L’Isola del Dottor Moreau” è il ben noto capolavoro di Herbert George Wells, di cui abbiamo già presentato tre puntate, come si vede qui sopra. Il servizio è tratto da Liber Liber. che seleziona i romanzi, i libri e i racconti che non hanno più Copyright e li mette a disposizione dei lettori. Questo romanzo è stato pubblicato a Londra nel 1896 e la traduzione italiana è di Arturo Bagnoli. – Milano : Corticelli, [1926].

XI.
La caccia all’uomo

Osservai con un irragionevole desiderio di fuga che l’uscio esterno della mia camera era ancora aperto. Ero convinto, assolutamente convinto che Moreau aveva vivisezionato un essere umano. Dacché avevo sentito ripetere il suo nome mi ero sforzato di connettere in qualche modo nella mia mente la grottesca animalità degli isolani coi miei terrori e credetti allora di tutto comprendere. Rammentai i suoi lavori sulla trasfusione del sangue. Le creature che avevo veduto erano certo le vittime di qualche orrendo esperimento.

Quegli strani furfanti di Moreau e di Montgomery avevano certo pensato di tenermi lontano per ingannarmi con la loro manifestazione di fiducia e piombar poi su di me e condannarmi a una sorte più orribile della morte, alla tortura e, dopo la tortura, alla più crudele delle degradazioni che fosse possibile concepire: essere una bestia mandandomi a raggiungere il rimanente del loro branco abbrutito. Mi guardai attorno in cerca di qualche arma. Nulla. Allora, guidato da una ispirazione, capovolsi la poltrona, la sfasciai con un piede e le strappai il traversino laterale. Un chiodo si staccò col legno e diede un aspetto un po’ più pericoloso a un’arma altrimenti di poco valore.

Intesi un passo e immediatamente spalancai l’uscio. Montgomery era a meno di un metro da me. Aveva intenzione di rinchiudermi a chiave dall’esterno?

Sollevai il mio bastone chiodato mirando al suo viso, ma egli balzò indietro. Esitai un momento, poi mi voltai e mi misi a fuggire girando l’angolo della casa.

— Prendick! Prendick! – l’udii gridare meravigliato. – Non fate il somaro, Prendick!

Un minuto ancora, io pensai, e egli mi avrebbe chiuso in gabbia come un coniglio oggetto di una esperienza clinica. Anche lui dovette uscire perché lo intesi chiamare: Prendick. Prese a inseguirmi, urlando non so cosa mentre correva.

Nella mia corsa cieca, mi diressi verso nord-est, in una direzione perpendicolare a quella della mia spedizione precedente. Mentre correvo sulla spiaggia, mi voltai a guardare e scorsi con Montgomery il suo assistente. Abbordai come un folle un pendio, lo oltrepassai, e deviai verso oriente lungo una valle rocciosa, fiancheggiata d’ambo i lati dalla jungla. Corsi per quasi un miglio senza fermarmi, col petto anelante, col cuore che mi pulsava. Poi, non udendo più nulla né di Montgomery né del suo servo, e sentendomi al colmo dell’esaurimento, tornai indietro a angolo acuto volgendo i passi verso la spiaggia e mi distesi sotto un gruppo di canne.

Vi rimasi per lunghissimo tempo, troppo spaventato per muovermi e assolutamente impotente a tracciare un piano d’azione.

Il paesaggio selvaggio che m’attorniava dormiva silenzioso sotto il sole e il solo rumore che si faceva sentire era il ronzio di alcune zanzare risvegliate dalla mia presenza. Un altro rumore lento e regolare richiamò la mia attenzione, un rumore simile al respiro di chi sonnecchia… era il frangersi lento dell’onda del mare sulla spiaggia.

Dopo circa un’ora da che giacevo in quel luogo intesi lontano da me la voce di Montgomery che mi chiamava. Secondo quello che credevo allora l’isola era abitata soltanto dai due vivisezionatori e dalle loro vittime. Non v’era quindi dubbio che all’occorrenza essi avrebbero potuto spingere qualcuna di esse contro di me. Sapevo che tanto Moreau quanto Montgomery avevano la rivoltella, mentre io a tanta forza non potevo opporre che una debole assicella gli legno munita di un piccolo chiodo. Ero dunque inerme.

Rimasi quieto dov’ero finché non cominciai a pensare alla necessità di nutrirmi. La mia situazione mi apparve veramente disperata. Sapevo troppo poco di botanica per poter trovare qualche risorsa fra le radici o le frutta che mi contornavano: non avevo mezzi a disposizione per tendere insidie ai pochi conigli che erravano per l’isola. Più la esaminavo e più la mia situazione mi pareva imbrogliata. Finalmente per la disperazione il mio pensiero si posò sugli uomini bestie che avevo incontrato. Cercai di trovare qualche speranza in quel che mi rammentavo di loro e volta a volta richiamai alla mente tutti quelli che avevo visto e cercai trarre da essi qualche buon auspicio di aiuto.

Un improvviso latrato di mastino mi fece pensare a un nuovo pericolo. Non mi indugiai oltre e, dando di piglio al mio bastone chiodato, mi precipitai all’impazzata dal mio nascondiglio verso il mare. Attraversai una vegetazione di piante spinose con aculei che pungevano come temperini e ne uscii sanguinante con gli abiti a brandelli per sboccare sull’orlo di un’insenatura che si stendeva verso nord. Mossi diritto verso le onde senza esitare, guadando la baia, trovandomi presto con l’acqua fino al ginocchio in una piccola corrente. Uscii sulla riva occidentale e, col cuore che mi pulsava forte, strisciai entro un groviglio di felci attendendo il seguito dell’avventura. Udii il cane – era uno solo – avvicinarsi e abbaiare quando giunse fra i cespugli spinosi. Poi più nulla. Cominciai a credere di essere salvo.

Passarono dieci minuti, il silenzio si protraeva. Dopo un’ora di tranquillità cominciò a tornarmi il coraggio.

Non ero più né molto spaventato né molto avvilito, avevo già oltrepassato, per così dire, il limite del terrore e della disperazione. Sentivo ora che la mia vita era praticamente perduta, e quella persuasione mi rendeva capace di osare qualsiasi cosa. Avevo persino un certo desiderio di incontrarmi faccia a faccia con Moreau. E, mentre stavo guadando la baja, mi ricordo di aver pensato che se fossi stato stretto troppo da presso mi rimaneva almeno sempre aperta una via di scampo, non avrebbero certo potuto impedirmi di annegarmi. Ebbi quasi l’idea di farlo, ma uno strano desiderio di vedere l’esito di quell’avventura, un bizzarro interessamento di spettatore estraneo che avevo in me, mi trattennero. Distesi le membra doloranti per le punture delle piante spinose e fissai lo sguardo verso gli alberi. Improvvisamente i miei occhi si posarono su una faccia nera, scimmiesca, che stava guardandomi.

Vidi che si trattava della creatura scimmiesca che era venuta incontro alla lancia sulla spiaggia. Si teneva aggrappata al fusto inclinato di una palma. L’uomo bestia cominciò a balbettare. Impugnai il bastone e mi alzai.

— Voi, voi, voi, – fu tutto quel che potei distinguere a tutta prima. D’un tratto si lasciò cadere dall’albero, scostò le fronde e mi guardò con occhi curiosi.

Non provai verso questa creatura la medesima ripugnanza che avevo sentito nei miei incontri cogli altri Uomini Bestie. – Voi – disse – sul battello.

Era un uomo, allora, almeno tanto quanto l’assistente di Montgomery, perché sapeva parlare.

— Sì, – dissi – son venuto sul battello. Dalla nave.

— Oh! – rispose – e i suoi occhi irrequieti mi squadrarono da cima a fondo, dalle mani al bastone che avevo, ai piedi, alle parti lacere del mio vestito, ai tagli e alle graffiature che mi avevano procurato le spine. Parve che qualcosa lo rendesse perplesso. I suoi occhi ritornarono a posarsi sulle mie mani. Protese la sua e ne contò lentamente le dita.

— Uno, due, tre, quattro, cinque, eh?

Non afferrai quel ch’egli volesse dire. Più tardi mi accorsi che una gran parte di quegli Uomini Bestie aveva mani mal fatte e talvolta mancanti persino di tre dita. Ma credendo di indovinare che questo era una specie di saluto, ripetei la medesima cosa in segno di risposta. Fece una smorfia di somma soddisfazione. Poi lasciò di nuovo errare attorno il suo veloce sguardo irrequieto, e con una mossa rapida scomparve. Le fronde delle felci fra le quali si era soffermato si congiunsero.

Mi spinsi entro il cespuglio per seguirlo e fui sorpreso di trovarlo che si dondolava allegramente attaccato a uno dei filamenti delle grosse liane che scendevano a fasci. Mi voltava il dorso.

— Ebbene? – chiesi.

Saltò a terra girando su se stesso e stette ritto di fronte a me.

— Ditemi, – domandai – dove posso trovare qualcosa da mangiare?

— Mangiare! – disse – mangiare ora il cibo dell’uomo. Alle capanne.

— Ma dove sono le capanne?

— Oh!

— Sono nuovo, lo sapete. – A queste mie parole egli si voltò ratto e partì a passo veloce. Tutti i suoi movimenti erano curiosamente affrettati.

— Venire con me, – egli disse.

Andai con lui per vedere come sarebbe finita l’avventura. Io credetti che le capanne fossero delle tende rozze, dove egli e altri Uomini Bestie vivevano. Forse potevo farmeli amici. Non sapevo ancora quanto avessero dimenticato l’origine umana che attribuivo loro.

Il mio compagno mi camminava al fianco colle mani penzoloni e la mascella inferiore protesa in avanti. Ero curioso di sapere fino a che punto la memoria lo serviva.

— Quanto tempo è che siete in quest’isola? – dissi.

— Quanto tempo? – egli domandò. E, dopo che gli ebbi ripetuto la domanda, egli sollevò tre dita. Quella creatura valeva dunque qualcosa di più di un idiota. Cercai di avere spiegazioni su quel ch’egli intendesse dirmi con ciò e mi parve che ne fosse seccato. Dopo una o due altre domande, si staccò improvvisamente dal mio fianco e saltò verso alcuni frutti che pendevano da un albero. Colse una manata di grosse noci spinose e si mise a mangiarne il contenuto. L’osservai con soddisfazione perché cominciavo a trovare indicazioni per il mio sostentamento. Lo tentai con alcune altre domande, ma le sue pronte e loquaci risposte erano molto spesso addirittura agli antipodi di quel che avevo domandato. Alcune erano logiche, altre assolutamente pappagallesche.

Ero così attento a questi particolari che non badavo affatto al sentiero che percorrevamo. Dopo breve tempo, giungemmo a un gruppo d’alberi, scorticati e bruni; poi in un luogo scoperto, formato da detriti di incrostazione gialliccia e percorso da nuvole di fumo, che irritavano occhi e narici. Alla nostra destra, al di sopra di una rupe nuda, vidi lo specchio turchino del mare. Il sentiero serpeggiava al basso, perdendosi in un profondo burrone fra due masse nodose di scorie. Ci ficcammo entro di esso.

Il sentiero era buio pesto dopo la luce abbagliante del sole riflessa dal suolo solforoso. Le pareti si facevano ripide e in alto si avvicinavano sempre più l’una all’altra.

Bagliori rossi e verdi danzavano davanti ai miei occhi. La mia guida si fermò di scatto.

— A casa – disse. Mi trovai sul fondo di una gola che sulle prime mi parve immersa nella più completa oscurità. Intesi rumori strani e notai un odore sgradevole pari a quello di una gabbia da scimmie mal tenuta.

XII.
I Banditori della legge.

Qualcosa di freddo mi toccò la mano. Diedi in un forte sussulto e scorsi accanto a me una cosa di un rossiccio fosco, che aveva l’apparenza di un fanciullo scorticato. Quella creatura aveva precisamente i lineamenti mansueti ma ripugnanti di un bradipo, la medesima fronte bassa, gli stessi gesti lenti. Dopo l’acciecamento prodotto dal brusco passaggio dalla luce alle tenebre potei scorgere con maggior chiarezza l’ambiente dov’ero. La piccola e rossa creatura tardigrada era lì ritta e mi guardava. La mia guida si era dileguata.

Il luogo era uno stretto corridoio fra alte pareti di lava, un crepaccio in quella colata grumosa. Da ambo le parti masse intricate di stoppie marine, ventagli di palme e canneti poggiati contro le roccie, formavano selvaggie spelonche di una oscurità impenetrabile. Il sentiero che serpeggiava in sù per il burrone aveva appena tre metri di larghezza e era ostruito da ammassi di frutta marce e da altri rifiuti, che spiegavano l’odore sgradevole del luogo.

La piccola e rossa creatura tardigrada era ancora intenta a guardarmi, quando ricomparve il mio Uomo Scimmia sull’apertura della più vicina delle spelonche e mi fece segno di entrare. Un mostro dagli occhi torti uscì fuori dimenandosi da uno degli antri e si arrestò a guardarmi. Io esitai: ebbi per metà l’idea di scappare rifacendo il cammino percorso, ma poi, deciso di seguire fino a fondo l’avventura, strisciai nella caverna seguendo la mia guida.

Mi trovai in uno spazio semicircolare, foggiato a guisa di alveare. Contro la parete rocciosa che ne formava il lato interno vi era un cumulo di frutti diversi. Qualche piatto grossolano di lava e di legno era sparso sul pavimento. Non vi era fuoco.

Nel cantuccio più scuro della capanna una massa informe grugnì.

Il mio uomo scimmia si fermò nella luce dell’ingresso e mi porse un pezzo di noce di cocco. Lo presi e cominciai a rosicchiarlo con la maggior calma possibile malgrado la mia estrema eccitazione e l’odore quasi insopportabile della caverna. La piccola e rossa creatura tardigrada stava ritta sull’ingresso e un altro bipede con una faccia dura e occhi brillanti venne a dare un’occhiata al di sopra delle sue spalle.

— Ehi, – brontolò la massa misteriosa che mi stava di fronte.

— È un uomo! È un uomo! – biascicò la mia guida – un uomo, un uomo, un uomo vivo, come me.

— Basta! – disse la voce dall’oscurità, ed emise un grugnito.

Io rosicchiavo la mia noce di cocco fra un silenzio impressionante. Spiavo per quanto potevo entro le tenebre, ma nulla mi era dato distinguere.

— È un uomo, – ripeté la voce – viene a vivere con noi? – La voce era grossa con una specie di intonazione sibilante, che mi colpì in particolar modo, ma l’accento inglese era stranamente buono.

L’uomo scimmia mi guardò come se aspettasse qualcosa. Capii che quella pausa era interrogativa.

— Egli viene a vivere con voi, – dissi.

— È un uomo. Deve imparare la Legge.

Cominciai a distinguere il contorno vago di una figura coi gomiti all’infuori e la testa sprofondata fra le spalle. Poi notai che l’ingresso era oscurato da altre teste. La mia mano si strinse sul bastone. La cosa nel buio ripeté in tono più alto:

— Dite le parole.

Non avevo badato alle sue ultime esclamazioni.

— Non camminare sui quattro arti; questa è la Legge, – egli ripeté in una specie di ritornello.

Ero confuso.

— Dite le parole – insisté l’Uomo Scimmia, e le figure sull’ingresso fecero eco con un tono di minaccia nelle loro voci. Mi accorsi che dovevo ripetere questa formula idiota, e allora prese a svolgersi una cerimonia delle più inaudite. La voce nel buio, cominciò a intonare una litania pazzesca, e io e gli altri a ripeterla. Sillabando le parole oscillavano il loro corpo dall’uno all’altro lato, si battevano le mani sulle ginocchia e io seguivo il loro esempio. Avrei potuto figurarmi di essere già morto e in un altro mondo. La capanna buia, quella grottesca figura cupa, appena macchiettata qua e là da un bagliore di luce, e tutte le altre che dondolavano in cadenza cantando:

— Non camminare sui quattro arti; questa è la Legge. Non siamo dunque uomini?

— Non aspirate le bevande; questa è la Legge. Non siamo dunque uomini?

— Non mangiare né carne né pesce; questa è la Legge. Non siamo dunque uomini?

— Non graffiare la corteccia degli alberi; questa è la Legge. Non siamo dunque uomini?

— Non dar la caccia ad altri Uomini; questa è la Legge. Non siamo dunque uomini?

E così dal divieto di questi atti di follia, sino al divieto di ciò che io allora credevo fossero le più pazze le più impossibili, le più indecenti cose che si potessero immaginare. Una specie di fervore ritmico ci invadeva tutti; andavamo innanzi biascicando e dondolandoci sempre con maggior velocità, ripetendo questa legge sorprendente. Superficialmente ero dominato dal contagio di questi uomini bruti, ma nel profondo del mio essere il riso e il disgusto lottavano assieme. Enumerammo un lungo elenco di divieti, indi il canto passò a una nuova formula:

— A Lui la Casa del Dolore.

— A Lui la Mano che crea.

— A Lui la Mano che ferisce.

— A Lui la Mano che guarisce.

E così via per un’altra lunghissima serie e la maggior parte in un gergo assolutamente incomprensibile per me, fu consacrata a Lui, chiunque fosse. Avrei potuto immaginarmi di sognare, ma mai in sogno avevo udito cantare.

— A Lui il lampo della folgore, – noi cantavamo.

— A Lui il profondo mare.

Un orribile idea mi balenò nella mente. Credetti che Moreau dopo avere animalizzato quegli uomini avesse iniettato nei loro cervelli con una specie di deificazione se medesimo. Tuttavia, sapevo troppo bene quanti denti bianchi e mascelle vigorose mi stavano d’attorno per interrompere il mio canto.

— A Lui le stelle del cielo.

Finalmente quel canto ebbe termine. Vidi la faccia dell’Uomo Scimmia imperlata di sudore e avendo ora gli occhi abituati all’oscurità scorsi più distintamente la figura nell’angolo dove veniva la voce. Aveva la forma di un uomo ma pareva coperta di pelo grigio. Che cosa era? Che cos’erano tutti gli altri? Figuratevi di essere circondato da tutti i più orribili storpi e dementi che sia possibile immaginare e potrete comprendere un po’ dei sentimenti che sorsero in me a trovarmi fra quelle grottesche caricature di umanità.

— È un uomo con cinque, con cinque, un uomo con cinque… come, – disse l’uomo scimmia.

Io tesi innanzi le mani. La creatura grigia nell’angolo si chinò in avanti. – Non camminare sui quattro arti: questa è la Legge. Non siamo dunque uomini? – Avrei voluto gridare di sorpresa e di dolore. Un mostro si fece innanzi e prese le mie mani. Osservai con disgusto che non aveva la faccia né di uomo né di bestia ma solo una massa di pelo grigio solcata da tre arcate nerastre che segnavano gli occhi e la bocca.

— Ha le unghie corte – disse quell’orribile creatura fra le labbra pelose. – È bene.

Mi lasciò andare la mano e io istintivamente strinsi il bastone.

— Mangiare radici ed erba, questa è la Sua volontà – cantò l’Uomo Scimmia.

— Io sono il Banditore della Legge – disse la figura grigia, – qui vengono tutti i nuovi per imparare la Legge. Siedo nell’oscurità e bandisco la Legge.

— È così – disse uno di quegli esseri sull’uscio.

— Terribili sono le punizioni per coloro che violano la Legge. Non c’è scampo.

— Non c’è scampo – ripeterono gli uomini bestie guardandosi furtivamente l’un l’altro.

— Non c’è scampo – disse l’uomo scimmia – non c’è scampo. Guardate! Una volta feci una piccola cosa, una cosa proibita. Borbottai, borbottai e non potei più parlare. Nessuno poteva comprendere. Sono bruciato, bollato a fuoco nella mano. Egli è grande. Egli è buono!

— Non c’è scampo – disse la creatura grigia nell’angolo.

— Ognuno ha un bisogno proibito – disse il grigio Banditore della Legge. – Non sappiamo quali sono i vostri desideri, ma lo sapremo. Alcuni desiderano rincorrere le cose, altri mordere, mordere profondamente, abbondantemente, succhiando il sangue…. Questo è male. Non inseguire gli uomini: questa e la Legge. Non siamo dunque uomini? Non mangiare né carne né pesce: quest’è la Legge. Non siamo dunque uomini?

— Non c’è scampo – disse l’animale screziato che stava sull’uscio.

— Alcuni desiderano strappare coi denti e colle mani le radici delle piante e avvoltolarsi nella terra… Questo è male.

— Non c’è scampo – disse l’uomo sull’uscio.

— Alcuni vanno graffiando gli alberi, altri vanno raspando sulle tombe dei morti: alcuni vanno combattendo colle fronti, coi piedi o con gli artigli, alcuni mordono d’improvviso, senza alcun motivo; alcuni amano il sudiciume.

— Non c’è scampo – disse l’Uomo Scimmia grattandosi i polpacci.

— Non c’è scampo – disse la piccola creatura tardigrada.

— La punizione è severa e sicura. Dunque imparate la Legge. Dite le parole – e ricominciò quella strana litania della Legge e di nuovo io e tutte quelle creature a cantare e a dondolarci.

Il capo mi girava per quel borbottìo e quel tanfo di chiuso diffuso nel luogo, ma resistetti, nella fiducia che quella faccenda pigliasse fra breve una nuova piega. – Non camminare sui quattro arti; questa è la Legge. Non siamo dunque uomini?

Facevamo un tal baccano che io non m’accorsi affatto d’un tumulto che avveniva di fuori, finché qualcuno (credo fosse uno dei due Uomini Porci che avevo veduto) ficcò la testa al di sopra della piccola creatura rossiccia tardigrada e con voce concitata gridò qualcosa, qualcosa ch’io non compresi. All’improvviso coloro che stavano sull’ingresso della capanna si dileguarono, il mio Uomo Scimmia si precipitò fuori, la cosa che sedeva nel buio lo seguì. Io notai solamente che era grosso, tozzo e ricoperto di pelo argenteo. Rimasi solo.

Prima che raggiungessi l’uscita udii il latrato di un mastino. Un momento dopo ero fuori della capanna, col piuolo della poltrona in pugno con ogni muscolo teso: dinanzi a me avevo i dorsi tozzi di una ventina circa di quegli Uomini Bestie, colle loro teste deformi seminascoste dalle scapole. Stavano gesticolando con grande eccitazione. Altri volti semibestiali guardavano fuori dalle capanne con aria interrogativa. Seguendo il loro sguardo vidi di tra la foschia sotto gli alberi oltre l’estremità del viottolo delle caverne la figura nera e il terribile volto bianco di Moreau. Dietro di lui veniva Montgomery colla rivoltella in pugno.

Per un istante rimasi fulminato dal terrore.

Mi voltai e mi vidi bloccata la strada alle mie spalle da un altro corpulento animale con una enorme faccia grigia, e due occhietti risplendenti, che si avanzava su di me. Mi guardai intorno e alla mia destra, poco distante vidi un’apertura nella parete rocciosa da dove veniva un raggio di luce.

— Ferma! – gridò Moreau. – Pigliatelo.

A queste parole, prima una faccia si voltò verso di me e poi altre. Per fortuna le loro menti bestiali erano tarde a capire.

Diedi una spallata a un mostro tozzo che si voltava per vedere quel che voleva dire Moreau e lo lanciai addosso a un altro. Sentii le sue mani sfiorarmi in un tentativo di ghermirmi. La piccola creatura tardigrada si precipitò su di me ma io la colpii sfregiandole quella sua brutta faccia col chiodo del mio bastone, e un istante dopo mi arrampicavo su per un ripido sentiero laterale, una specie di camino inclinato che usciva dal burrone. Udii un urlo e grida di – Agguantatelo! Pigliatelo! – La creatura dalla faccia grigia mi comparì alle spalle spingendo la sua massa enorme entro la fessura. – Avanti, avanti! – urlava. Mi arrampicai su per quell’angusta spaccatura della roccia e uscii fuori sul terreno sulfureo a ponente del villaggio degli Uomini Bestie.

Quell’apertura era stata una vera fortuna per me, perché l’angusta strada che si spingeva obliquamente verso l’alto doveva essere un ostacolo per gli inseguitori più vicini. Mi misi a correre sul terreno bianco e poi giù per un ripido declivio traverso una rada vegetazione di alberi. Arrivai così a una distesa di canne giganti. Traversata questa mi cacciai entro una spessa e fitta boscaglia dal suolo molle e nerastro. Nel momento in cui io entravo nel canneto i miei inseguitori più prossimi uscivano dall’apertura. Per alcuni minuti mi aprii la strada traverso quel fitto di cespugli. L’aria dietro e d’intorno a me si riempì ben presto di grida minacciose. Udii il fracasso dei miei inseguitori dentro la fessura e su per il pendio, poi il crepitar delle canne e di tratto in tratto il rumore di un ramo rotto. Alcuni mostri ruggivano come animali da preda infuriati. Il mastino latrava alla mia sinistra. Nella stessa direzione udii le grida di Moreau e di Montgomery. Piegai di scatto verso la destra. Mi sembrò di udire Montgomery gridarmi di correre se volevo salvarmi.

Il terreno, grasso e melmoso, cominciò a cedere sotto i miei piedi; ma continuai la corsa all’impazzata, lo traversai affondando nella melma fino ai ginocchi e arrivai a un sentiero che si snodava fra alti canneti. Il rumore dei miei inseguitori si spense alla mia sinistra. Tre strani animali rossicci saltellanti, a un dipresso delle dimensioni di un gatto, fuggivano davanti a me. Il sentiero correva su per la collina, traversando un altro spazio scoperto rivestito di una crosta bianca, e si insinuava di nuovo in un folto di canne, poi bruscamente si volgeva parallelo al limite di una spaccatura dalle pareti a picco. Arrivai correndo con quanta forza avevo, e non mi accorsi di quel precipizio finché non mi trovai proiettato a capofitto nell’aria.

Caddi sulle mani e sulla testa, fra le spine, e mi sollevai con un orecchio lacerato e il volto sanguinante. Il crepaccio nel quale mi trovavo era irto di roccie e di spine e pieno di vapore fosco proveniente da un sottile filo d’acqua che serpeggiava in fondo.

Questa nebbia fine nel pieno splendore della luce del giorno mi fece meraviglia, ma in quel momento non avevo tempo di soddisfare la mia curiosità. Seguii il fiumicello nella speranza di giungere al mare e avere la possibilità di annegarmi. Solo più tardi mi accorsi che nella caduta avevo perduto il mio bastone chiodato.

Il burrone si fece a un tratto più stretto e io entrai arditamente in acqua. Ma ne balzai fuori subito: quell’acqua era bollente. Notai pure che alla sua superficie galleggiava una sottile schiuma sulfurea. a una svolta scorsi distintamente l’orizzonte turchino. Il mare era vicino e nelle sue acque si rifletteva in mille sfaccettature il sole.

Dinanzi a me vidi la morte. Ero madido di sudore e anelante. Il sangue caldo m’affluiva sul volto e mi scorreva piacevolmente nelle vene. La gioia di aver distanziato i miei inseguitori mi esaltava. E fu forse questa gioia e questa esaltazione che mi trattennero dall’annegarmi subito. Volsi gli occhi indietro osservando il cammino percorso.

Tesi l’orecchio. Tranne il ronzio di zanzare e il pigolio di alcuni piccoli uccelli che saltellavano fra le spine, l’aria era assolutamente tranquilla. Poi s’udì il latrato debolissimo di un cane, indi un chiaccherìo e un borbottìo, uno schioccar di fruste e delle voci. Si fecero più alte, poi infiochirono di nuovo. Il rumore si allontanò su per il fiumicello e si dileguò. La caccia era per il momento sospesa. Ma ora sapevo quanta speranza di aiuto potessi riporre nel Popolo delle Bestie.

 

La nostra copertina è tratta da un articolo di Radio Spada.

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nacque a Bromley il 21 settembre 1866, morto a Londra, 13 agosto 1946, è stato uno scrittore britannico tra i più popolari della sua epoca. Autore di alcune delle opere fondamentali della fantascienza, è ricordato come uno degli iniziatori di tale genere narrativo, grazie alle sue opere, Wells è stato definito come un "padre della fantascienza", insieme a Jules Verne e Hugo Gernsback.