda. Avevo visto sue foto su una dozzina di riviste. Misi da parte quel pensiero e, intanto, cercavo la data più recente.

Necessario più intraflex. Passiva amministrazione con fondi evitabili.
Sovraccarico di deterrenti. Xxpsj llojjjj aaaaaa.

Borbottii senza senso. Lessi meglio la lista, selezionando una data di quattro settimane prima. Diedi una scorsa veloce, fino a trovare un passaggio interessante.

L’intensità dell’impulso elettromagnetico si è rivelata superiore alle possibilità dei nostri sistemi. Abbiamo guasti sparsi su tutta la nave. Comunicazioni e telemetria sono del tutto fuori uso e siamo privi di postazioni di controllo sul ponte. Sono comunque convinta che riusciremo a riparare i sistemi di bordo, anche se ci vorrà tempo. Credo che problema maggiore sia l’acqua. Le valvole di alimentazione sono rimaste aperte e il serbatoio dell’acqua è tracimato nei serbatoi d’emergenza del refrigerante. Cercheremo di recuperare l’acqua congelata all’esterno e attiveremo il processo di separazione. Sarà durissima quassù, dopo giorni passati senza una doccia.

Le tre voci successive erano più o meno sullo stesso tono. La quarta, invece, suonava un po’ peggio.

I danni alle comunicazioni, alla telemetria e alla navigazione sono peggiori di quanto previsto. i tecnici non sono in grado di fare una stima sui tempi di ripristino dei motori. Le valvole sono state modificate in modo da poterle azionare manualmente e abbiamo instaurato dei turni per poterle attivare secondo le necessità del sistema. A questo punto, l’acqua diventa il nostro problema principale, visto che per qualche tempo non potremo muoverci. Navigatori e astrofisici ritengono che non siamo lontani dalla nube di Oort per raccogliere del ghiaccio spaziale usando dei ricognitori equipaggiati con un raggio traente. Le modifiche sono in corso e dovrebbero essere completate per domani, sempre che i danni ai sistemi di supporto vengano riparati.

Due giorni dopo, l’ottimismo del capitano sembrò crescere.

L’idea di raccogliere il ghiaccio nella nube di Oort sembra funzionare bene. Due ricognitori stanno tornando con grossi blocchi. Sembrerebbe dunque che siamo fuori pericolo, visto che disponiamo di quantità più che sufficienti degli altri beni di consumo. Per le riparazioni le stime più ottimistiche parlano di alcune settimane. La priorità è per le comunicazioni, nella speranza di poter contattare avamposti della Terra usando sonde modificate. Abbiamo recuperato un transponder che verrà installato quanto prima.

Nei giorni seguenti, trattarono i blocchi di ghiaccio e ripristinarono le riserve idriche, mentre le riparazioni procedevano a rilento. Mentre scorrevo le voci,  Doc mi indicò una riga alla fine di un rapporto.

Un membro dell’equipaggio ha accusato dei malori ed è stato inviato in infermeria sotto osservazione.

Doc scosse la testa. “Eccolo qui, il paziente zero, il primo a presentare i sintomi. Se fosse qualcosa  trasmesso per via aerea, o contatto fisico, i prossimi saranno stati quelli che gli stavano attorno.”

L’ipotesi di Doc si sviluppò rapidamente. Continuando a leggere il giornale di bordo, scoprimmo come sempre più componenti dell’equipaggio si sentissero male. Dopo una settimana, i medici erano disperati. Nel tentativo di capire il meccanismo del contagio, esclusero l’ipotesi del contagio per via aerea facendo esperimenti su se stessi. Poi, allo stesso modo esclusero anche l’ipotesi di un contatto fisico. Sul giornale si parlava infine di una “unica fonte dell’epidemia” e, con un equipaggio quasi distrutto, riuscirono finalmente a risolvere il rebus.

Era stata la nuova acqua. Controllata e ricontrollata, pareva assolutamente pura. L’avevano fatta passare attraverso molteplici fasi di filtraggio e purificazione, quindi nuovamente ricontrollata. Era sicuramente la causa dell’epidemia, ma non riuscirono mai a identificare il patogeno. Si trattava di qualcosa che sfuggiva alle maglie dei test conosciuti.

A questo punto, le voci del giornale di bordo divennero in una vera e propria storia horror. Molti ancora privi dei sintomi, avevano già bevuto l’acqua. Ma il peggio era che quelli che non l’avevano bevuta, sapevano benissimo che avrebbero dovuto farlo tra pochi giorni, per non morire di sete.

Scorremmo velocemente altre voci e, quando le cose si stavano già mettendo male, di colpo si misero ad andare anche peggio.

Quasi tutto l’equipaggio è malato, compresi i medici. Sono sorpresa di aver resistito così a lungo, ma ho dovuto cominciare a bere l’acqua infetta ieri sera: si trattava di berla o svenire per la sete. A peggiorare le cose, se possibile, sono pure cambiati i sintomi della malattia. Nessuno muore, se non a causa di episodi di violenza o incidenti. Superati i sintomi iniziali, le vittime riacquistano mobilità ed energia, ma non la loro razionalità. Alcuni restano in uno stato semicomatoso, altri sembrano ubriachi, altri regrediscono mentalmente, o assumono la personalità di personaggi famosi che hanno studiato e ammirato. Il marinaio Naoko Sato crede di essere Jesse James, il famoso fuorilegge del vecchio West, e il marinaio Sora Takahashi si comporta come l’Imperatrice Suiko. Non riusciamo a tenere rinchiusi i malati più pericolosi, non avendo nessuno a cui assegnare l’incarico. Cercherò di usare meno acqua possibile, in modo da ritardarne gli effetti. Abbiamo un solo transponder funzionante e la nostra sola speranza è che qualcuno ci venga in aiuto, ma non è previsto il nostro ritorno nel sistema terrestre per alcune settimane. Non ho idea di come faremo a sopravvivere.

Trovammo altre due registrazioni, quindi una pausa. Sorprendentemente, le registrazioni poi ripresero, ma contenevano solo confusione e assurdità. In una di queste, ci si lamentava del fatto che i negoziati con Gengis Khan non procedevano bene e le sue richieste commerciali  erano irragionevoli. In un’altra, una sezione degli alloggi dell’equipaggio era stata ristrutturata come un tempio, ed era stata costruita senza l’approvazione dell’Imperatore. In un’altra ancora il marinaio Sulu si era impossessato di una spada da samurai e si era introdotto nella sala motori, riguadagnando il controllo dell’Enterprise. Poi, la voce di Wilson mi chiamò dall’intercom.

“Adrian, siamo nella camera di equilibrio.”
“Restate in posizione, voi due, non aprite il Portello interno finché non siamo lì. Siete armati?”
“Oh, santo cielo, Adrian, è ovvio che siamo armati !”
Mi voltai verso Doc appena in tempo per vederlo sganciare e sfilare il casco.
“Ma che diavolo fai?”
“Ho inserito la decompressione nel momento in cui ho sentito il riferimento a un paziente zero, comandante.”
“Ma c’è, per caso, qualcuno qui che abbia intenzione di fare quello che dico io?”

“Adrian, si sa che tu hai messo insieme un equipaggio in grado di ragionare da solo. Cristo santo, è il tuo biglietto da visita e lo sai; non ti preoccupare, non bisogna prendere chissà quali decisioni. Non possiamo tornare al Grifone se non proviamo che siamo puliti e non possiamo restare infilati nelle tute per sempre. Sulla nave non ci sono campioni biologici su cui fare test, a eccezione di noialtri, quindi tocca a me. Voi dovete restare sigillati perché dovete prima arrivare al nucleo di propulsione e non possiamo rischiare che vi trasformiate in personaggi Disney prima del dovuto. Io sono il solo che può lavorare sull’epidemia e mi riesce male farlo da dentro la tuta. Quindi, amico mio, è tutto logico. Mettiamo in sicurezza l’infermeria e mi chiudete dentro, così posso cominciare a lavorare, voialtri vedete di impedire a questa astronave di diventare uno spettacolo di fuochi artificiali da Festa dell’Indipendenza.

“Doc…”
“Vuoi che mi rimetta il casco?”
“No, però…”
“Sant’Iddio, non diventarmi sentimentale proprio quando iniziavo ad ammirarti. Piuttosto, che ne diresti di aiutarmi col resto della tuta? I ragazzi stanno aspettando giù nella camera d’equilibrio.”

Completamente sopraffatto, lo aiutai a sfilarsi la parte esterna della tuta e a cercare nella sua tracolla la tuta di volo grigia. Rimuovemmo l’unità di comunicazione dalla Bell Standard, e si risistemò microfono e auricolare. Lasciammo tutto quanto in un posto ragionevolmente sicuro, accanto all’ascensore, quindi, con una forte dose di ansia, sbloccammo le porte del ponte. Restammo in attesa dell’apertura dell’ascensore, con le armi spianate. La cabina era vuota. Col nostro assistente cadavere ancora legato a una poltroncina sul ponte, ritornammo al primo livello. Mi ritrovai a lanciare qualche occhiata verso Doc, in cerca di comportamenti strani o sospetti, anche se entrambi sapevamo che era ancora troppo presto per quei sintomi.

Il corridoio del primo livello era sgombro. Tutto attorno si sentivano rumori strani, ma di Gengis Khan o Jesse James nemmeno l’ombra. Senza l’ingombro della tuta Bell Standard, Doc doveva fermarsi in continuazione affinché lo raggiungessi, mentre analizzava avanti e indietro con lo scanner palmare in mano e la pistola pronta nell’altra.

Nella sala tattica vicino al portello della camera d’equilibrio, il manometro indicava 14.2. Premetti il pulsante d’apertura e la porta scivolò di lato, mostrando due tizi in tuta spaziale rigidi in piedi come robot.

“Oh, mio Dio, Doc !” esclamò Erin.
Doc alzò un sopracciglio, dimenticandosi di premere il pulsante di trasmissione. “Pensi sul serio di essere messa meglio?”
Erin vide muoversi le labbra senza sentire una sola parola.
“Attivate i microfoni esterni, ragazzi”, dissi.
Entrambi premettero i pulsanti necessari.
Erin si voltò verso di me. ”Qual era la temperatura del nucleo di propulsione, l’ultima volta che avete controllato?”
“Al pelo prima della linea rossa, ma non durerà: il conto alla rovescia per la rottura del contenimento andava avanti.”
“Muoviamoci. C’è una certa inerzia nucleare verso la fusione del reattore, non sarà facile invertirla.”
“Neppure arrivarci sarà facile, potrebbero esserci interferenze. Tenete pronte le armi, fascio allargato, stordimento livello uno dovrebbe bastare. Dobbiamo lasciare Doc in infermeria lungo il tragitto.”
“È al livello tre, a metà strada dal reattore,” disse Wilson. “Ho memorizzato le planimetrie e i diagrammi dei sistemi in quattro tablet. Sono agganciati alle frequenze delle tute e fungeranno anche da unità di comunicazione, se necessario.”

Entrambi si erano già liberati delle unità di manovra e delle borse da cintura. Entrai nella sala tattica, scrutando in entrambe le direzioni: la via pareva libera. Gli altri si accodarono goffamente dietro di me; io mi voltai a guardarli, per accertarmi che fossero pronti.

“Prima spariamo, poi facciamo domande?” Mi guardarono come aspettandosi una qualche ulteriore precisazione. Niente battute spiritose, non c’era traccia di allegria, la consapevolezza di trovarsi in una situazione tragica era chiaramente evidente sui loro volti. Si trattava di uno di quei rari momenti in cui i dispositivi di comunicazione diventavano scatole inutili e i dialoghi si svolgono a livelli più alti. Qualche volta succede se hai la prospettiva di una morte imminente.

Capitolo 21

Traduzione di Antonio Grasso

Le porte dell’ascensore si aprirono al livello tre in un buio corridoio con a terra una moquette verde sporca e graffiti giapponesi alle pareti. Wilson sollevò lo scanner portatile, premette un pulsante col pollice guantato e dichiarò: “Fuori”.

Doc uscì per primo con l’arma in pugno, controllando l’area mentre noi ci andavamo avanti dondolando goffamente. L’alternanza continua di oscurità e di luce proiettava bizzarri riflessi sulle visiere. In alto, sui due lati, c’era una fila di tubi fluorescenti parzialmente accesi. A questo livello si vedevano molte altre canaline bianche lungo i muri. Era un passaggio molto più ampio rispetto al livello uno e le porte laterali erano tutte ampie e aperte. Più avanti, sulla destra, la sala si divideva in altri tre corridoi.

“A destra” disse Wilson.

Doc apriva la fila con l’arma spianata. Noi tre arrancavamo cercando di tenere il passo. Arrivammo alla prima porta aperta. Era un’area piena di contenitori e sacchi argentati con attrezzature e ricambi. La porta successiva a sinistra era illuminata. Dall’interno proveniva un leggero suono musicale. Dentro c’era la seconda persona ancora in vita. Il punteggio era ora due a due.

Era un laboratorio. Apparecchiature di prova sparse nella stanza grigia. Una piccola foresta di lampade flessibili su banchi di lavoro con strumenti e microscopi. Cavi elettrici a spirale pendevano dal soffitto alimentando sonde di prova e accessori. Al centro della stanza, un’industriosa giovane donna aveva usato i cavi a spirale per farsi un’altalena. Aveva legato un manico di scopa ai cavi e si era seduta sopra oscillando e cantando una filastrocca. Indossava calze lunghe a righe senza scarpe e una gonna rosa molto corta senza top. Si era messa il rossetto sbavato, che sembrava un trucco da clown. Aveva cercato di legarsi i capelli scuri a coda di cavallo, senza riuscirci.

Rimanemmo sulla soglia a bocca aperta, lei ci sorrise e continuò a cantare e a dondolare.

“Non possiamo lasciarla così” disse Erin sbigottita e un po’ spaventata.
“Sì, che possiamo. Ce ne saranno a decine. Il problema numero uno è il nucleo del reattore. Muoviamoci.”

Le tre stanze successive erano uffici vuoti o laboratori. La quarta era una grande sala riunioni con molte sedie attorno all’isola centrale. Appena dentro ci siamo bloccati. C’è voluto un momento per mettere a fuoco l’inquietante scenario. Una sposa in abito bianco con un bouquet, pronta di fronte all’altare. L’aspirante marito le era seduto di fianco e ci voltava le spalle. Eravamo lì e lei ci guardò, ci rivolse un sorriso imbarazzato, poi si voltò verso l’altare come aspettando l’inizio  della cerimonia. Non c’era nessun altro nella stanza. La scena sarebbe stata quasi credibile se non fosse stato per il coltello che sporgeva dalla schiena dello sposo. Il punteggio era ora di tre a tre.

Erin respirava a fatica e si mise una mano sul visore come per coprirsi la bocca.

“Questo posto è una fottuta casa degli orrori” disse Wilson.

Andando avanti, fummo sorpresi da qualcosa in movimento. Un coso che è sfrecciato da una camera all’altra. Così veloce da non riuscire a metterlo a fuoco. Ho fatto un segno di alt.

“Hai visto, Doc?”
“Sì. Ma troppo veloce.”
“Wilson sta sulla destra e coprici. Erin, resta dietro e controlla. Doc, io vado a destra, tu puoi andare a sinistra.”
Wilson ha protestato “Ma …”
“Sei in tuta spaziale, Wilson. Doc non lo è. Copriteci. Su.”

Io e Doc ci muovevamo con cautela, armi in mano. Arrivati alla porta, mi sono fermato mentre Doc scivolava contro il muro fino ad mettersi di fianco. Ha segnalato di essere pronto. Io ho preso la mira.

Doc si è sporto piano. Una palla di pelo è schizzata fuori dalla stanza, saltando e girando in tondo. Era facile decidere di non sparare.

Era un cane che trascinava il suo guinzaglio. Il pelo non lungo, marrone e bianco, di taglia media. Si sarebbe detto un cane lupo. Si è avvicinato a Doc guardandolo con fiducia e si è seduto scodinzolando. Doc appariva molto sollevato.

“Caspita, sono invecchiato di dieci anni!”
“Erin, Wilson, avanti.”

Doc si chinò e accarezzò la testa del cane. L’animale sembrava felicissimo che ci fossero degli umani a prendersi cura di lui. Erin si avvicinò mettendosi in ginocchio accanto a Doc per controllare il collare del cane.

“Si chiama Areno. È un Akita. Sono animali meravigliosi, molto affettuosi.”

Il cane la prese subito in simpatia e non sembrava turbato dalle tute spaziali. Le mise una zampa addosso abbaiando.

“Erin, attenta. Non correre rischi con l’integrità della tuta. Hai capito?” disse Doc.
Erin afferrò il guinzaglio del cane.
“Non possiamo portarlo con noi, Erin. Dobbiamo uscire.”

Doc intervenne: ”Adrian, questo cane non è ammalato. Anche se deve pur aver bevuto l’acqua. Lo porterò con me.”

Doc allungò la mano ed Erin gli passò il guinzaglio. Ormai avevamo quasi raggiunto l’incrocio a tre vie. Gettai uno sguardo alla squadra e mi è venuto da pensare che sembravamo proprio dei matti. Ecco l’elenco: un dottore, tre tipi in tuta spaziale e un cane, avevano appena incontrato la contadinella che giocava con l’altalena, quindi una futura sposa col fidanzato morto. Eravamo nel punto in cui la strada si divideva in tre, sembrava una scena del Mago di Oz e mi aspettavo di incontrare lo Spaventapasseri. Dovevo scrollarmi la paura che tutto fosse fuori controllo, ma poi ho capito che era proprio così. La Malvagia Strega dell’Ovest ci stava aspettando in sala macchine. La realtà era un brutto sogno con un conto alla rovescia prossimo alla scadenza.

Wilson sollevò il tablet. “Il corridoio centrale conduce alla sala macchine e al nucleo. Il corridoio di destra va alla sezione scientifica e all’infermeria. Che facciamo, Adrian?”

Ci ho pensato un attimo e mi è scappata una domanda sciocca: “RJ, ci stai sempre guardando?”
“Perdio, stai scherzando? Siamo tutti qui a guardarvi dalle telecamere delle tre tute.”
“Abbiamo bisogno di separarci. Wilson ed Erin si dirigeranno verso la Sala Macchine. Porterò Doc in infermeria e poi li raggiungerò. Tieni in funzione i registratori. Se qualcosa va storto, vorremmo sapere cosa è successo.”
“Siamo sicuri?”
Ho guardato la squadra: “Tutti d’accordo?”
Nessuna obiezione. Wilson disse: “Per la cronaca, Adrian, usciti Erin e io, Denard ha dichiarato che lui diventava l’ufficiale più alto in grado e avrebbe assunto il comando.”
“Oh Gesù, ci mancava solo questo.”
“Shelly gli ha chiesto come avrebbe fatto a comandare in stato d’incoscienza e lui ha chiuso il becco.”
“Bene, questo mi fa stare più tranquillo. Forza ragazzi. Erin, va con Wilson. È esperto in ogni tipo di problema.”

Wilson ha sorriso e mi ha dato due tablet presi dalla sua sacca. Li ho settati per poter vedere i due specialisti nel corridoio centrale. Hanno fatto un mezzo cenno e sono scomparsi nell’ombra.

Tenendo il guinzaglio di Areno, Doc faceva strada verso destra. Il corridoio cambiava gradualmente, c’era un po’ più di luce proveniente dal retro dei pannelli acustici verdi sulle pareti, con canaline che correvano in centro. Il pavimento era disseminato di sedie e rottami, ma i graffiti erano meno frequenti. Le stanze adiacenti mostravano altre attrezzature e sale riunione.

La tuta spaziale mi era diventata pesante. Cominciavo a sudare e il regolatore della temperatura si lamentava troppo spesso cercando di compensare. Le batterie stavano tenendo, ma erano giù. Mentre ci avvicinavamo ad altre porte aperte, Doc sollevò la mano e si fermò ad ascoltare. Poco più avanti, la stanza era bloccata. Dall’interno proveniva una luce colorata e tremolante. C’era uno rumore di tanta gente ma con qualcosa di stonato: musica di sottofondo e qualcuno che cantava fuori tempo.

Le tute Bell sono dotate di specchietti fissati col velcro alle maniche, utili per le aree non visibili dal casco. Ne ho staccato uno e l’ho passato a Doc. Accanto alla porta, lo ha sporto quanto bastava per vedere. Dopo pochi secondi ha alzato gli occhi al cielo e mi ha passato lo specchietto, spostandosi per farmi guardare.

Era un’assurda festa karaoke. Erano tutti in costume, ma non sembrava che scherzassero. In un angolo c’era un Batman in piedi sopra a delle casse, i pugni piantati contro i fianchi. Jesse James era piazzato al finto bar con in mano un bicchiere di chissà che e guardava una ragazza che cercava, senza troppa convinzione, di cantare come una Geisha. C’erano almeno venti o trenta persone, nessuno in uniforme, o in tuta di volo. Due ballavano completamente nudi al centro della stanza. Un altro, con un’uniforme da Star Trek, era appoggiato alla sua spada da samurai, e barcollava come un ubriaco.

Mi voltai verso Doc. Era chiaro che non volevamo attirare l’attenzione di quei tipi. Doc ha indicato sé stesso e il cane e ha fatto segno che stava per oltrepassare la porta. Ho annuito. Ha tirato il guinzaglio, ha fatto in modo che Areno capisse ed è avanzato passo passo. Ho guardato con lo specchietto. Nessuno l’aveva notato.

La manovra non era altrettanto facile in tuta spaziale. Chissà se potevo far finta di essere uno di loro. A quel punto ho cecato di attraversare. Con la coda dell’occhio ho visto che almeno un paio di loro mi avevano individuato e si erano fermati un momento. Superata la porta, ho dato un’altra occhiata con lo specchietto. Nessuna reazione. Non avevano dato alcun peso a qualcuno vistoso e poco originale come un astronauta. Con un sospiro di sollievo, Doc ha annuito e con la massima velocità possibile ci siamo allontanati.

Era facile da capire quale fosse la stanza successiva. Avanti a noi, una barella rovesciata sul fianco. Poi, delle lenzuola e delle coperte. C’erano anche provette rotte e fiale, medicine sparse ovunque, tutti prodotti estremamente utili. Le porte dell’infermeria erano aperte, ma abbiamo dovuto superare un mare di ciarpame. Areno superò tutto con un salto.

All’ingresso del laboratorio, la scena era orribile. Un corpo steso sul pavimento con il camice da malato, un altro morto su una barella in fondo. Ce ne era un altro che pareva ancora vivo, legato al letto, probabilmente mezzo morto di fame, una sacca per flebo vuota appesa al supporto. Quasi tutti i computer e i terminali avevano le prese d’accesso aperte senza schede o con schede staccate, il che dimostrava come l’equipaggio avesse cercato di riparare il danno dell’impulso elettromagnetico. Due o tre stazioni sembravano intatte.

“Dio, spero che ci sia almeno uno scanner medico” mormorò Doc. Mi ha guardato come un uomo cui è stata assegnata una missione kamikaze. “Dovrò creare un collegamento con il computer medico del Grifone e potrei aver bisogno di qualche attrezzatura dalla nave.”

“Tutto quel che serve, Doc.”
“La cosa più importante è accedere ai loro registri. È sicuro che stavano facendo dei test del DNA e scansioni cerebrali per vedere quale fosse la parte più colpita del cervello. Se qualcuno moriva, avrebbero fatto l’autopsia. Devo capire cosa sapevano per riprendere da dove hanno lasciato.”
“Tarn a Wilson.”
Erin rispose: ”Sto togliendo di mezzo una console, Adrian. Un attimo.”
“Dove siete?”
“Abbiamo raggiunto l’ingresso della Sala macchine. Lo avevano bloccato apposta. Dovremmo essere dentro a momenti.”
“Avete avuto problemi?”
“Non un’anima. Solo rottami.”
“Continuate così. Sarò da voi tra un minuto.”
“Ricevuto.”
“Doc, ti aiuto qui e mi assicuro che tu ti possa chiudere dentro, poi vado fuori da solo.”
“D’accordo.”

In un frigo c’erano sacche per flebo. Doc sostituì quella vuota accanto al suo unico paziente ancora vivo. Insieme portammo fuori l’altro corpo e lo coprimmo con un lenzuolo. Quando il cadavere rimanente fu rimosso e il laboratorio medico tornò abbastanza in ordine, mi sono messo fuori dalla porta e lui si chiuse a chiave. Doveva  essere al sicuro e mi sono diretto alla Sala macchine.

“Tarn a Wilson.”
“Siamo dentro, Adrian. C’è un gran casino!”
“Cosa vedi?”
“Intervenivano manualmente sul sistema delle valvole. Immagino che tutti si siano ammalati e alla fine abbiano smesso. Abbiamo un piccolo problema. Alcune delle valvole principali sono in corridoi di servizio non abbastanza grandi per entrarci in tuta spaziale. Che vuoi fare?”
“Puoi aspettare fino al mio arrivo?”
“Oh sì, vedo come va. Come sta Doc?”
“Sano come un pesce. Aspetta un secondo. Devo passare inosservato.”

La festa era ancora in pieno svolgimento. Batman aveva cercato di volare giù dal suo trespolo sopra la folla. Giaceva sul pavimento a faccia in giù, braccia e gambe divaricate, col mantello drappeggiato in tutta la sua gloria. Non importava a nessuno. Sono passato oltre con cautela, mi sono fermato per controllare: nessuna reazione.

“Ok, statemi a sentire. Voi ragazzi siete i tecnici. Io non lo sono. Sarebbe stupido rischiare che vi possiate infettare. Io già inizio a soffocare, mi toglierò la tuta e lavorerò nei tunnel. Potete aspettare fino al mio arrivo?”

Erin rispose: “Possiamo aspettare ma non molto.”
“Sto arrivando. Sono stato già troppo in questa dannata tuta. Che mi dici dell’energia ausiliaria? Ne abbiamo bisogno per sopravvivere.”
Wilson rispose: “È uguale. È un contenitore più piccolo. Farebbe un buco solo un po’ più piccolo nello scafo.”
“Wilson, sei divertente!”
“Qui c’è qualcuno, Adrian, ma non si fa vedere” disse Erin.
“Come fai a dirlo?”
“Gli attrezzi si spostano o scompaiono quando non guardiamo. Non vediamo nulla ma succede qualcosa. Ho la sensazione che, chiunque sia, non è pericoloso ma solo timido.”
“Accidenti! Ragazzi, state in guardia. Di solito questi hanno sempre un’arma in mano?”

Raggiunto l’incrocio ho preso il corridoio centrale. La pressione della tuta era già a 10,7. Lì, ho visto l’attrezzatura che Wilson aveva spostato per aprirsi la strada. Mancava solo una decina di metri di luci e ombre e poi potevo liberarmi dal peso della tuta. Il faretto del mio casco, settato su automatico, si accendeva e spegneva a seconda dei cambiamenti di luminosità. Le guide per cavi e condotti lungo le pareti erano sempre più fitte, assicurando il trasferimento dei dati e la fornitura di energia da e verso il cuore della nave. Il collage di tubi e pannelli infine si apriva su un’uscita con un’ampia rampa di moquette grigia che portava allo spazio aperto della Sala Macchine con il nucleo del reattore centrale e le console di controllo. La camera era alta almeno tre piani. Il contenitore semitrasparente era il tipico tubo che scendeva dal soffitto fino a un vano nel pavimento. La maggior parte dei portelli visivi nei diversi punti, in alto e in basso, erano chiusi, ma due o tre erano aperti. All’interno esplodevano continue scariche di scintille. Le due sagome di Erin e Wilson erano sul lato opposto della sala, rivolti verso un monitor rettangolare che mostrava il motore e i componenti energetici. Mi sono avvicinato e ci siamo guardati, tutti quanti sperando che ci fosse qualche buona notizia. Ma non ce n’erano.

“Ho iniziato la ricompressione della tuta quando hai detto del corridoio di servizio. Altri dieci minuti. Come siamo messi col tempo?”

Erin puntò il dito guantato sul monitor verso la linea principale del refrigerante. “Se riusciamo ad aprire questa linea, il pericolo sarà passato. Ma ci sono due valvole in due diversi incroci. Se ci arrivi e abbiamo il flusso di refrigerante, dobbiamo poi elaborare un nuovo piano di rotazione in modo che ciascuno dei tre sistemi indipendenti abbia abbastanza tempo per raffreddarsi. Ovviamente non è stato progettato per funzionare così, ma è così che funzionerà da ora in poi.”

“Qualche segno dei fantasmi?”
“No, ma qualcuno ci sta guardando di sicuro.”
“Tarn a Grifone.”
“Avanti.”
“Danica, è ora per te e Shelly di passare al pilotaggio singolo, con turni di dodici ore. Non possiamo impegnare tutte e due. Non sappiamo quando o se torneremo al Grifone. Mi ricevi?”
Danica rispose: “Grifone, ricevuto.”
“RJ, le telecamere delle tute stanno per ridursi a due. Abbiamo avuto qualcos’altro dal Controllo Missione?”

RJ tentennava: “Hanno confermato tutto ciò che abbiamo inviato. Sembra che ci sia qualche intoppo nella comunicazione con JSA. JSA ci appoggia ma la compagnia che gestisce l’Akuma sembra nascondere delle informazioni. C’è un po’ di confusione laggiù.”
“Bene. Tienici aggiornati. Tarn chiudo. Ok, ragazzi. La mia tuta è agli ultimi. Aiutatemi a venirne fuori.”
I due vennero ad aiutarmi quando un piccolo allarme è scattato nella mia testa. Ho alzato una mano: “Wilson, resta di guardia con la tua arma. Mi aiuterà Erin.”

Attraverso il vetro della sua visiera ho visto che aveva capito, mentre iniziavo la procedura di sblocco per il mio casco.

Mi ero appena liberato del busto quando un tintinnio seguito da uno schianto ci ha spaventati e ha bloccato le operazioni. Qualcosa aveva prodotto un rumore metallico cadendo dall’alto lungo il condotto e le passerelle. Era rimbalzato su una grata metallica in terra e si era fermato vibrando. Abbiamo guardato ovunque, ma non abbiamo visto nessuno. Eppure lì, sul pavimento nel lato sud della stanza, c’era una chiave inglese color argento.

Erin mi fissò: “Vedi cosa dicevo? E sai cosa? Vedi da dove è arrivato? Vicino alla passerella più alta. Ecco è proprio lì che si trova il tuo primo tunnel. Non oso pensare che sia la chiave necessaria per la valvola che dobbiamo sbloccare.”

Mi sono seduto sul pavimento e ho spinto via i pantaloni della tuta. “Ti farò sapere al più presto.”

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Nel gruppo abbiamo anche recuperato Paolo Beretta che aveva avuto problemi tecnici e che accogliamo con grande simpatia nel nuovo gruppo di traduttori. Abbiamo una chat Messenger con cui scambiarci opinioni e richieste, da cui contattare direttamente E. R. Mason per le frasi, o le parole che ci paiono complicate, o poco chiare. Inoltre tutti collaborano anche oltre le traduzioni, per la revisione dei testi, o la preparazione delle pagine finali. Aspettiamo disegnatori, per una bella copertina del libro finale! E altri traduttori, naturalmente.

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nato nel 1944, non ha tempo di sentire i brividi degli ultimi fuochi della grande guerra. Ma di lì a poco, all'età di otto anni sarà "La Guerra dei Mondi" di Byron Haskin che nel 1953 lo conquisterà per sempre alla fantascienza. Subito dopo e fino a oggi, ha scritto il romanzo "Nuove Vie per le Indie" e moltissimi racconti.