L’immagine di copertina ci è stata spedita direttamente da Kim Stanley Robinson.

© 2018 by Franco Giambalvo & Kim Stanley Robinson

Avevamo promesso di cercare un contatto con Kim Stanley Robinson, autore di New York 2140, romanzo che era nella shortlist dei partecipanti all’ultimo Premio Hugo. Noi lo abbiamo letto nella traduzione italiana di Annarita Guarnieri, offerta dall’Editore Fanucci. Per ovviare a una mia personale mancanza di documentazione sull’Autore, sto leggendo proprio adesso, in inglese, la cosiddetta Trilogia marziana, che comprende i volumi Red Mars, 1992, Green Mars, 1993, Blue Mars, 1996, a cui si dovrebbe aggiungere un corollario intitolato The Martians, 1999. I tre libri sono disponibili dall’Editore Fanucci nella traduzione italiana di Maurizio Carità (il Rosso) e di Annarita Guarnieri per gli altri due. Non abbiamo trovato una traduzione per The Martians. Parleremo della trilogia in un prossimo futuro, con un nuovo articolo, ma non ho intenzione di leggere la traduzione in italiano e sarei estremamente grato a chiunque volesse contattarmi (lasciando un commento qui)  per parlare della sua esperienza di lettura in italiano della trilogia.

Ci tengo subito a chiarire che non ritengo ci siano problemi con la traduzione di New York, né di Marte, perché Annarita Guarnieri è traduttrice di tutta fama e anche se non conosco Maurizio Carità so che è un professionista. Un commento sulla qualità delle traduzioni sarebbe tuttavia il benvenuto per dare ai traduttori quel che è dei traduttori: troppo spesso ignorati in Italia.

Dopo aver letto New York 2140 (come ho detto nella versione tradotta) ho presentato una recensione che aveva una unica piccola frase “critica.” Cioè la seguente:

Uno dei problemi di questo libro è la lunghezza esagerata: in definitiva si tratta di una semplice raccolta di racconti!
Se l’Autore avesse emendato il tutto lasciando solo le parti entusiasmanti (che sono molte) saremmo di fronte a un capolavoro.

Nella versione Fanucci, il libro conta 662 pagine e quindi la lunghezza direi che non sia in discussione. Ciò che è apparso a molti decisamente discutibile è la mia idea che si tratti di una semplice raccolta di racconti! Tale affermazione ha scatenato multiple “critiche” nei miei confronti, perché in realtà (mi dicono) ogni libro di Stanley è proprio fatto così: una raccolta corale di avvenimenti, che in genere convergono poi in un unico scenario.

È chiaro che definire una raccolta di racconti opere come La svastica sul sole di Dick, o Tutti a Zanzibar di Brunner è per lo meno audace. Le critiche che ho ricevute sono state sempre molto puntuali, qualche volta un po’ piccate.

Mi dice Michele Castellano:

Che si tratti “semplicemente” di una raccolta di racconti è secondo me una lettura davvero sbagliata, e di molto. Come tutte le opere di Robinson, si tratta di un romanzo corale, con diversi personaggi che interagiscono più o meno, ma che tutti insieme formano il “coro”. Non bisogna poi dimenticare il personaggio principale che è la base della vicenda, e cioè l’ambiente. […]

In seguito ho ricevuto anche delle lettere da esperti sull’argomento. Voglio riportare qui il parere del curatore di un blog su Facebook dedicato a Kim Stanley Robinson, cioè Kimon Keramidas:

Credo di dover condividere le idee della gente che ti ha risposto: i romanzi di KSR non hanno una trama unica e sono sempre delle opere corali. Mostrano la costruzione di mondi descritta sotto molti punti di vista: NY2140 è un po’ come un romanzo di Charles Dickens, o Victor Hugo, storie di diverse classi sociali che interagiscono. L’esempio più estremo direi sia il suo romanzo “2312”, scritto sullo stile di “Tutti a Zanzibar,” di Brunner, che usava una forma inventata da John Dos Passos: capitoli brevi che sono un elenco, quasi come fossero estratti da libri, o da una enciclopedia.

Stan, tu mi puoi dire qualcosa del tuo stile? Soprattutto in New York 2140!

Per me New York 2140 è un romanzo; e un romanzo nemmeno troppo insolito. Ogni storia ha dentro di sé una forma e il genere romanzo è capace di comprendere al suo interno una enorme quantità di forme. Questa è una tra le cose che più amo nei romanzi. In questo caso volevo fornire un ritratto molto vasto dei cittadini di una New York post alluvionale, con tanti personaggi che dessero un significato alla città nel momento in cui si svolge la storia. In Francia esiste una forma di letteratura detta “romanzo condominiale” (per esempio in Zola e in altri naturalisti), che adesso la troviamo anche nella letteratura in inglese: il principio organizzatore è il luogo in cui abita un gruppo di persone che probabilmente non si conoscono nemmeno. In principio i personaggi sono dei semplici vicini di casa, come in 334 di Thomas M. Disch, che restano tali fino alla fine. In questo caso è certamente giusto parlare di una raccolta di novelle, perché inizialmente è proprio quello. Invece il mio libro è molto più simile al recente Capital di John Lanchester, in cui i personaggi arrivano a far conoscenza, interagiscono e poi tutti assieme collaborano a costruire una racconto collettivo.

Molti libri funzionano in questo modo, anche se non sono romanzi condominiali. Uno molto bravo in questo aspetto romanzesco è Mikhail Bahktin, quando parla di “polifonia” e di “eteroglossia”, dove sottolinea che in molti romanzi il racconto risulta composto da una serie di intrecci di voci e di storie diverse per sfociare in qualcosa di più grande. Io cerco molto spesso di trasmettere una situazione più estesa rispetto al fato di pochi piccoli personaggi. Il che è particolarmente importante se il tuo scopo è di raccontare una storia futura (o una storia alternativa, o una storia qualsiasi a ben pensarci) oltre alle piccole storie di qualche personaggio.

È interessante quello che dici: io stesso (che ogni tanto scrivo) ho lì, da qualche parte, un manoscritto basato su un principio simile: un mondo futuro, un condominio, storie di gente che ci abitano. A te da dove è venuta questa idea per costruire un ambiente così suggestivo?

In questo caso ho parlato con il mio curatore Tim Holman e gli ho detto che mi sarebbe piaciuto fare un libro sulla finanza globale. Lui mi ha suggerito che se volevo fare un racconto su un argomento tanto astratto, sarebbe stato meglio ambientarlo in un luogo concreto. E allora mi ha ricordato la New York allagata brevemente evocata nel mio romanzo 2312, sottolineando che era piuttosto sensato ambientare a New York, centro mondiale del capitalismo, un romanzo sulla finanza. E mi ha anche consigliato di utilizzare la forma di romanzo condominiale, in modo da poter dipingere la vita di tutti nella città allagata.

A leggere i tuoi lavori sono rimasto colpito dalla grande quantità di ricerca che devi aver fatto: ci sono approfondimenti in qualsiasi campo della scienza, dalla finanza alla geologia, quanto ti costa ogni volta questo aggiornamento di conoscenza?

A me piace la ricerca, che significa in definitiva leggere qualcosa su un certo argomento. Non ho alcuna metodica particolare per questa attività, che poi non ha mai fine. Tutti noi studiamo il mondo in un modo o nell’altro e i miei romanzi sono il mio mezzo per concentrare i miei interessi del periodo, per poi utilizzare in qualche modo ciò che ho imparato. Insomma la ricerca  fa parte del divertimento.

In New York 2140 ci sono episodi che ritornano dopo un po’ di capitoli in cui si parla di altro: non so, i programmatori sul tetto, per esempio, o la giornalista con gli orsi polari e altre storie. Tu come scrivi queste parti? Le scrivi tutte di seguito e poi le suddividi, o segui il percorso che poi sarà definitivo nel libro?

No, ho scritto il romanzo più o meno nell’ordine in cui compare ogni scena, anche se poi ho un po’ giocato qui e là durante la fase di revisione e ho preso in considerazione quale potesse essere l’ordine in cui certe scene avrebbero funzionato al meglio. Per cui la storia è stata scritta in ordine cronologico, spostandomi da un punto di vista all’altro e solo durante la revisione, ho fatto degli aggiustamenti per rendere il tutto più scorrevole.

È un peccato che i tuoi lavori siano così poco rappresentati in Italia: da cosa dipende? Qualcuno ha una tua esclusiva, o non ti interessa spingere per il nostro Paese?

Mi è piaciuto molto il poco che ho visto dell’Italia. Sono stato più volte a Venezia. Poco a Roma e Firenze, poi sono stato ospite d’onore alla Convention di fantascienza a Montepulciano, nel 1986, poi ho giocato a baseball in un torneo di baseball a Milano nel 1987, dove la mia squadra svizzera di baseball è stata strapazzata da molte amichevoli squadre italiane: si parla del periodo in cui ho vissuto a Zurigo con mia moglie. Ultimamente sono tornato due volte a Venezia.

Ho letto molta letteratura italiana, ma in inglese: I Promessi Sposi, ma soprattutto Italo Calvino ciò che è stato tradotto in inglese, poi le cose di Galileo tradotte. Ultimamente ho letto tutti i libri in inglese di Elena Ferrante, perché mi sembra di poter vivere la vita di una donna italiana più o meno della mia età nel Quartetto Napoletano: grandissima esperienza letteraria, grande storia.

Ho scritto un romanzo su Galileo, che adoro e che rappresenta una delle più frustranti esperienze della mia vita editoriale perché il mio Galileo non è mai stato tradotto in italiano. Ma le traduzioni sono del tutto fuori dal mio controllo. La mia situazione in Italia dipende esclusivamente dai curatori, dagli Editori italiani e dalle scelte dei lettori si capisce. Qualche volta gli editori italiani hanno deciso di pubblicare i miei libri, ma temo che i risultati di vendita non siano stati tali da incoraggiare altre traduzioni. Il mio rappresentante italiano è Piergiorgio Niccolazzini, mio supporter tra i primi, che mi ha pubblicato Icehenge in italiano. Recentemente Fanucci ha pubblicato un bel po’ di miei libri, il che mi fa molto piacere. Spero ce ne siano degli altri.

Dopo aver sentito Kimon, e  ne hai parlato anche tu, mi è venuta voglia di leggere 2312: anche questo non disponibile in italiano. Cosa mi puoi dire del romanzo in questione? Quali sono le sue caratteristiche?

2312 è un romanzo che si svolge nell’anno del titolo, descrive un’umanità che abita tutto il sistema solare, terraformando i diversi pianeti e l’interno degli asteroidi. Nascono alcuni problemi di politica che hanno a che fare con la raggiunta coscienza delle Intelligenze Artificiali, la distribuzione delle risorse, le forme dell’economia, ecc. Qui ho scelto di utilizzare il formato di scrittura inventato da John Dos Passos nella sua Trilogia U.S.A., perché mi permetteva di seguire non solo un paio di personaggi principali, ma anche di trasmettere tutti i vari aspetti di una civiltà sparsa per tutto il sistema solare.

Un ultimo sguardo alla mia discussa definizione su New York, una collezione di racconti! Hai parlato di 334 di Thomas M. Disch’s, ma dici anche tu che si tratta proprio di una collezione di racconti. Il link si riferisce solo a Wikipedia, ma comunque la recensione mi sembra accurata:

Il romanzo consiste in cinque novelle indipendenti (già pubblicate in precedenza separatamente) con un ambiente comune, ma personaggi diversi, più una sub-novella più lunga intitolata appunto “334” dove in molte sezioni brevi si descrivono i membri di una singola famiglia avanti e indietro nel tempo […]

Voglio dire: non credo che scrivere una serie di racconti sia necessariamente negativo, e non volevo dirlo con tono negativo. La mia frase era: forse è un po’ troppo lungo come libro e (forse) si poteva fare una diversa selezione delle storie. Ma parlavo del mio gusto personale.

Va benissimo, non ho niente contro il tuo commento, che mi sembra giusto per quello che volevi dire: infatti il mio libro è formato da una serie di storie, anche se penso che dentro ci sia una storia più grande di ciò che racconta il romanzo stesso. Alla fine è diventato un po’ lungo, anche se ho scritto tre romanzi ancora più luoghi di questo: La Trilogia marziana, Gli anni del riso e del sale   (edito in Italia da Newton Compton nel 2007), e Green Earth, per cui tutto è relativo. A me piacciono i romanzi lunghi, è solo una questione di formato adatto allo scopo: soprattutto è questione se ti diverti a leggerlo, o no. Se il romanzo funziona puoi andare avanti all’infinito, se non va, allora sono troppe anche cento pagine. Per cui è questione di gusti e tutti i gusti sono diversi. Questa è una delle grandi cose della letteratura: la capacità con cui tutti possono leggere lo stesso testo in modo diverso.

In New Your 2140 ci sono episodi che a me sono piaciuti enormemente. Invece ho sentito molte persone che dicevano di aver preferito Marte ché in effetti è più tecnologico.

Non credo di avere un solo pubblico che legge i miei libri. Alcuni leggono qualche libro dei miei, nessuno li legge tutti… A ogni modo, questa è la mia impressione. Non ho modo di saperlo per certo.  Quel che posso fare è di immaginare un’idea per un libro, così come mi appare fin dall’inizio e poi, cercare di scrivere la miglior versione di quell’idea. Il che mi porta verso ogni tipo di diverso genere, forma e modalità. Mi piace la varietà

Un grande grazie Stan.

Grazie a te.

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nato nel 1944, non ha tempo di sentire i brividi degli ultimi fuochi della grande guerra. Ma di lì a poco, all'età di otto anni sarà "La Guerra dei Mondi" di Byron Haskin che nel 1953 lo conquisterà per sempre alla fantascienza. Subito dopo e fino a oggi, ha scritto il romanzo "Nuove Vie per le Indie" e moltissimi racconti.