Seconda puntata de “L’Isola del Dottor Moreau” ben noto capolavoro di Herber George Wells, di cui abbiamo già presentato la Prima Parte. Il servizio è tratto da Liber Liber. che seleziona i romanzi, i libri e i racconti che non hanno più Copyright e li mette a disposizione dei lettori. Questo romanzo è stato pubblicato a Londra nel 1896 e la traduzione italiana è di Arturo Bagnoli. – Milano : Corticelli, [1926]. La storia rappresenta un classico imitato da moltissimi altri Autori e soprattutto continuamente riprodotto in grandi film.

 

V.
L’uomo senza meta.

La mattina per tempissimo, la seconda dopo la mia guarigione e credo la quarta dal salvataggio, mi svegliai dopo una ridda di sogni selvaggi, sogni di cannoni e di folle ululanti e sentii un vociare fioco sopra di me. Mi fregai gli occhi, stetti in ascolto domandandomi dove mi trovassi. Udii un improvviso scalpiccio di piedi nudi, il rumore di pesanti oggetti trascinati, un violento stridere e cigolare di catene. La nave virò ad un tratto di bordo e un’ondata verde gialla orlata di schiuma s’abbatté sulla finestruccia tonda e la lasciò gocciolante. Mi vestii in fretta e salii sul ponte.

Mentre percorrevo la scaletta vidi contro il cielo rosseggiante (il sole stava appunto levandosi) la schiena larga e i capelli rossi del capitano e al di sopra delle sue spalle la gabbia del puma che dondolava legata alla gomena della vela di mezzana.

La povera bestia pareva tutta terrorizzata e stava rannicchiata sul fondo.

— Fuori di qui quelle bestie! – strillava il capitano. – Fuori di qui tutte. Faremo presto pulizia completa qui di tutto il branco.

Egli mi sbarrava il passo, cosicchè dovetti per forza battergli sulle spalle per uscire sul ponte. Girò su sè stesso con un balzo e fece barcollando alcuni passi indietro per squadrarmi. Non occorreva occhio esperto per dire che l’individuo era ancora ebbro. – Ohè! – disse stupidamente e poi con una luce subita negli occhi, – ma, è il signor… il signor?

— Prendick, – dissi.

— Prendick siate maledetto! – esclamò. – Basta, questo è il vostro nome. Signor Basta.

Non valeva la pena di rispondere a quel bruto. Ma io certamente non potevo prevedere il tiro che stava preparando. Protese la mano verso la passerella di sbarco presso la quale stava Montgomery, confabulò con un uomo dai capelli bianchi, salito evidentemente allora allora, poi rivolgendosi a me ed indicandomi la passerella gridò:

— Quella è la strada, fetente signor Basta, quella.

Montgomery ed il suo compagno si voltarono mentre egli gridava.

— Che volete dire – chiesi.

— Quella è la strada, fetente signor Basta, ecco quello che voglio dire. Fuori dalla nave signor Basta e presto. Faremo pulizia in tutto e presto su tutta questa benedetta nave. E voi andrete fuori della nave.

Lo fissai confuso. Quindi mi traversò la mente il pensiero che quello era proprio quanto desideravo.

La prospettiva di un viaggio con codesto beone attaccabrighe non era tale da potersi rimpiangere qualora si fosse dileguata.

Mi volsi verso Montgomery.

— Non possiamo pigliarvi, – disse concisamente il compagno di Montgomery.

— Non potete pigliarmi! – diss’io sgomento… Il nuovo venuto aveva il volto più autoritario e risoluto che avessi mai visto.

— Guardate, – cominciai, voltandomi verso il capitano.

— Fuori della nave, – confermò il capitano. – Questa nave non è fatta per bestie e cannibali. Fuori della nave andrete… Signor Basta. Se loro non possono pigliarvi, andrete alla ventura. Ma ad ogni modo voi scenderete coi vostri amici. Non voglio mai più aver a che fare con questa maledetta isola! Ne, ho avuto abbastanza.

— Ma, Montgomery! – implorai.

Egli torse il suo labbro inferiore e con un cenno del capo in segno di disperazione mi indicò l’uomo dai capelli bianchi che gli stava accanto, per dimostrarmi la sua impotenza ad assistermi.

— Fra poco vi aggiusterò io, – disse il capitano.

Allora cominciò un curioso alterco a tre voci. Alternativamente mi rivolgevo all’uno e all’altro dei tre uomini, prima all’uomo dai capelli bianchi perché mi lasciasse sbarcare, poi al capitano ubbriaco perché mi tenesse a bordo. Mi rivolsi pure con alte implorazioni ai marinai. Montgomery non profferì mai una parola; si limitava a scuotere la testa.

— Voi andrete fuori della nave, ve lo dico io – era il ritornello del capitano… – Al diavolo la legge. Qui il re sono io.

Alla fine, devo confessarlo, la mia voce eruppe in una risoluta minaccia. Mi sentii percorrere da una ondata di infrenabile furore e mi trassi indietro fissando gli occhi ferocemente nel vuoto.

Frattanto i marinai scaricavano rapidamente i colli e gli animali ingabbiati. Una grossa lancia con due vele issate si cullava a sottovento della goletta e quello strano assortimento di mercanzie le veniva lanciato dentro. In quel momento non vidi gli uomini dell’isola che ricevevano quei colli, perché il ponte dell’imbarcazione era nascosto alla mia vista dal fianco della goletta.

Né Montgomery né il suo compagno si davano alcun pensiero di me, ma si affaccendavano nell’aiutare e dirigere i quattro o cinque marinai che scaricavano le mercanzie. Il capitano si fece innanzi riuscendo più d’inciampo che d’aiuto. Io ero contemporaneamente abbattuto e furibondo. Per una volta o due, mentre stavo là aspettando passivamente lo svolgersi degli eventi, non potei trattenere un impeto di riso per la mia lacrimevole situazione. Sentii tutto il disagio di trovarmi a stomaco vuoto. La fame e la mancanza di globuli rossi tolgono all’uomo ogni virilità. Capivo che non avrei avuto l’energia di resistere a quel qualsiasi mezzo che il capitano avesse scelto per espellermi o di impormi a Montgomery e al suo compagno. Attesi passivamente il mio destino mentre il lavoro di scarico delle mercanzie proseguiva senza che me ne dessi conto.

Quel lavoro volse in breve a fine ed allora fui trascinato non opponendomi che assai debolmente, verso la scaletta. Notai la stranezza della faccia bronzea degli uomini che erano con Montgomery nella lancia. Questa ora era sovraccarica e fu allontanata dalla nave in fretta. Un largo gorgo di acqua verde apparve sotto di me e io rinculai con tutta la mia forza per evitare di cadere a capofitto.

Gli uomini della lancia emettevano urla di scherno ed udii Montgomery maledirmi. Il capitano, il secondo e uno dei marinai che li aiutava, mi trassero di corsa verso poppa. Il canotto della Lady Vain era stato tratto a rimorchio dietro la nave; era per metà pieno d’acqua, senza remi, e addirittura privo di qualsiasi provvigione. Ricusai di entrarvi, e mi buttai lungo disteso sul ponte. Alla fine, riuscirono a calarmi per forza nella barchetta.

Recisero la gomena e mi abbandonarono alla ventura.

Mi allontanai lentamente dalla goletta. Con una specie di torpore scorsi tutti gli uomini dell’equipaggio accingersi tranquillamente alla manovra e piano piano la nave girò per pigliar vento. Le vele palpitarono, poi si gonfiarono. Fissai con occhi smarriti il fianco della nave battuto dalle onde che si inclinava e sollevava verso di me per scomparire poco dopo dalla mia visuale.

Non volsi neppure il capo per seguirla: stentavo a credere a quello ch’era accaduto. Mi accoccolai sul fondo del canotto, intontito, fissando con occhi confusi il vuoto mare oleoso.

Guardando indietro al di sopra della sponda del mio schifo vidi la goletta lontana da me, col capitano dai capelli rossi che mi scherniva dall’alto del castello di poppa; e, volgendomi verso l’isola, vidi la lancia farsi sempre più piccola man mano si accostava alla riva.

Bruscamente la crudeltà di questo abbandono si fece chiara nella mia mente. Non avevo mezzi per raggiungere la terra salvo che il caso non mi ci avesse portato.

Ero ancora debole per il pericolo corso nel battello, a stomaco vuoto ed estenuato. Comunque fosse, io cominciai improvvisamente a gemere ed a piangere come non avevo mai fatto quand’ero bimbo. Le lagrime mi rigavano il volto. In un impeto di disperazione presi a menar pugni sull’acqua raccolta nel fondo del battello e a sferrar calci furiosi al parapetto. Pregai Iddio ad alta voce perché mi facesse morire.

VI.
I marinai dall’aspetto sinistro.

Ma gli isolani, vedendo che io ero realmente in balia delle onde, ebbero compassione di me. La scialuppa andava lentamente verso oriente accostandosi obliquamente all’isola. Ad un tratto con profondo sollievo notai che la lancia virava di bordo e tornava verso di me. Mentre si avvicinava potei distinguere il compagno di Montgomery dalle larghe spalle e dai capelli bianchi seduto a poppa stretto fra i cani ed alcune casse da imballaggio. Mi guardava fisso senza muoversi e senza parlare. Pure lo storpio dalla faccia nera mi fissava con occhi lucenti. V’erano sulla lancia altri tre tipi dall’aspetto belluino contro i quali i mastini ringhiavano selvaggiamente. Montgomery, che era al timone, guidò il battello fino alla scialuppa e levandosi in piedi gettò una gomena che assicurò alla poppa per rimorchiarmi, perché a bordo con lui non v’era più posto.

Intanto io ero uscito dalla mia crisi di abbattimento e quando fui vicino risposi al saluto di Montgomery con bastevole energia. Gli mostrai come il canotto fosse quasi sommerso ed egli mi porse un secchio. Per un po’ di tempo mi occupai di vuotare in mare parte dell’acqua che aveva invaso il canotto.

Solo dopo che ebbi finito il mio lavoro ebbi agio di esaminare di nuovo le persone che stavano nella lancia.

M’accorsi che l’uomo dai capelli bianchi mi guardava ancora con insistenza e insieme con qualche perplessità.

Allorché i miei occhi incontrarono i suoi, egli abbassò lo sguardo sul mastino che gli stava fra le ginocchia. Come ho già detto, era un individuo di vigorosa struttura, con una bella fronte e lineamenti piuttosto tristi; ma i suoi occhi avevano sulle ciglia quello strano afflosciamento della pelle che spesso si manifesta col volger degli anni. Gli angoli cadenti della sua bocca poi, mi offrivano l’espressione di una pugnace risolutezza. Egli parlava con Montgomery in un tono troppo basso perché potessi udirlo. Da lui i miei occhi si spostarono sui tre uomini, che formavano un ben strano equipaggio. Non vidi che i loro volti, pure in essi vi era qualcosa – non sapevo che fosse – che mi procurava uno strano senso di disgusto. Continuai a guardarli, ma quell’impressione non si dileguò, benché non comprendessi qual ne fosse la cagione. Le loro membra erano bizzarramente avvolte in una specie di stoffa bianca, sottile e sudicia, giù giù fino alle dita dei piedi. Non ho mai veduto prima d’allora uomini tanto infagottati e donne così ne ho viste solo in Oriente. Essi portavano il turbante sotto il quale i loro volti spettrali dalle mascelle inferiori protese e dagli occhi brillanti spiavano verso di me. Avevano capelli neri, irti quasi come crini di cavallo, e, seduti, pareva superassero in statura qualunque razza d’uomini ch’io avessi mai veduto. L’uomo dai capelli bianchi, che io sapevo essere alto sei piedi buoni, così seduto, era più basso di una testa di ognuno dei tre. In seguito, constatai che in realtà niuno di essi era più alto di me, ma i loro corpi erano di una lunghezza enorme, ed avevano coscie corte e contorte in un modo curioso. Comunque fosse, essi formavano un gruppo di rara bruttezza. Sopra il loro capo, sotto la vela anteriore, spiava la faccia nera dell’uomo i cui occhi scintillavano nel buio.

Mentre stavo così guardandoli, essi incontrarono il mio sguardo ed allora prima l’uno poi un altro si sottrassero alla mia vista diretta e si diedero a sbirciarmi in modo furtivo. Ebbi il dubbio d’essere seccante e rivolsi la mia attenzione all’isola alla quale andavamo accostandoci.

Era bassa e coperta da una fitta vegetazione, formata precipuamente da una specie di palma che mi era nuova. In un punto un sottile filo bianco di fumo si elevava obliquamente ad un’enorme altezza sfaldandosi poi come lanuggine. In quel momento eravamo fra le estremità di una larga insenatura formata da una bassa punta di terra. La riva era di sabbia grigia di un color fosco e s’inoltrava a ripido pendio fino ad una cresta, a forse sessanta o settanta piedi sul livello del mare, adorna qua e là di alberi e di cespugli. A mezza costa vi era un recinto quadrato di pietre di vario colore, che in seguito constatai essere costruito in parte di corallo e in parte di lava di pomice. Due tetti coperti di stoppia spuntavano dall’interno del recinto.

Sulla riva un uomo ci aspettava. Mentre eravamo ancora molto lungi, credetti vedere un’altra creatura dall’aspetto grottesco dileguarsi fra la boscaglia, ma avvicinandoci la persi di vista. L’uomo in attesa era di corporatura media con una faccia di negro, bocca larga, quasi senza labbra, braccia straordinariamente magre, piedi lunghi e sottili, gambe arcuate. Colla sua faccia pesante protesa innanzi teneva occhi fissi su di noi. Vestiva, come Montgomery ed il suo compagno dai capelli bianchi, giubba e pantaloni di saja turchina. Al nostro avvicinarsi, prese a correre qua e là sulla riva, facendo i movimenti più grotteschi.

Su ordine di Montgomery i quattro uomini della lancia balzarono in piedi con atteggiamenti goffi e ammainarono le vele.

Montgomery pilotò abilmente la scialuppa penetrando in un angusto bacino scavato nella spiaggia.

L’uomo sulla sponda mosse in fretta verso di noi. Il bacino, come io l’ho denominato, non era in realtà che un fosso di una lunghezza appena sufficiente, a quella fase della marea, per accogliere la scialuppa.

Udii la prora dare in secco nella sabbia, staccai il canotto dal timone della scialuppa e presi terra. I tre uomini inturbantati si calarono con mosse sgraziate sulla sabbia e subito si accinsero a sbarcare il carico, aiutati dall’altro che era sulla riva. Io fui in ispecial modo colpito dalle movenze curiose delle gambe dei tre marinai avviluppati e fasciati. Non erano rigide, ma contorte in modo strano, quasi non avessero le giunture al loro giusto posto. I cani ringhiavano sempre e quando l’uomo dai capelli bianchi sbarcò con essi, tiravano le loro catene per inseguire i quattro lavoratori.

I tre individui si parlavano l’un l’altro con strani accenti gutturali e l’uomo che ci aveva attesi sulla riva interloquiva con una certa eccitazione in lingua straniera. Avevo già udito una voce simile in qualche luogo ma non potevo ricordarmi dove. L’uomo dai capelli bianchi stava imperterrito fra il baccano dei sei cani e urlava ordini superando il loro inferno. Montgomery, avendo levato il timone, prese terra e tutti si accinsero al lavoro di scarico. Io ero troppo debole, a causa del lungo digiuno, per poter offrire qualche aiuto.

Dopo un po’ l’uomo dai capelli bianchi parve rammentarsi della mia presenza e si accostò a me.

— Dal vostro aspetto, – disse – pare che non abbiate fatto colazione.

I suoi occhi formavano una brillante macchia nera sotto le folte ciglia.

— Devo farvi le mie scuse. Ora voi siete nostro ospite, e noi dobbiamo provvedere a voi quantunque, come ben sapete, non siate stato invitato.

E mi guardò arditamente in faccia.

— Montgomery m’informa che siete un uomo colto, signor Prendick, che siete versato nelle scienze.

Gli raccontai di avere frequentato per alcuni anni il Collegio Reale delle Scienze e compiuta qualche ricerca in biologia sotto Huxley. A queste parole sollevò lievemente le ciglia.

— Ciò modifica un po’ il caso, signor Prendick, – disse con la maggiore urbanità. – Siamo tutti biologi qui. Quest’è una stazione biologica speciale.

Il suo occhio si fermò sugli uomini vestiti di bianco che erano affaccendati a tirare il carico, su rulli, verso il cortile cinto di mura.

— Almeno io e Montgomery – soggiunse. Poi:

— Non posso dire quando potrete andarvene di qui. Siamo lungi dalle vie battute. Vediamo una nave una volta all’anno o press’a poco.

Mi lasciò bruscamente e risalì la sponda, oltrepassando il gruppo, e credo entrasse nel recinto. Gli altri due uomini stavano con Montgomery ammonticchiando gli involti più leggeri su un piccolo carrello a ruote. Il puma era ancora sulla lancia coi cassoni dei conigli; i mastini rimanevano legati alle traverse.

Terminato il carico tre uomini si diedero a spingere il carrello e Montgomery li lasciò dirigendosi verso di me. Mi porse la mano.

— Per parte mia, – disse, – sono lieto. Quel capitano era un solenne somaro. Vi avrebbe lasciato in una situazione molto critica.

— Siete stato voi a salvarmi nuovamente, – risposi.

— Può darsi. Troverete quest’isola un luogo diabolicamente strano, ve l’assicuro, Se fossi ne’ vostri panni, avrei occhio ad ogni mio passo. Egli…

Esitò, e parve mutare opinione su ciò che stava per dirmi.

— Vorrei che mi aiutaste con questi conigli. –

Entrai nell’acqua con lui e lo aiutai a tirare a riva uno dei cassoni. Appena fu a terra Montgomery ne aprì l’usciolo e capovolgendo la cassa ne vuotò il contenuto vivente al suolo.

Caddero in massa l’uno sull’altro. Il mio ospite batté ripetutamente le mani e le bestiole spaventate si posero in fuga lungo la riva.

— Crescete e moltiplicate, amici miei, – disse Montgomery, – riempite l’isola. Finora abbiamo avuto una certa scarsezza di carne.

Mentre li guardavo dileguarsi, l’uomo dai capelli bianchi ritornò con un fiasco di acquavite e alcuni biscotti.

— Un po’ di cibo per tirare innanzi, Prendick, – disse in tono di gran lunga più famigliare di prima.

Non feci molte chiacchiere. Presi e divorai i biscotti, mentre l’uomo dai capelli bianchi aiutava Montgomery a liberare un’altra ventina di conigli. Tre cassoni vennero inviati verso casa col puma. L’acquavite non la toccai perciò sono astemio.

VII.
La porta chiusa.

Il lettore comprenderà facilmente come ogni cosa m’apparisse strana. La mia posizione altro non era che il risultato di straordinarie avventure che io non avevo possibilità di discernere esattamente l’una dall’altra e ciò che accadeva a me d’intorno non era certo atto a tranquillarmi.

Seguii il llama su per la riva e fui raggiunto da Montgomery che mi pregò di non entrare nel recinto. Notai allora che il puma nella sua gabbia e il cumulo dei pacchi erano stato collocati fuori dell’ingresso del recinto.

Mi voltai e scorsi che la lancia era già stata scaricata, tratta fuori dall’acqua e trascinata sulla spiaggia, che l’uomo dai capelli bianchi camminava verso di noi. Egli interpellò Montgomery.

— E ora viene il problema di questo ospite non invitato. Che ne faremo di lui?

— Egli sa qualche po’ di scienza, – disse Montgomery.

— Non vedo l’ora di mettermi al lavoro con questo materiale nuovo, – disse l’uomo dai capelli bianchi, accennando verso il recinto. I suoi occhi si fecero più brillanti.

— Lo credo – soggiunse Montgomery in un tono tutt’altro che cordiale.

— Ma, e Prendick? non possiamo certo sciupare il tempo per fabbricargli una nuova capanna. E certamente non potremo metterlo immediatamente a parte dei nostri segreti accogliendolo con noi di là.

— Sono nelle vostre mani, – diss’io.

Non avevo alcuna idea di quel ch’egli volesse dire con «di là».

— Ho pensato anch’io alle stesse cose, – rispose Montgomery, – c’è la mia camera colla porta che dà sull’esterno…

— Ecco trovato – disse prontamente l’uomo più anziano guardando Montgomery; e tutti e tre ci avviammo verso il recinto. – Sono dolente di dover conservare un segreto, signor Prendick, ma rammenterete che non siete stato invitato. Il nostro piccolo stabilimento racchiude qualche segreto. Nulla di veramente terribile per un uomo sano. Ma per il momento non vi conosciamo ancora.

— Certo, – diss’io – sarei ben matto ad offendermi del vostro riserbo.

La bocca del mio ospite si torse in un debole sorriso compiaciuto. Oltrepassammo l’ingresso principale del recinto, un pesante portone di legno corazzato di ferro e chiuso a chiave, dietro il quale era stato accatastato il carico della lancia.

All’angolo vi era una piccola porticina che prima avevo notata. L’uomo dai capelli bianchi levò un mazzo di chiavi dalla tasca della sua untuosa giubba turchina, aprì la porta ed entrò. Le sue chiavi e la complicata chiusura del luogo mi impressionarono.

Io lo seguii e mi trovai in una stanzuccia arredata di mobili comuni ma non scomodi, e coll’uscio interno, leggermente socchiuso, che si apriva su un cortile lastricato. Montgomery chiuse subito l’uscio interno. Un’amaca era tesa traverso l’angolo più scuro della stanza e una finestrella priva di vetri, difesa da una sbarra di ferro, guardava verso il mare.

— Questa – mi disse l’uomo dai capelli bianchi – sarà la vostra abitazione e l’uscio interno, che per tema di spiacevoli incidenti chiuderò a chiave dalla altra parte, segnerà il vostro confine.

Attrasse la mia attenzione su una comoda poltrona posta dinnanzi alla finestra e su una fila di vecchi libri. Vi trovai opere di chirurgia ed edizioni di classici greci e latini.

Uscì dalla camera per la porta esterna quasi volesse evitare di aprire un’altra volta quella interna.

— D’ordinario noi pigliamo qui dentro i nostri pasti – mi disse Montgomery; poi, come preso da un dubbio subitaneo, seguì l’altro.

— Moreau! – l’udii chiamare senza prestare per il momento soverchia attenzione a queste sillabe.

Ma un momento dopo, mentre esaminavo i libri, mi si riaffacciarono alla memoria. Dove potevo aver udito questo nome?

Mi sedetti davanti alla finestra e cominciai a mangiare con appetito i pochi biscotti che mi erano ancora rimasti.

Moreau?

Attraverso la finestra scorsi uno di quei misteriosi uomini vestiti di bianco che trascinava una cassa di mercanzia lungo la sponda. Dopo un po’ il telaio della finestra lo nascose. Allora udii una chiave che veniva introdotta e girata nella toppa dietro di me. Dopo brevi momenti intesi attraverso la porta chiusa il ringhio dei mastini ch’erano stati trasportati su dalla riva in quel momento. Non latravano ma sbuffavano e grugnivano in modo curioso. Udivo il loro calpestio rapido e la voce di Montgomery che li acquetava.

Ero molto ma molto impressionato dal gran mistero di quei due uomini e per alcun tempo pensai alla inspiegabile famigliarità del nome di Moreau. Ma la memoria umana è tanto capricciosa che non seppi richiamare alla mente per quali rapporti quel nome mi era ben noto.

Nel procedere rapido dei pensieri questi si fissarono sulla stranezza indefinibile dell’uomo deforme e fasciato di bianco che avevo visto sulla spiaggia. Non avevo mai veduto una simile andatura né movimenti così strani. Rammentai che nessuno di questi uomini m’aveva rivolta la parola benchè in certi momenti mi guardassero in maniera furtiva e tutta speciale, dissimile assolutamente dallo sguardo dei genuini selvaggi. Avrei desiderato conoscere che lingua parlassero. Sembravano tutti singolarmente taciturni e, quando parlavano, lo facevano con voce rozza. Che avevano dunque d’insolito? Gli occhi del ripugnante servo di Montgomery mi tornavano alla mente.

Mentre pensavo a lui, entrò. Era vestito di bianco e portava un piccolo vassoio con sopra del caffè e dei legumi cotti. A mala pena seppi reprimere un fremito di ribrezzo quando mi si appressò inchinandosi umilmente e collocando il vassoio davanti a me sulla tavola.

Osservandolo rimasi stupefatto. Sotto i capelli neri setolosi scorsi il suo orecchio. Lo vidi tutt’un tratto da vicino. Quell’essere aveva orecchi appuntiti ricoperti d’una fine lanuggine bruna.

— La vostra colazione, signore – mi disse. Fissai stupito i suoi occhi senza neppur tentare di rispondergli. Egli si girò e mosse verso l’uscio volgendosi a guardarmi in modo singolare.

Lo seguii con lo sguardo finché fu uscito e mentre facevo ciò, per uno di quei lavorii cerebrali incoscienti, sorse alla mia mente la frase:

Gli orrori di Moreau.

Ah! E la mia memoria mi riportò a dieci anni prima.

La frase errò libera per un momento nella mia mente poi la rividi scritta in rosso su un opuscoletto color cuoio di bufalo che a leggerlo veniva la pelle d’oca. Rammentai distintamente tutto riguardo ad essa. Quell’opuscolo da tempo obliato risorse con vivezza sorprendente alla mia mente. In quel tempo non ero che un ragazzetto e Moreau, suppongo, aveva circa cinquant’anni: eminente e valente fisiologo, era notissimo nei circoli scientifici per la sua ineguagliabile fantasia e per la brutale immediatezza nella discussione. Era quel medesimo Moreau? Egli aveva pubblicato alcuni fatti stupefacenti in relazione alla trasfusione del sangue e, per di più, si sapeva ch’egli stava facendo importanti ricerche sugli sviluppi morbosi. Poi bruscamente la sua carriera finì e dovette abbandonare l’Inghilterra. Un giornalista aveva ottenuto l’accesso al suo laboratorio in qualità di assistente, colla ferma intenzione di fare rivelazioni sensazionali e, aiutato da un brutto accidente – dato che fosse un accidente – il suo insipido opuscolo diventò famoso. Il giorno della pubblicazione, un povero cane tutto scorticato e con varie altre mutilazioni era fuggito dalla casa di Moreau.

Si era nella stagione morta e un editore di grido, cugino del temporaneo assistente di laboratorio, fece appello alla coscienza della nazione. Non era la prima volta che la coscienza si ribellava contro certi metodi di indagine. Il dottore fu semplicemente cacciato dal paese fra la generale indignazione. Può essere ch’egli lo meritasse, ma io sono sempre d’avviso che il tepido soccorso dei suoi colleghi indagatori e il suo abbandono da parte della gran massa degli scienziati fu una cosa vergognosa. Pure alcuni dei suoi esperimenti, secondo la relazione del giornalista, erano oscenamente crudeli. Egli forse avrebbe potuto acquistare la sua pace sociale abbandonando le sue investigazioni, ma evidentemente preferì queste ultime: era scapolo, e non aveva da curare null’altro che i suoi propri interessi…

Finii per convincermi che l’uomo dai capelli bianchi era lo stesso Dott. Moreau. Tutto mi portava a questa conclusione. Compresi allora a quale scopo erano destinati il puma e gli altri animali, che ora erano stati trasportati coi bagagli entro il recinto dietro la casa: e un curioso odorino sottile sottile, l’alito di qualcosa di famigliare, un odore che fino a quel momento s’era tenuto nei più lontani recessi della mia coscienza, si fece improvvisamente innanzi mettendosi in prima linea dei miei pensieri. Era l’odore antisettico della camera operatoria. Udii il puma ringhiare attraverso la parete e uno dei cani guaire come se fosse stato ferito.

Pure, senza dubbio, in ispecial modo di fronte a un altro scienziato, nulla vi era di così orribile nella vivisezione da giustificare tanto segreto. Per uno di quei ritorni improvvisi della memoria le orecchie appuntite e gli occhi luminosi dell’assistente di Montgomery risorsero dinnanzi a me in tutta la loro più precisa chiarezza. Guardavo davanti a me il mare verde e spumoso mosso da una brezza rinfrescante, lasciando che queste ed altre visioni strane degli ultimi pochi giorni si rincorressero nella mia mente.

Che significava tutto questo? Un recinto chiuso su un’isola solitaria, un vivisezionatore famoso e questi uomini storpiati e deformi?

VIII.
Le urla del puma.

Verso l’una Montgomery interruppe la mia scorrerìa in quell’intrico di mistificazione e di sospetto. Il suo grottesco assistente lo seguiva con un vassoio contenente pane, qualche legume, ed altri commestibili, un fiasco di whisky, una caraffa d’acqua, tre bicchieri e coltelli. Guardai colla coda dell’occhio quella strana creatura e m’accorsi che mi fissava coi suoi bizzarri occhi irrequieti. Montgomery dichiarò che avrebbe fatto colazione con me e che Moreau era troppo preoccupato da un lavoro pressante.

— Moreau! – io dissi; – conosco quel nome.

— Lo conoscete, diamine! – disse. – Che asino sono stato a menzionarlo dinnanzi a voi. Avrei dovuto pensarci. Meglio così, del resto. Avrete in tal modo una spiegazione dei nostri misteri. Whisky? –

— Grazie, no, sono astemio. –

— Vorrei esserlo stato anch’io. Ma non serve più a nulla, ora il recriminare. Fu quella robaccia infernale la cagione della mia venuta qui. Quella e una notte nebbiosa. E mi credetti allora fortunato quando Moreau mi offerse di portarmi via. È strano…

— Montgomery, – dissi ad un tratto, mentre l’uscio esterno si chiudeva; – perché il vostro servo ha gli orecchi appuntiti?

— Dannazione! – proruppe sulla prima boccata di cibo. Mi fissò un istante poi ripeté: – Orecchi appuntiti? –

— Hanno piccole punte – ripetei con la maggior calma possibile, ma con un po’ d’ansia nel mio respiro; – e del pelame nero agli orli.

Egli si versò whisky e acqua con somma diligenza.

— Li ho visti mentr’egli si chinava presso di me per collocare sulla tavola quel caffè che mi avete mandato. E i suoi occhi splendono nel buio.

Montgomery si era riavuto dalla sorpresa della mia domanda.

— Io ho sempre creduto, – egli disse con intenzione, con una certa accentuazione nella sua balbuzie; – che avesse qualche cosa di particolare nelle orecchie, dal modo con cui le teneva coperte… A che cosa rassomigliavano? –

Dalla sua domanda fui persuaso che questa sua ignoranza era una finzione. Pure io non potevo dire a quell’uomo ch’io lo credevo un mentitore.

— Appuntite, – dissi – piuttosto piccole e pelose; distintamente pelose. In tutto l’assieme quest’uomo è una delle creature più strane ch’io abbia mai viste.

Un grido acuto, rauco di dolore animale, uscì dal recinto alle nostre spalle. La sua profondità e il suo volume lo rivelavano per quello del puma. Vidi Montgomery fare un sobbalzo.

— Ebbene? – egli disse.

— Dove avete preso quella creatura?

— A… San Francisco… È una brutta bestia l’ammetto. Uno scemo, vi dico. Non si rammenta donde è venuto. Ma, sapete, mi sono abituato a lui. Ci siamo abituati entrambi. In qual modo vi ha colpito?

— È fuori della natura, – io dissi, – In lui vi è qualcosa… Non crediate che io fantastichi, ma quando si appressa a me dà la sensazione di cosa abbietta, una strana tensione di muscoli. Ha un po’ del… demoniaco.

Mentre gli parlavo Montgomery aveva cessato di mangiare.

— Strano, – egli disse. – Io non riesco a vederci nulla.

Riprese il pasto.

— Non avevo idea di queste cose, – continuò e masticava. – La ciurma della goletta… deve aver avuta la stessa impressione… Ha dato una caccia accanita a quel povero diavolo… Avete veduto il capitano?

D’un tratto risuonò l’urlo del puma, questa volta più doloroso. Montgomery bestemmiò tra i denti. Mi venne mezza voglia di interrogarlo riguardo agli uomini sulla riva. In quella la povera bestia dall’interno eruppe in una sequela di brevi e acute strida.

— I vostri uomini sulla spiaggia, – chiesi – di che razza sono?

— Eccellenti ragazzi, no? – rispose distrattamente corrugando la fronte mentre l’animale emetteva grida strazianti. Non aggiunse altro. Vi fu un nuovo urlo più terribile del primo. Egli mi guardò coi suoi occhi grigi stupiti indi ribevve del whisky. Tentò di attrarmi in una discussione sull’alcool, affermando di avermi salvata la vita con quello. Pareva ansioso di accentuare il fatto ch’io gli dovevo la vita. Gli risposi distrattamente. Dopo un po’ il nostro pasto ebbe termine, il mostro deforme cogli orecchi appuntiti si dileguò e Montgomery mi lasciò di nuovo solo nella mia camera. Per tutto il tempo che si sentì il rumore del puma vivisezionato egli fu in uno stato di irritazione che non riuscì a nascondere. Ma parlò della sua strana debolezza nervosa e mi lasciò solo a trarne le conseguenze.

Anch’io trovai che quelle grida erano oltremodo irritanti ed esse crebbero di profondità e d’intensità coll’inoltrarsi del pomeriggio. Dapprima furono penose, ma la loro costante ripetizione finì per togliermi completamente l’equilibrio delle sensazioni.

Scaraventai in un canto un volume di Orazio che stavo leggendo, e cominciai a stringere i pugni, a mordermi le labbra, ed a camminare sù e giù per la stanza.

Dopo un po’ dovetti turarmi le orecchie colle dita. La commozione prodotta da quelle urla non fece che aumentare costantemente nell’animo mio, finché esse alfine non raggiunsero una così fine espressione di sofferenza che non potei tollerarla più a lungo in quella camera chiusa. Uscii fuori della porta nel calore sonnolento del tardo pomeriggio, e oltrepassando l’ingresso principale (notai ch’era di nuovo chiuso a chiave) voltai l’angolo della muraglia.

Quelle grida risuonavano con maggior forza all’aperto. Pareva che in esse tutto il dolore del mondo avesse trovata una voce. Pure se avessi saputo quel dolore nella camera attigua, ma fosse stato muto, credo che l’avrei potuto sopportare abbastanza bene.

È quando il dolore trova una voce e fa vibrare i nostri nervi che questa compassione ci perturba. Nonostante la fulgida luce del sole e le verdi fronde degli alberi ondeggianti nella calmante brezza marina, il mondo fu tutto uno scompiglio, pieno di erranti fantasmi neri e rossi, finché non mi trovai fuori di portata di ogni voce, lungi dalla casa infernale.

 

TITOLO: L’isola del Dottor Moreau
AUTORE: Herbert George Wells
TRADUTTORE: Arturo Bagnoli
NOTE: si ringrazia la Biblioteca Comunale Teresiana di Mantova per la disponibilità dimostrata fornendoci generosamente le scansioni dell’originale.
CODICE ISBN E-BOOK: 9788828102687
DIRITTI D’AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

Copertina tratta da “THE ISLAND OF DR. MOREAU” Diretto da John Frankenheimer, Richard Stanley, 1996 .

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nacque a Bromley il 21 settembre 1866, morto a Londra, 13 agosto 1946, è stato uno scrittore britannico tra i più popolari della sua epoca. Autore di alcune delle opere fondamentali della fantascienza, è ricordato come uno degli iniziatori di tale genere narrativo, grazie alle sue opere, Wells è stato definito come un "padre della fantascienza", insieme a Jules Verne e Hugo Gernsback.