In copertina: Fruttero e Lucentini. “Un disco volante non può atterrare a Lucca.”

Eugenio Ragone e Vittorio Catani

Gli appassionati di fantascienza ed in generale quanti sono cultori di interessi “di nicchia” spesso non si rendono conto appieno del debito che hanno verso Internet. Nello spazio virtuale del web ogni cosa diventa facilmente accessibile a chiunque ed ha una permanenza praticamente illimitata. In un’epoca non certo lontana, almeno per le persone che come me hanno ormai compiuto il mezzo secolo di vita, le cose non stavano davvero così, ed accadeva ad esempio che qualcosa stampato (ciclostilato, il più delle volte) su di una fanzine tirata in duecento copie, diventasse rapidamente introvabile.

Una parte non trascurabile della saggistica che ho prodotto in quegli/questi anni (assieme a molto materiale inedito), è ora disponibile nel Manuale della fantascienza, un appuntamento fisso sulle pagine di “Continuum”, e  in versione tipografica sulla corrispondente Guida alla fantascienza presso la Perseo Libri. Questo non significa di certo aver ripresentato tutto della produzione di saggistica fantascientifica scaturita da un’attività più che trentennale, e qualcosa d’importante non ha trovato collocazione nel Manuale né nella Guida.

In particolare, l’articolo che segue, io credo si possa dire che abbia rappresentato un punto importante, una pietra miliare nella mia “carriera” di saggista.

Si era nel 1985, ed in quel momento nella fantascienza italiana era particolarmente acceso il dibattito fra “italianisti” ed “americanisti”, vale a dire i sostenitori di una fantascienza dai tratti nazionali, fortemente collegata alla tradizione del nostro “mainstream”, nella quale però lo specifico fantascientifico andava irrimediabilmente a perdersi, e sostenitori di una fantascienza fortemente modellata sui canoni d’oltreoceano, che spesso finivano per concludere che gli autori italiani non avrebbero dovuto scrivere fantascienza per la mancanza di un retroterra culturale, un “background” come snobisticamente si diceva, adeguatamente “scientifico”. 

A me personalmente sembrava parecchio sospetto il fatto che gli argomenti degli uni fossero in realtà straordinariamente simili a quelli degli altri: entrambi davano per assodata l’“ascientificità” degli autori italiani, solo che gli uni vedevano la cosa positivamente e gli altri negativamente.

Inisero Cremaschi

In quel periodo, il capofila del “partito” italianista era Inisero Cremaschi, già curatore della “mitica” antologia Universo e dintorni, pubblicata da Garzanti nel 1978, (ed a cui pure io avevo partecipato) ed alla quale era riuscito a premettere un’introduzione – storia della fantascienza italiana in cui essa si faceva discendere dai magnanimi lombi del mainstream nostrano, da Dante a Leopardi, in base alla quale non sarebbe stato umanamente possibile sospettare che con la fantascienza anglosassoni ed americani c’entrassero per qualcosa.

L’origine di quest’articolo fu un po’ singolare, una replica che doveva inizialmente essere una specie di sia pur ampia lettera al direttore, ad una risposta che Renato Pestriniero aveva dato ad alcune questioni da me sollevate su “The Time Machine” nell’allora già lontano 1982, e che avevo avuto modo di leggere solo parecchio tempo più tardi, che doveva essere ospitata sulle pagine di THX 1138, la fanzine barese di Vittorio Catani, Eugenio Ragone e Donato Altomare. Se non erro, fu proprio Vittorio a suggerirmi di trasformare il mio intervento in un articolo, ed il titolo dello stesso fu scelto da lui; suggerimenti che accettai ben volentieri, anche perché mi sentivo un po’ “il padrino” della pubblicazione barese nata da una sinergia venutasi a creare quando avevo messo in contatto l’inossidabile duo Catani – Ragone con il vulcanico Donato Altomare.

Una reazione l’articolo la provocò subito. Mentre Renato Pestriniero, l’unica persona del nostro fandom che chiamavo direttamente in causa, con l’innata signorilità che l’ha sempre contraddistinto, nulla trovava da eccepire, Inisero Cremaschi s’imbufalì, sollevò il ricevitore (non erano ancora tempi di cellulari), chiamò Vittorio Catani e gli vomitò addosso una valanga d’insulti. Io trovai la cosa doppiamente scorretta. Prima di tutto Cremaschi se la sarebbe dovuta prendere con me, non con Vittorio che nulla c’entrava; poi, se invece d’inalberarsi come un toro che vede sventolare la muleta, avesse effettivamente letto l’articolo, forse si sarebbe accorto che non era un attacco a lui e al suo gruppo, che quella che trovavo orribile (e sono sempre della medesima opinione) era soltanto la parola “neofantastico”, ma questo non voleva essere una negazione a priori che la sua “scuola” potesse produrre qualcosa d’interessante e valido.

Forse quest’articolo ha davvero segnato una svolta nella fantascienza italiana; da allora di “italianisti” e di “americanisti” non si parla più; e se oggi l’autore italiano si accosta alla fantascienza senza, o con meno complessi d’inferiorità rispetto alla produzione anglosassone, oso sperare che sia stato merito anche mio.

Una cosa di cui mi capita talvolta di rammaricarmi, è di essere un lettore non meno discontinuo e disordinato di quanto lo sono come autore; così, solo in questi giorni mi è capitato di leggere Alcune note sulla SF italiana di Renato Pestriniero, pubblicate sul n. 23 (4/82, nientemeno) di “SF…ere”. Nonostante sia dunque passato un discreto lasso di tempo, mi sembra opportuno riallacciarmi al discorso di Pestriniero perché parte delle riflessioni che formano il contenuto di queste note sono state riprese ed ampliate da una lettera, con cui lo scrittore veneziano intervenne anni prima (credo che fossimo nel ’79) in una polemica sorta sulle pagine di “The Time Machine” fra me ed i redattori di questa pubblicazione, polemica che aveva per oggetto la questione più controversa di tutta la fantascienza italiana: la fantascienza italiana, appunto.

Ciò che Pestriniero faceva giustamente notare, era l’impossibilità della trasposizione pura e semplice nella produzione di casa nostra dei modelli fantascientifici d’oltreoceano:

“Esempio: come può riuscire un hard-core valido con il gap psico – tecnologico che ci troviamo? La semplice cronaca di un black-out in una megalopoli USA diventa automaticamente una serie di scalette per racconti considerati altrove decisamente di fantascienza. Quel black-out nella megalopoli USA ad altissimo livello tecnologico, nel marasma di 20 milioni di abitanti, non può che impoverire la stessa situazione in una città unirazziale di 3 o 4 milioni di anime”.

 Che dire? Pestriniero ha ragione: se si vive a Trieste, a Venezia, a Roma o a Caltanissetta, è inutile fingere di essere newyorkesi. Se il problema fosse proprio in questi termini, si potrebbe benissimo finire qui, solo che la faccenda è un tantino più complessa, se non altro perché una volta definito che cosa la fantascienza italiana non è e non può essere, resta ancora del tutto aperto il problema di che cosa la fantascienza italiana sia o potrebbe essere.

Riandando a quella “famosa” polemica su “TTM”, quello che sostenevo io – nel ciò tirandomi dietro il rimbrotto di molti e la certamente sagace e penetrante replica di Pestriniero (ma la colpa probabilmente era mia, non devo essermi spiegato con sufficiente chiarezza, ma tenterò di farlo ora) – era che la fantascienza italiana, sganciatasi, attraverso un lungo processo di maturazione, dalla sudditanza dagli stereotipi importati d’oltreoceano (che non mi sono mai sognato di riproporre), può essere una letteratura matura, adulta, a condizione di non cadere nell’errore contrario, cioè di essere una fantascienza “all’italiana”, una fantascienza-spaghetti.

È necessaria una precisazione: la fantascienza è nata come letteratura popolare, una narrativa di congegni straordinari e di invenzioni mirabolanti ma senza alcuna pretesa letteraria, senza approfondimento psicologico dei personaggi, sulle pagine di “Modern Electrics” e di “Amazing Stories” di Hugo Gernsback, e si è più o meno vergognata di questo suo “vizio di origine” come di una nascita illegittima, cercando di “nobilitarsi” accostandosi al “mainstream”. Questa è storia americana, naturalmente, ma la storia della fantascienza italiana sembra quasi una dimostrazione della legge di Haeckel secondo cui l’ontogenesi individuale ricapitola la filogenesi della specie, ed ha percorso fasi molto simili (non voglio dire le stesse) con una sfasatura cronologica di una trentina d’anni. Dai primi pedestri tentativi di imitazione anglosassone apparsi sporadicamente su “Scienza fantastica”, alla fantascienza avventurosa pubblicata con pseudonimi anglosassoni su “Cosmo” Ponzoni, fino al periodo “magico” di “Oltre il Cielo”, di “Interplanet”, di “Futuro”, di “Galassia” di Malaguti e Rambelli (quasi una mini era di Campbell italiana), fino al momento attuale, la cui lettura si presenta un tantino più complessa. Dopo un lungo periodo di “latenza”, è stata, credo, la rivista “Robot” a pubblicare con non grande intensità qualche racconto d’autore italiano. Successivamente è stata l’editrice Nord a dare spazio nelle sue collane ad autori italiani, limitandosi perlopiù però ad un paio di nomi affermati: Luigi Menghini e Daniela Piegai; l’esperimento più interessante è rappresentato oggi probabilmente dalla Fanucci dove in particolare nella collana “I libri di fantasy” alterna autori anglosassoni ed autori italiani. È la prima volta credo, che un’importante casa editrice specializzata crea una collana in cui l’autore d’oltreoceano e quello di casa nostra si alternano e si confrontano su un piede di parità.

Tuttavia, il fatto che si sia preferita per un simile esperimento una collana di fantasy, potrebbe stare ad indicare una ancora non piena fiducia, od una non ancor piena fiducia nell’accettazione da parte del pubblico, dell’autore italiano come scrittore di fantascienza hard. Potremmo dunque dire che ancora oggi, nonostante le difficoltà editoriali in cui la fantascienza italiana si dibatte per trovare un suo spazio che le consenta di vivere e di situarsi con qualcosa di più che delle sporadiche incursioni al di fuori del “ghetto” delle fanzine e di una produzione artigianale, s’impone l’esigenza di ricercare uno “status”, un’identità culturale per questa nostra fantascienza italiana, che comincia a presentare sempre più marcatamente i connotati di una maturità culturale e di una fisionomia propria.

Esattamente come per la fantascienza americana durante il periodo della new wave, una possibilità è stata vista da alcuni nell’accostamento al mainstream, in una dignificazione letteraria che rischia di tradursi in ultima analisi in nient’altro che nel rifiuto dello specifico fantascientifico; perfino la parola “fantascienza” sarebbe divenuta obsoleta, e qualcuno ha proposto il termine – orribile – di “neofantastico” con un’operazione dalle stesse connotazioni semantiche e dagli stessi retroscena concettuali che avevano portato i “new wavers” d’oltreoceano a coniare “speculative” in opposizione a “science” – fiction.

Naturalmente, tutta la questione acquista un senso se riusciamo a rispondere almeno in maniera non del tutto insoddisfacente ad una domanda: che cos’è lo specifico fantascientifico?

Vorrei rifarmi un momento a d un articolo provocatorio ma acuto di Giuseppe Lippi, Fantascienza e letteratura popolare, apparso sul n. l di “Robot”. In esso Lippi demolisce l’immagine ormai classica di una fantascienza che è andata gradualmente evolvendosi dai primi popolareschi e letterariamente goffi tentativi sulle riviste pulp, acquistando poco per volta in padronanza stilistica, migliorando le descrizioni, l’analisi psicologica dei personaggi, elaborando trame meno infantili, fino ad avvicinarsi al mainstream. Secondo Lippi, non si potrebbe parlare di un’evoluzione della fantascienza, e l’avvicinamento al mainstream sarebbe una specie di vezzo in cui talvolta autori ed appassionati indulgono. Beh, l’articolo di Lippi mi sembra abbia voluto agitare un po’ le acque, attaccando una certa interpretazione della fantascienza che è diventata una specie di luogo comune acriticamente accettato. Se noi andiamo a rileggerci Ralph 125C 41+ di Gernsback o qualche altro degli infami polpettoni degli anni ’20, dobbiamo ammettere che una certa evoluzione c’è stata, ed è ovvio che gli autori di fantascienza hanno dovuto “accostarsi al mainstream” nel senso che hanno dovuto imparare a scrivere un po’ meglio, inventando uno stile migliore, dei personaggi più credibili, delle trame più decenti. Ma per un altro verso, Lippi ha perfettamente ragione: è chiaro che questa ovvia evoluzione che risponde ai cambiamenti dei gusti del pubblico che sono avvenuti negli ultimi cinquanta anni nella fantascienza come altrove, non prelude ad alcuna fusione della fantascienza con il mainstream, e non tocca quelli che sono gli elementi essenziali del genere, a meno che non si smetta effettivamente di scrivere fantascienza, cosa che appunto alcuni new wavers hanno fatto. Quanto poi al vergognarsi, come una specie di peccato originale, del basso livello della science fiction delle origini, è semplicemente una cosa sciocca, come se i costruttori ed i piloti di jet si vergognassero del fatto che cinquanta anni fa gli aeroplani erano biplani ad elica.

Rispetto al mainstream, la fantascienza ha una doppia specificità. Per prima cosa, e Lippi in questo ha perfettamente ragione, è una letteratura popolare. Ora, si badi bene, parlare di un’evoluzione della letteratura popolare verso la letteratura “alta” è un’autentica ingenuità, perché non è vero che la letteratura popolare sia in qualche modo inferiore alla letteratura cosiddetta “alta”, semplicemente risponde ad un tipo di richiesta diverso da parte di un pubblico diverso, ma non è affatto detto che questo richieda all’autore minori capacità inventive od anche minori capacità stilistiche, minore bravura o minore impegno. La letteratura cosiddetta maggiore si rivolge ad un pubblico “colto” (definizione sulla quale ci sarebbe comunque da discutere) che richiede una prosa cesellata, l’accuratezza delle più inusitate introspezioni psicologiche, il sottile gioco dei riferimenti letterari incrociati tanto caro ai vari Arbasino e Manganelli, il “realismo” frutto di un costante lavoro di scavo archeologico nei rimasugli della cultura pre-industriale, ma per altri versi si tratta di un pubblico straordinariamente di bocca buona. Un Moravia ad esempio sarà uno scrittore funzionale a questo tipo di richieste, ma non ha nemmeno lontanamente la capacità di elaborare le trame complesse, ricche di azione, di suspense, il solido intreccio che si richiede ad un qualsiasi scrittore di gialli, ma in una certa misura è un falso problema.

In realtà la questione non è di sicuro di oggi. Quando Balzac rimproverava Manzoni perché I promessi sposi è un libro noioso e senza trama (cosa verissima, come può confermare ciascuno di noi cui è toccato sorbirselo sui banchi del liceo) dimenticava forse che, mentre i suoi libri erano destinati a qualche migliaio di lettori in tutti gli strati della media e piccola borghesia, Manzoni, in una situazione sociale alquanto diversa, aveva in vista come potenziale pubblico qualche centinaio di letterati suoi colleghi.

Diciamo dunque che la letteratura popolare richiede un tipo di opere ed un tipo di autori diverso che non la letteratura “alta”, e più che la pagina ornata da elzeviro, conta saper costruire storie solide, dotate di intreccio e azione, capaci di interessare un lettore che, se meno esigente dal punto di vista stilistico, pretende però una lettura che lo avvinca, e non è assolutamente disposto ad annoiarsi, sennò pianta lì il libro.

La collocazione “popolare” della fantascienza mi sembra indubbia, e la cosa non sminuisce affatto il genere, ma c’è uno “specifico” fantascientifico rispetto agli altri generi “popolari” (il poliziesco, l’avventura, ma anche altri generi fantastici come l’horror e la fantasy)? Non si tratta del tanto abusato e giustamente deprecato “sense of wonder”, le inverosimili torri di cristallo sotto cieli purpurei e le ancor più inverosimili principesse marziane. La specificità della fantascienza consiste in ben altro, nella riflessione razionale sul fatto che viviamo in un’epoca in cui il progredire della tecnologia e delle conoscenze scientifiche altera costantemente le premesse tecnologiche, materiali, ambientali, sociali, culturali, psicologiche della nostra vita, nel tentativo razionale di previsione (non predizione) del futuro o meglio delle diverse alternative, dei diversi futuri possibili che questa evoluzione pone davanti a noi. Che si tratti dell’esplorazione di altri mondi, dell’incontro con intelligenze aliene, della scoperta di un modo per viaggiare nel tempo, di perfezionamenti della medicina che rendano l’umanità virtualmente immortale, o di possibilità negative come la spersonalizzazione degli uomini causata dall’abuso dei mass media, il crollo della civiltà umana in conseguenza degli effetti combinati di inquinamento, sovrappopolazione e crisi energetica, o dell’olocausto nucleare, si tratta di eventualità che solo il progredire della tecnologia rende in qualche misura possibili o anche soltanto immaginabili. Noi non possiamo sapere come sarà il futuro, ma sappiamo che sarà diverso dal presente non meno di quanto il nostro mondo è diverso da quello di 20 o 30 anni fa. Di fronte a questa constatazione, molta gente ha paura e cerca di non pensarci o rassicurarsi in vari modi (in fondo è comprensibile: le società umane sono rimaste stabili per migliaia di anni) e continua ad applicare ricette e soluzioni ormai non più adeguate ad una realtà in continua trasformazione (e questo vale – purtroppo – anche e soprattutto per i politici e i dirigenti industriali), ma esistono anche persone che cercano di capire e di vivere all’altezza della propria epoca e trovano stimolante cercare di immaginare il futuro, o qualcuno dei molti futuri possibili. Io mi ritengo una di queste persone e, dato che state leggendo queste pagine, è molto probabile che anche voi lo siate.   

Tutto sommato, la new wave si è risolta in un esperimento positivo per la fantascienza anglosassone; con l’andare del tempo, la paccottiglia, gli sperimentalismi gratuiti sono affondati nel dimenticatoio e sono rimasti le opere e gli autori validi, come un Norman Spinrad. Possiamo pensare – e francamente c’è da augurarselo, se la “legge di Haeckel” non subirà questa volta una clamorosa smentita – che anche la situazione italiana passi attraverso un analogo processo di decantazione, al termine del quale essa si riveli una letteratura evoluta e sicura dei propri mezzi espressivi.

Vi è tuttavia chi potrebbe dubitarne, si dice “siamo troppo diversi”, una fantascienza che sia letteratura e rimanga fantascienza non dovrebbe poter attecchire da noi.

Sinceramente, questo tipo di argomentazioni mi lascia perplesso, se non altro perché è molto sospetta la somiglianza tra gli argomenti di coloro che esaltano la “peculiarità” della fantascienza italiana e quelli di chi si colloca semplicemente fra i suoi detrattori. Per gli uni e per gli altri, l’italiano sarebbe incapace di scrivere in maniera “scientifica” come gli autori d’oltreoceano, solo che per gli uni la cosa sarebbe inspiegabilmente positiva, mentre per i secondi no.  

Ora, poiché la fantascienza italiana esiste da trent’anni, e della sua esistenza si sono accorti tutti tranne Fruttero e Lucentini, è abbastanza facile sorridere degli sproloqui di chi si ostini ancora a negare l’esistenza della science fiction di casa nostra. Quello che è più difficile da dissipare è il pregiudizio che, dato che “le nostre radici culturali sono altre”, la fantascienza italiana dovrebbe limitarsi all’intimismo, all’introspezione, ad esplorare i lati meno razionali del fantastico (magari con speculazioni su ed interventi di Dio, santi, angeli e madonne), o se si fa ricorso a qualche idea genuinamente fantascientifica, avere l’accortezza di stemperare il tutto in un contesto da “natio borgo selvaggio” di pavesiana e leopardiana memoria, oppure andare a ripescarsi le formulette pseudo innovative delle avanguardie letterarie di quaranta anni fa, e magari condire il tutto con un po’ di fantesesso e di fantapolitica. C’è chi non vede per la fantascienza italiana altri orizzonti oltre a questi, e gli esempi si potrebbero fare a dozzine.

Vogliamo affrontarlo una volta per tutte questo discorso delle “radici culturali”, senza preconcetti e senza tabù? Un qualsiasi essere umano, nella sua concretezza fisica e storica, è il prodotto, oltre che di una certa costellazione genetica, di tutti gli stimoli dell’ambiente e di tutte le esperienze che hanno influito sudi lui. A parte il fatto che noi oggi viviamo in un mondo molto diverso da quello di Dante, di Leopardi o anche di Pavese, mi riesce veramente difficile credere che une solitamente mal digerita cultura scolastica (e la mia esperienza sia in veste di studente che d’insegnante, mi dice che la scuola oggi sembra organizzata in maniera da rendere scientemente insipido e indigesto tutto quanto pretende d’insegnare) possa avere un peso incomparabilmente superiore alla lettura. appassionata (e veramente diuturna, a quello che so, nel caso di certi fan) dei vari Bradbury, Asimov, Simak, Heinlein, Dick, Disch, Anderson, Vance e via dicendo, oppure vogliamo conservare il vezzo settecentesco pre-madame de Stael di considerare nullo tutto quanto non è stato letto in lingua originale? Quello che dicevo sulle pagine di “The Time Machine” e che non mi stanco di ripetere adesso con identica convinzione, è questo: non si può produrre qualcosa di letterariamente pregevole se non è veramente sentito, non proponetevi modelli, non imitate Heinlein, ma nemmeno Leopardi, non spacciatevi per scienziati di Houston, ma non mettetevi neppure parrucche settecentesche, cercate di essere voi stessi, lasciate agire tutte le componenti della vostra esperienza culturale, e se da ciò uscirà una felice sintesi della cultura mainstream italiana e della letteratura di fantascienza così come è stata elaborata oltre oceano, o una malaccorta e contraddittoria amalgama di entrambe, questo dipende da voi, dalla vostra personalità e dalle vostre capacità. Per quanto mi riguarda, scrivendo, ho sempre cercato di esprimere qualcosa che mi portavo dentro, qualcosa che amo, o più spesso, che mi tormenta.

Penso che la maggior parte fra quelli di voi che sono scrittori lo siano diventati inizialmente per spirito di emulazione, leggendo le avventure descritte dagli autori d’oltreoceano, o magari restando affascinati dalle astronavi di Kurt Cesar dipinte sulle copertine dei primi fascicoli di Urania, anche se in seguito avranno sviluppato uno stile e delle tematiche personali. Per me le cose sono andate in maniera quasi opposta, sono stato prima uno scrittore che un lettore di fantascienza, anche se ho ovviamente provveduto a farmi, nei limiti del possibile, una cultura sugli argomenti che mi interessavano.

Voglio dire, ho avuto inclinazione per la narrativa fino dalla prima adolescenza, e per me è stato naturale pormi e comprendere fin nei miei primi, goffi tentativi letterari, una serie di domande: se siamo soli nell’universo, come potrebbero essere creature di altri mondi, quale sarà il nostro futuro, dove ci stiamo dirigendo sotto la spinta accelerata della tecnologia. Domande che credo continuerei a pormi anche se non esistesse un genere di narrativa codificato come “science fiction”, e secondo me è proprio questo che costituisce il vero “sense of wonder” della fantascienza, e sinceramente non arrivo a capire come mai molti sedicenti scrittori riescano ad accontentarsi del “qui e ora” con tutto l’universo e tutto il tempo a disposizione della fantasia, né come molte persone presunte colte riescano a non provare un briciolo di curiosità circa il futuro nemmeno molto lontano della nostra società in rapida trasformazione.

“Vabbé”, si dirà, “ma la cultura italiana è di tipo umanistico e non scientifico”, ma che cos’è questo benedetto umanesimo della nostra cultura? Se per umanesimo s’intende la meditazione sull’uomo e la società, allora esso non è per nulla inconciliabile con la fantascienza, che altro non è se non una riflessione critica totale sull’uomo (come individuo e come specie), la società e il loro destino. Se per umanesimo s’intende l’ignoranza o la svalutazione della conoscenza scientifica e tecnologica, è qualcosa che ci potrà forse caratterizzare, ma di cui non c’è proprio nulla di che andare fieri.

Tuttavia ho il sospetto che tutto questo discorso (con tutti i complessi d’inferiorità che ne derivano) tragga origine da un sostanziale equivoco sul significato ed il ruolo del contesto scientifico nella fantascienza.

Facciamo un piccolo esame degli autori più “scientifici” della S.F. anglosassone, e vediamo se davvero sono le componenti scientifiche, ammesso che nessuno in Italia sia in grado di eguagliarle, a far e di essi dei Maestri. Mi vengono subito in mente quattro nomi: gli americani Asimov ed Heinlein e gli inglesi Clarke ed Hoyle.

Asimov, oltre che autore di S.F., è uno scienziato ed uno stimato divulgatore scientifico, vediamo come si serve della scienza nelle sue opere. Per prima cosa, Asimov è un chimico e un biochimico, e di questo non troviamo proprio traccia nella sua narrativa che sembra dedicata prevalentemente ad un campo scientifico molto distante dalla sua specializzazione: la cibernetica e la robotica. Secondariamente, i robot di Asimov hanno “cervelli positronici” cioè cervelli in cui gli elettroni sono sostituiti da positroni (particelle nucleari di massa analoga agli elettroni, ma dotate di carica elettrica positiva), e questa è un’idea che non solo non ha niente di scientifico, ma è una vera sciocchezza, infatti, i positroni sono antimateria e non potrebbero fare altro che annichilirsi insieme ad una uguale massa di materia, convertendosi in energia pura con gli effetti catastrofici che possiamo immaginare.

L’altro grande ciclo narrativo di Asimov, la Trilogia galattica, è legato ad un ordine di idee ancora più lontano dalla sua specializzazione scientifica: alla sociologia e alla storia, tanto è che, come è notorio, la Trilogia nacque dalla lettura di Declino e caduta dell’impero romano di Gibbons.[NOTA] Robert Heinlein è un ingegnere, ma leggeremmo invano le sue storie alla ricerca di mirabolanti congegni. Come per Asimov nella Trilogia, anche per Heinlein l’interesse si concentra sul fantastico sociologico, si vedano romanzi come Cittadino della Galassia, Sesta colonna, Oltre l’orizzonte, Storia di Farnham e, ovviamente, Straniero in terra straniera.

Arthur C. Clarke è forse l’autore che meglio rappresenta la fantascienza “hard” per un uso massiccio della scienza nelle sue storie; eppure, consideriamo un attimo il suo romanzo più famoso 2001 Odissea nello spazio e il suo seguito, 2010 Odissea due. Il primo è stato scritto nel 1964, l’altro quasi venti anni dopo, e in questi ultimi venti anni la nostra immagine dello spazio e del sistema solare ha subito i mutamenti più profondi forse dall’invenzione del telescopio e dalla ricerca galileiana. Non soltanto, infatti, sono stati scoperti oggetti che prima non era stato possibile ipotizzare come quasar, pulsar, radiogalassie, buchi neri (ma questi ultimi non siamo ancora ben sicuri che esistano) ma soprattutto, è stata completamente rivoluzionata la nostra idea dei pianeti esterni del sistema solare, proprio quelli che fanno da sfondo ai due romanzi, grazie alle sonde Pioneer, Voyager ed altre ancora. Ciò nonostante, uno “stacco” fra i due romanzi non si avverte, e questo è proprio il segno che la componente scientifica gioca tutt’al più un ruolo di sfondo.

Fred Hoyle è un astronomo ed un cosmologo di notevole valore; tra i suoi romanzi ce n’è, a dire il vero, uno la cui fonte di ispirazione possiamo individuare proprio nell’astronomia, La nuvola nera, che parte dal presupposto che certi ammassi di nubi di polvere interstellare noti come “Globuli di Bok” possano essere una specie di esseri viventi. Non occorre dire che la validità scientifica di una simile ipotesi è nulla. Il più famoso romanzo di Hoyle è comunque A come Andromeda, che parla di una creatura umana-aliena fabbricata in laboratorio a partire da un codice genetico dettato da un computer sulla base di un “messaggio” ricevuto da un’altra galassia; siamo nel campo della fantabiologia e/o della fantabiochimica, che dovrebbe essere piuttosto, stando ai titoli accademici, la specializzazione di Asimov.

Naturalmente, questi autori sono i quattro più conclamati rappresentanti della fantascienza “hard”, sono tre scienziati ed un ingegnere; accanto a loro esiste una miriade di autori di SF, autori di opere tutt’altro che disprezzabili, con cui una precisa competenza scientifica c’entra come i classici cavoli a merenda.

Ed allora dovremmo dedurne che tra la science fiction e la conoscenza scientifica non esiste alcun rapporto? Questo non è assolutamente vero, ma non si sarebbe troppo lontani dalla verità asserendo che non è necessaria alcuna specifica competenza in qualche settore della ricerca scientifica per essere dei buoni scrittori di SF.

Che cos’è allora l’elemento scientifico che è indubbiamente presente nella fantascienza? Secondo me, esso non è in definitiva altro che il dare una forma letteraria a quello che è l’atteggiamento di base della ricerca scientifica, cioè l’atteggiamento razionale nei confronti del mondo che ci circonda, implicante la validità dell’esperienza intersoggettivamente verificabile (e solo di quella, non, ad esempio, dell’esperienza mistica) e della previsione basata sui criteri dell’estrapolazione scientifica. Faccio notare che questa concezione della fantascienza comporta una qualità di realismo senza dubbio più alta del “realismo” del mainstream. Ad esempio, il “buon senso”, i nostri condizionamenti mentali, la paura dei cambiamenti ci dicono che “non è possibile” che i parametri della nostra vita, il nostro mondo, la nostra scala di valori, siano sconvolti nel giro di un quarto d’ ora; il realismo fantascientifico e la logica, uniti alle esperienze di Hiroshima e Nagasaki ed alle informazioni sul potenziale di morte contenuto negli arsenali delle superpotenze, ci dicono che è perfettamente possibile, e che è meglio cominciare a preoccuparsene per tempo, prima di vivere gli orrori del dopobomba. Si tratta in definitiva di una scientificità, o meglio,di un atteggiamento scientifico che non occorre essere scienziati dei laboratori del M. I. T. o progettisti di astronavi per possedere, che può essere fatto proprio da qualsiasi uomo ragionevolmente colto e dotato di una cultura in senso moderno della civiltà occidentale, e trova da noi un limite solo in due grossi pregiudizi di segno speculare e simmetrico: il complesso di inferiorità nei confronti degli americani e la credenza che la scienza sia poco importante per capire il mondo che ci circonda, noi stessi e il nostro futuro. È comunque chiaro che nel momento in cui ci si mette a scrivere fantascienza, è importante, se non possedere una cultura scientifica specialistica, avere quelle nozioni di dettaglio che sono comuni fra le persone mediamente informate sulle cognizioni elementari della fisica ed hanno qualche idea di come va il mondo.

Ad esempio, nel film Godzilla, il noto mostro nipponico viene alla fine ucciso mediante un congegno che toglie l’ossigeno dall’acqua del mare, e questa è un’ idea semplicemente idiota, se fosse possibile togliere l’ossigeno dall’acqua del mare, essa, ridotta ad idrogeno, evaporerebbe, provocando l’estinzione di tutte le creature marine, e di lì a poco, della restante vita del nostro pianeta, umanità compresa. Ancora più abominevole il vaneggiamento di un presunto scienziato di un altro film giapponese, Inferno nella stratosfera (di cui ho visto solo il provino, né mi sarei sognato di vedere altro) che spiega come gli extraterrestri rendano privi di peso gli oggetti mediante un brusco abbassamento della temperatura; resterebbe da spiegare allora perché la NASA perda tempo e denaro per costruire quei costosi missili Saturno V e quei costosi Space Shuttle quando sarebbe possibile andarsene nello spazio a bordo di un frigorifero. (Bisogna riconoscere però che in Giappone questi film sono distribuiti in uno speciale circuito per ragazzi, mentre da noi vanno nel circuito cinematografico normale, dove contribuiscono, come potete immaginare, a ridicolizzare l’immagine della fantascienza presso lo spettatore medio). Marchianerie di questo genere, che danno un’impressione penosa d’infantilismo, vanno assolutamente evitate, ma questo significa semplicemente avere un po’ di rispetto per il lettore (o per lo spettatore) e per il vostro lavoro; ma se voleste, ad esempio, scrivere un romanzo storico, non vi si richiederebbe di essere uno storico specialista, ma dovreste documentarvi almeno un po’ non potreste descrivere Giulio Cesare mentre consulta l’orologio per dare il segnale d’assalto ai suoi legionari.

Il fascino della fantascienza consiste, secondo me, proprio nel fatto che è un tipo di letteratura che unisce la libertà immaginativa del fantastico all’enorme vantaggio di essere una letteratura plausibile, e questo deriva dal fatto che essa è basata su di un approccio razionale al mondo che ci circonda ed alle sue possibilità di evoluzione (o di involuzione) future.

NOTA: si tratta di Foundation. Quando l’articolo fu scritto, non solo Isaac Asimov era vivo, ma dei romanzi che  compongono il ciclo della “Fondazione”, Asimov aveva scritto solo i primi tre (che precedono i successivi di una quarantina d’anni), e l’opera era nota in Italia anche come Trilogia galattica.