Riporto da Wikipedia:
Il Ciclo di Barsoom o Ciclo di Marte è una serie letteraria science fantasy di Edgar Rice Burroughs. Il romanzo d’esordio è La principessa di Marte pubblicato nel 1912 a puntate sulla rivista The All-Story e poi raccolto in volume unico nel 1917. A questo fanno seguito altri otto romanzi e due raccolte di novelle.
Tutte le puntate sono facilmente rintracciabili su questo sito cercando la categoria o il Tag “John Carter” a partire dalla prima puntata.
Capitolo II
Un cadavere in fuga
Mi avvolse un senso di delizioso torpore, i muscoli si rilassarono e stavo per abbandonarmi al desiderio di dormire quando giunse alle mie orecchie il rumore di cavalli in avvicinamento. Cercai di balzare in piedi, ma scoprii con orrore che i muscoli si rifiutavano di obbedire alla mia volontà. Ero perfettamente lucido, eppure completamente incapace di muovermi, come se fossi stato tramutato in pietra. Fu allora che notai, per la prima volta, una sottile foschia riempire la caverna. Era estremamente tenue e visibile solo fissando l’apertura da cui filtrava la luce del giorno. Mi giunse anche un lieve odore pungente e potei solo supporre di essere stato sopraffatto da un qualche gas velenoso. Ma perché la mia mente fosse ancora lucida, mentre il corpo era inerte, era un mistero che non riuscivo a spiegare.
Ero disteso rivolto verso l’apertura della caverna e da lì potevo osservare il breve tratto di sentiero tra l’ingresso e la curva della parete rocciosa oltre cui il sentiero proseguiva. Il rumore degli zoccoli si era interrotto e giudicai che gli indiani stessero avanzando silenziosamente verso di me lungo la stretta cengia che conduceva alla mia tomba vivente. Ricordo che sperai in una loro esecuzione rapida: non avevo certo il desiderio di provare le innumerevoli torture che avrebbero potuto infliggermi se il Grande Spirito li avesse ispirati.
Non dovetti attendere molto. La loro vicinanza mi fu annunciata da un suono furtivo e poi da un volto dipinto, sormontato da un copricapo di piume che, sbucò con cautela oltre la roccia: quegli occhi selvaggi incrociarono i miei. Ero certo che non avesse alcun problema a vedermi nella penombra della caverna, poiché il sole del mattino, proveniente dall’ingresso, batteva in pieno su di me.
L’indiano, invece di avvicinarsi, rimase a fissarmi immobile; gli occhi spalancati, la mandibola cascante. Poi apparve un secondo volto e un terzo, un quarto, un quinto… tutti allungavano il collo fissando qualcosa al di là, ma il passaggio era stretto e non potevano superare. Su ciascuno di quei volti si leggeva stupore e terrore, ma io non ne comprendevo la ragione… e non l’avrei compresa se non dieci anni dopo. Era evidente che, oltre ai guerrieri che vedevo dietro ai primi, ce ne fossero degli altri, poiché costoro sussurrarono alcune parole in direzione di chi li seguiva.
All’improvviso, dalle profondità della caverna alle mie spalle, si levò un gemito basso ma distinto e allora gli indiani si diedero alla fuga in preda al panico. La loro paura fu tale che uno dei guerrieri precipitò dal sentiero, schiantandosi sulle rocce sottostanti. Per un attimo il canyon riecheggiò delle loro urla, poi tornò il silenzio.
Il suono che li aveva terrorizzati non si ripeté, ma era bastato per spingermi a congetturare sull’orrore che poteva celarsi nell’ombra alle mie spalle. La paura è un concetto relativo e posso misurare le mie sensazioni di quel momento solo confrontandole con esperienze precedenti e con quelle che avrei vissuto in seguito. Ma posso affermare, senza vergogna che, se ciò che provai in quei minuti era paura, allora che Dio aiuti il codardo, perché la codardia è, senza dubbio, la giusta punizione.
Essere paralizzati, con la schiena rivolta a un pericolo ignoto e spaventoso – un pericolo che aveva fatto fuggire in massa dei feroci guerrieri Apache come pecore impazzite davanti a un branco di lupi – mi sembrò l’apice del terrore anche per un uomo che pur aveva lottato per la propria vita con tutta la forza del suo corpo.
Più volte mi sembrò di udire deboli rumori alle mie spalle, come se qualcuno si muovesse con cautela, ma infine anche questi cessarono, lasciandomi solo nella contemplazione della mia condizione. Potevo solo vagamente ipotizzare la causa della mia paralisi e l’unica speranza era che potesse improvvisamente sparire così come era venuta.
Nel tardo pomeriggio, il mio cavallo – che era rimasto fermo con le redini penzolanti davanti alla caverna – si avviò lentamente lungo il sentiero, probabilmente in cerca di cibo e acqua. Restai così solo con il mio misterioso compagno sconosciuto e con il cadavere del mio amico, che giaceva poco oltre a dove arrivava il mio sguardo, sulla cengia dove lo avevo adagiato al mattino.
Da quel momento fino a mezzanotte, più o meno, regnò il silenzio. Il silenzio della morte. Poi, all’improvviso, l’orribile gemito udito al mattino tornò a risuonare alle mie orecchie e dalle tenebre giunse di nuovo il suono di qualcosa che si muoveva e un fruscio simile a quello di foglie morte. Lo shock per il mio sistema nervoso, già messo a dura prova, fu terribile e con uno sforzo sovrumano cercai di rompere le orribili catene che mi imprigionavano. Fu uno sforzo della mente, della volontà, dei nervi… non muscolare, poiché non riuscivo a muovere neppure un dito… eppure fu uno sforzo immenso.
E poi qualcosa cedette. Provai un’improvvisa nausea, un secco scatto come se si fosse spezzato un filo d’acciaio e mi ritrovai in piedi, con la schiena contro la parete della caverna, rivolto verso il mio nemico sconosciuto.
La luce della luna inondava la caverna e davanti a me vidi il mio stesso corpo, giacente esattamente com’era rimasto per tutte quelle ore: occhi spalancati rivolti verso l’ingresso, le mani distese inerti sul suolo. Guardai prima quel corpo inerte, poi me stesso, confuso. Lì giacevo, vestito, eppure adesso ero in piedi, nudo come al momento in cui ero nato.
La transizione era stata così improvvisa e inaspettata da lasciarmi, per un attimo, dimentico di ogni altra cosa, assorto nel mistero della mia metamorfosi. Il mio primo pensiero fu: “È questa la morte? Sono forse passato per sempre nell’altra vita?” Ma non potevo crederlo, perché sentivo il cuore battere forte nel petto per lo sforzo di liberarmi dall’anestesia che mi aveva tenuto prigioniero. Respiravo affannosamente, un sudore freddo mi copriva il corpo e il vecchio esperimento di pizzicarmi rivelò che non ero affatto uno spirito.
Fui nuovamente richiamato al presente dal ripetersi del lugubre gemito che proveniva dal fondo della caverna. Nudo e disarmato, non avevo alcun desiderio di affrontare la creatura invisibile che mi minacciava. Le mie pistole erano ancora allacciate al corpo inerte che, per qualche motivo inspiegabile, non riuscivo a toccare. Il fucile era rimasto nella sua fondina, legato alla sella e poiché il mio cavallo si era allontanato, mi trovavo del tutto privo di difesa.
L’unica alternativa era la fuga e la mia decisione fu rafforzata dal ripetersi del fruscio, come se la cosa, ora immersa nelle tenebre della caverna e alimentata dalla mia immaginazione, si stesse furtivamente avvicinando.
Incapace di resistere oltre alla tentazione di fuggire da quel luogo orribile, balzai rapidamente verso l’apertura, nella luce delle stelle di una limpida notte dell’Arizona. L’aria fresca e frizzante delle montagne mi rinvigorì subito e sentii scorrere in me nuova vita e nuovo coraggio.
Fermandomi sul bordo della cengia, mi rimproverai per ciò che ora mi sembrava un timore del tutto infondato. Riflettei sul fatto che ero rimasto inerme per ore nella caverna, eppure nulla mi aveva ferito. Il mio giudizio, più lucido ora, mi convinse che i rumori uditi dovevano avere una causa naturale e innocua: probabilmente una lieve corrente d’aria circolante nella particolare formazione della grotta.
Decisi di indagare. Ma prima sollevai il capo per riempire i polmoni con l’aria pura e tonificante della notte di montagna. Così facendo, vidi stendersi sotto di me la magnifica visione del canyon roccioso e della pianura disseminata di cactus, trasformata dalla luce della luna in un miracolo di splendore soffuso e un incanto meraviglioso.
Pochi panorami del West sono più suggestivi di un paesaggio lunare in Arizona: le montagne argentate in lontananza, le strane luci e ombre su dorsali e burroni, i dettagli grotteschi ma affascinanti dei cactus rigidi per un quadro insieme incantevole e ispiratore… pare di scorgere, per la prima volta, un mondo morto e dimenticato, per quanto è diversa quell’atmosfera da qualsiasi altro angolo del mondo.
Mentre ero lì, assorto, rivolsi lo sguardo dal paesaggio al cielo, dove le miriadi di stelle formavano una volta sontuosa e perfetta al di sopra delle meraviglie terrestri. Il mio sguardo fu subito catturato da una grande stella rossa vicina all’orizzonte. Mentre la fissavo, provai un senso di irresistibile fascinazione: era Marte, dio della guerra e per me, uomo di battaglia, quella divinità aveva sempre esercitato una magica attrazione. Quella notte remota, mentre lo osservavo, mi sembrò che mi stesse chiamando attraverso l’inconcepibile vuoto dello spazio, che mi attraesse a sé come la calamita attira il ferro.
Il desiderio era più forte di ogni resistenza. Chiusi gli occhi, stesi le braccia verso il dio della mia vocazione e mi sentii trascinato, alla velocità del pensiero, attraverso l’immensità senza strade dello spazio. Seguì un istante di freddo estremo e di oscurità totale.
Traduzione di Franco Giambalvo, © 2025
L’immagine di copertina è stata elaborata da AI, ChatGPT.
(Chicago, 1º settembre 1875 – Encino, 19 marzo 1950) è stato uno scrittore statunitense, autore, fra l'altro, del ciclo di romanzi incentrati sulla figura di Tarzan, il personaggio della giungla allevato dalle scimmie che ha alimentato la fantasia dei lettori e degli appassionati di cinema di più di una generazione.