L’Isola del dottor Moreau è uno dei romanzi più famosi di H. G. Wells e noi ne presentiamo i primi quattro capitoli, con l’intenzione di pubblicare l’intera opera nel tempo.
Il servizio è tratto da Liber Liber. che seleziona i romanzi, i libri e i racconti che non hanno più Copyright e li mette a disposizione dei lettori. Questo romanzo è stato pubblicato a Londra nel 1896 e la traduzione italiana è di Arturo Bagnoli. – Milano : Corticelli, [1926]. La storia rappresenta un classico imitato da moltissimi altri Autori e soprattutto continuamente riprodotto in grandi film.

Nella lancia della «Lady Vain»

Non è mia intenzione di aggiungere alcun che a quello che è stato scritto riguardo alla perdita della «Lady Vain». Come tutti sanno, a dieci giorni di rotta da Callao essa cozzò in un avanzo di nave naufragata.

Sette degli uomini di bordo si rifugiarono sulla scialuppa maggiore, quattro sulla lancia. Gli uomini della scialuppa furono raccolti diciotto giorni dopo dalla cannoniera inglese Mirtla e la storia delle loro privazioni è divenuta ormai tanto nota quanto quella ben più terribile della Medusa.

Nondimeno a quello che si è stampato sull’affondamento della Lady Vain devo ora aggiungere un capitolo non meno orribile e certo di gran lunga più singolare.

Fin qui si è creduto che i quattro uomini della lancia siano periti. Ma non è esatto e posseggo la prova migliore della mia affermazione: io ero del numero.

Ma in primo luogo debbo stabilire che non ci furono mai quattro uomini nella lancia, ma soltanto tre: Costants, che fu veduto dal capitano saltare nella scialuppa («Daily News», 17 marzo 1887), per fortuna nostra e per disgrazia sua non ci raggiunse. Scese giù di fra un groviglio di funi sotto i sostegni del bompresso frantumato e mentre spiccava il salto il suo calcagno rimase impigliato in una funicella. Per un istante stette penzoloni colla testa in giù, poi precipitò e batté su un ceppo o un travicello galleggiante sull’acqua. Movemmo verso di lui ma egli non venne più a galla.

Ho detto per fortuna nostra egli non ci raggiunse e potrei quasi aggiungere per fortuna sua. Perché non avevamo con noi che un minuscolo bariletto di acqua e alcuni biscotti rammolliti, così repentino era stato l’allarme, così impreparata la nave a un eventuale disastro. Credendo che gli uomini della lancia fossero meglio approvvigionati di noi tentammo di chiamarli.

Non ci udirono e il giorno seguente, quando, nel pomeriggio, la pioggia diradò, più nulla potemmo sapere di loro.

Il mare era sbattuto da grandi ondate e molto dovemmo lavorare per mantenere lo schifo in grado di affrontarle. Degli altri due uomini che con me erano scampati fin là, Helmar era un passeggero come lo ero io, l’altro un marinaio di cui non so il nome, tozzo, vigoroso, balbuziente.

Per otto interi giorni andammo alla deriva rosi dalla fame e, finita che fu la provvista d’acqua, tormentati da una sete insopportabile.

Al secondo giorno il mare si chetò a poco a poco fino a raggiungere una calma vitrea. È del tutto impossibile al lettore comune di farsi un’idea esatta di quegli otto giorni.

Dopo il primo giorno non ci parlammo che poco. Si stava ai nostri posti nella scialuppa fissando l’orizzonte con occhi che si facevano sempre più grandi e più truci, contando il tempo che passava, ascoltando con disperazione la debolezza che andava impadronendosi di noi.

Il sole divenne spietato. L’acqua terminò al quarto giorno.

Al sesto Helmar manifestò a voce quel che ognuno di noi pensava. Mi opposi con ogni forza; avrei preferito forare il battello e perire tutti assieme divorati dai pescicani che ci seguivano; ma quando Helmar disse che se la sua proposta fosse stata accettata avremmo avuto da bere, il marinaio prese le sue parti. Tuttavia, non volli tirare a sorte.

Durante la notte il marinaio confabulò a lungo con Helmar. Io stavo a poppa col mio coltello a serramanico in pugno, quantunque sia dubbio se io avessi le qualità volute per la lotta. Solo alla mattina aderii alla proposta di Helmar.

Gettammo un soldo. La sorte designò il marinaio ma egli era più forte di noi e non volle saperne. Assalì Helmar mettendogli le mani addosso. Essi si abbrancarono l’un l’altro e quasi si alzarono in piedi.

Io strisciai lungo il battello verso di loro, con l’intenzione di prestar aiuto a Helmar afferrando una gamba del marinaio, ma questi incespicò a cagione del beccheggio della barca ed entrambi caddero sulla sponda ruzzolando assieme fuori della scialuppa. Caddero come sassi. Mi ricordo di averne riso e di essermi poi meravigliato della mia risata.

Rimasi a giacere su una delle traverse per non so quanto tempo, pensando che se ne avessi avuto la forza avrei bevuto acqua marina e sarei impazzito per morire rapidamente. E pure mentre giacevo colà, vidi, con non maggiore interessamento di quello che avrei prestato a un dipinto, una vela avanzare verso di me sulla linea dell’orizzonte.

La mia mente doveva essere smarrita e pure rammento chiaramente tutto quel che accadde. Ricordo come la mia testa oscillasse a seconda del movimento delle onde e come sull’orizzonte la vela danzasse su e giù. Ma ricordo pure con eguale chiarezza che io ero persuaso di essere morto e di avere pensato quale sarebbe stato il disappunto degli uomini della vela per essere giunti troppo tardi.

Per un lasso di tempo infinito, almeno tale mi parve, giacqui con la testa sulla traversa guardando la goletta emergere dal mare.

Essa prese a volteggiare di qua e di là in larghe bordate perché navigava contro vento. Non ebbi mai il pensiero di tentare di attrarne l’attenzione.

Di quello che avvenne in seguito non ricordo nulla. Rammento confusamente di essere stato tratto a bordo per la scaletta e di una faccia grossa e rubiconda piena di lentiggini, contornata da una capigliatura rossa che mi fissava al di sopra del parapetto. Ebbi pure l’impressione sconnessa di una faccia scura con occhi straordinari vicini ai miei, ma credetti ad un incubo. Parmi ricordare che qualche cosa mi fu versata fra i denti. E questo e tutto.

A bordo de L’«Ipecacuanha».

La cabina nella quale mi trovai era angusta e piuttosto sudicia. Un uomo alquanto giovine dai capelli biondi, dai baffi setolosi color di paglia e dal labbro inferiore pendente sedeva tenendomi il polso. Per un minuto ci guardammo senza parlare. Aveva degli occhi grigi, stranamente privi di espressione.

A un tratto, proprio sul mio capo, si udì un rumore pari a quello di un letto di ferro che venga trascinato e il sordo ringhio rabbioso di qualche grosso animale. Nello stesso momento l’uomo parlò:

— Come vi sentite ora? –

Credo di aver detto che mi sentivo benissimo. Non potevo ricordarmi in qual modo fossi arrivato là. L’uomo sembrò leggermi nel pensiero perché disse:

— Siete stato raccolto in un battello, sfinito di fame. Il nome scritto sulla scialuppa era Lady Vain e vi erano tracce di sangue sull’orlo della imbarcazione.

Nel medesimo istante il mio sguardo si posò sulla mia mano scarna e ossuta, e tutta la faccenda del battello mi tornò alla mente.

— Prendete un po’ di questo, – disse, e mi porse una scatoletta di un certo ingrediente scarlatto, ghiacciato.

Aveva il sapore del sangue e mi rinvigorì leggermente.

— Siete stato fortunato, – aggiunse – di essere stato raccolto da una nave che aveva un medico a bordo. – Parlava con un po’ di esitazione nella pronuncia, con un’ombra di balbuzie.

— Che nave è questa? – chiesi lentamente.

— È un piccolo naviglio mercantile, a nome Ipecacuanha, che fa il viaggio da Arica a Callao. Non ho mai domandato da dove venga. Dal paese dei pazzi, credo. Io stesso sono un passeggero, e vengo da Arica. Quell’asino calzato che lo possiede è anche il capitano e si chiama Davis.

Qui il rumore sul mio capo ricominciò, unitamente ad uni ringhio stridente, e alla voce di un essere umano. Indi un’altra voce, che comandava a un «idiota abbandonato dal cielo» di smetterla.

— Eravate quasi morto, – disse il mio interlocutore. Sentite dolori alle braccia? Iniezioni. Siete stato insensibile per quasi trenta ore.

Io pensavo pigramente. Venni distratto dal latrato di numerosi cani.

— Posso permettermi del cibo solido? – chiesi.

— Grazie a me, – egli disse. – Il castrato sta bollendo.

— Ma, – continuò egli, dopo una leggera esitazione, – sapete che muoio dal desiderio di sapere com’è che eravate solo nel battello? –

Credetti di scoprire nei suoi occhi un certo sospetto.

— Maledetto codesto ululìo! –

Uscì improvvisamente dalla cabina e lo udii disputare con veemenza con qualcuno, che nel rispondergli mi pareva parlasse in un gergo sconosciuto. Dal rumore che intesi mi sembrò che la faccenda andasse a finire in percosse, ma per lo stato nel quale mi trovavo ritenni che le mie orecchie si ingannassero. Poi egli vociò contro i cani e tornò nella cabina.

— Ebbene? – disse sul vano dell’uscio. – Stavate appunto per cominciare il vostro racconto.

Gli dissi il mio nome, Edoardo Prendick, e la mia passione per la storia naturale, passione sviluppatasi più che altro per reazione alla noia di una vita troppo comoda e indipendente.

— Ho coltivato questa scienza anch’io, ho fatto il corso di biologia all’università e mi sono occupato di studi sull’ovaia del lombrico, sul guscio delle lumache e cose simili dieci anni fa. Ma continuate, continuate, narratemi del battello. –

Era evidentemente soddisfatto della sincerità della narrazione che andavo facendo con frasi assai concise, perché mi sentivo eccessivamente debole. Quand’ebbi terminato egli tornò subito sull’argomento dei suoi studi biologici. Cominciò a rivolgermi domande precise riguardo a Tottenham Court Road e a Gower Street.

Caplatzi è sempre in fiore? Che locale magnifico era! –

Evidentemente era stato uno studente di medicina del genere più comune e faceva continue scorrerie sull’argomento dei caffè-concerto. Mi narrò qualche aneddoto.

— Ho abbandonato tutto, – disse, – dieci anni fa. Che allegria vi era allora! Ma non riuscii a combinar niente e dovetti abbandonare gli studi prima dei ventun anni. Son certo che tutto è diverso ora… Ma devo tener d’occhio quell’asino di un cuoco per vedere quel che sta facendo col vostro castrato.

Mentre usciva si fece sentire nuovamente quel ringhio sul mio capo, così improvviso e con tanta rabbia selvaggia, che mi impaurì.

— Che è ciò? – gli gridai dietro. Ma l’uscio si era già chiuso.

Ritornò portando il castrato lesso, e fui tanto eccitato dal suo odore appetitoso che dimenticai issofatto il ringhio della bestia.

Dopo una giornata di sonno e di nutrimento alternati mi sentii tanto rinvigorito da poter uscire dal mio giaciglio e appressarmi alla grata. I cavalloni correvano di conserva con noi. La goletta camminava col vento in poppa.

Montgomery – questo era il nome dell’individuo dai capelli biondi – rientrò e io gli chiesi qualche capo di vestiario.

Mi prestò alcuni suoi abiti. Erano piuttosto larghi per me, poiché egli era grosso e aveva le membra lunghe. Mentre li indossavo cominciai a rivolgergli qualche domanda circa la destinazione della nave. Mi rispose che era diretta ad Hawaii, ma che prima doveva far scalo per lasciarlo sbarcare.

— Dove? – io chiesi.

— In un’isola… dove io vivo. Per quel che ne so, non è ancora stata battezzata.

Mi fissò con un viso così volutamente stupido che mi balenò il pensiero che volesse eludere le mie domande. Fui tanto discreto da non chiedergli più nulla.

Il volto strano.

Uscimmo dalla cabina e trovammo un uomo presso il casseretto che ci sbarrava il cammino. Stava sulla scaletta col dorso rivolto verso di noi, spiando al di sopra dell’orlo del boccaporto. Notai ch’era un individuo mal costrutto, tozzo, largo e pesante, col dorso curvo, il collo peloso e il capo incassato fra le spalle. Era vestito di saja turchina e aveva i capelli neri, ruvidi e straordinariamente grossi.

Udii cani invisibili latrare furiosamente. Subito egli rinculò, venne a contatto della mano ch’io avevo protesa per respingerlo e si voltò con una rapidità belluina.

Non so spiegarmelo, ma quella faccia nera così rivolta su di me mi urtò profondamente. Era di una deformità strana. La parte inferiore si protendeva innanzi, e la bocca immane semichiusa mostrava denti bianchi di una grossezza che non avevo mai veduta in una bocca umana. I suoi occhi erano iniettati di sangue agli angoli, con appena un filo di bianco attorno alle pupille color nocciuola. Il suo volto era acceso da una curiosa vampa di eccitazione.

— Che il diavolo ti porti – disse Montgomery – sei sempre tra i piedi!

L’uomo dalla faccia nera si buttò a lato senza dir parola.

Io proseguii su per la scaletta, mentre lo tenevo istintivamente d’occhio. Montgomery si fermò in fondo un istante.

— Non avete da far nulla qui, lo sapete – disse con tono risoluto. – Il vostro posto è a prua.

L’uomo dalla faccia nera si chinò:

— Essi non mi vogliono a prua… – Parlava lentamente con una voce bizzarra.

— Non ti vogliono? – disse Montgomery con voce minacciosa. – Ma io ti dico di andarci.

Fu lì per aggiungere qualcosa d’altro, poi improvvisamente guardò su verso di me e mi seguì sulla scaletta.

Mi ero fermato a mezzo cammino traverso il boccaporto, guardando indietro ancora stupefatto della bruttezza grottesca di quella creatura dal volto nero. Non avevo mai veduto innanzi a me un viso così ributtante e straordinario, eppure, se la contraddizione può essere creduta, io provai l’impressione di avere veduto già altre volte gli stessi lineamenti e atteggiamenti che ora mi cagionavano stupore.

Credetti dapprima di averlo visto allorché venni tratto a bordo. Non di meno non potevo capacitarmi come si fosse potuto gittare gli occhi su un viso così strano ed averne dimenticata l’occasione precisa.

La mossa di Montgomery per seguirmi distrasse la mia attenzione ed io mi voltai e scrutai attorno il robusto ponte della piccola goletta.

Ero già mezzo preparato a ciò che vedevo dai rumori che avevo udito. A dir vero, non avevo mai veduto un ponte di nave così lurido. Era cosparso di avanzi di carote, di ritagli di materie verdi, e da una paraffina di indescrivibile sudiciume.

Legato con catene all’albero maestro v’era un branco di terribili cani mastini, che presero a balzare e a latrare contro di me, e presso l’albero di mezzana un enorme puma era costretto in una piccola gabbia di ferro, di gran lunga troppo angusta anche per offrirgli spazio bastevole per potersi voltare.

Più innanzi, sotto il parapetto di destra, vi erano alcuni giganteschi cassoni contenenti numerosi conigli, e un solitario lama era compresso dentro un solo scompartimento di gabbia a prua.

I cani avevano museruole di strisce di cuoio. L’unico essere umano sul ponte era un marinaio silenzioso e sparuto presso la ruota del timone.

Le vele quadre, rattoppate e sporche, erano tese al vento e il piccolo naviglio pareva portare tutte le vele che possedeva. Il cielo era sereno, il sole a mezzo cammino sull’orizzonte d’occidente. Lunghe ondate, che il vento coronava di schiuma, correvano con noi.

Oltrepassammo il timone movendo verso il castello di poppa e scorgemmo l’acqua avanzarsi spumeggiante sotto la murata e le bolle di schiuma danzare e sparire nella scia della nave. Mi voltai ed esaminai il ponte ingombro d’animali e di lordure.

— È un serraglio oceanico? – chiesi. –

— Ne ha l’aspetto – rispose Montgomery. –

— Che si pensa di farne di queste bestie? Merce? Crede il capitano di poterne vendere in qualche porto dei mari del Sud?

— Pare! – disse Montgomery e si voltò di nuovo indietro.

D’un tratto udimmo un latrato e una scarica furibonda di bestemmie uscire dal boccaporto e vedemmo l’uomo deforme dalla faccia nera venir su a precipizio. Era seguito da presso da un grosso individuo dai capelli rossi che portava un berretto bianco.

Alla vista del primo i mastini, i quali si erano stancati di abbaiare contro di me, furono presi da nuovo furore e si misero ad ululare e a dare violenti strattoni alle loro catene. L’uomo nero ebbe un istante di esitazione dinanzi ad essi.

L’individuo dai capelli rossi ebbe il tempo di raggiungerlo e di assestargli una tremenda botta fra le scapole. Il povero diavolo cadde come un bue colpito da una mazzata e ruzzolò nel sudiciume fra i cani furibondi. Buon per lui che essi avevano la museruola.

L’uomo dai capelli rossi diede in una esclamazione di esultanza e si fermò titubante, incerto se tornarsene giù per il boccaporto o avanzarsi sulla sua vittima.

Non appena il secondo individuo fu comparso, Montgomery si era mosso di scatto. – Fermatevi! – urlò con accento di rimprovero. Un paio di marinai si mostrarono sul castello di prua.

L’uomo dalla faccia nera, urlando con voce strana, ruzzolava qua e là fra le zampe dei cani. Nessuno tentò soccorrerlo. Vi fu una danza furibonda di agili corpi grigi sulla figura inerte e supina. I marinai vociavano divertiti. Montgomery proruppe in una esclamazione di collera e discese a grandi passi dal ponte. Io lo seguii.

Un momento dopo l’uomo dalla faccia nera si era rimesso in piedi e si avanzava barcollando. Sbatté contro il parapetto presso le sorbe di maestra, dove rimase anelante e sbirciando colla coda dell’occhio i cani.

L’uomo dai capelli rossi rideva di un riso soddisfatto. – Guardate capitano, – disse Montgomery balbettando un po’ più del solito e pigliando per i gomiti l’uomo dai capelli rossi, – questo non va.

Io stavo dietro Montgomery. Il capitano fece un mezzo giro su se stesso e lo squadrò cogli occhi stupidi e solenni di un ubriaco.

— Che cosa non va? – disse dopo aver fissato con occhi sonnolenti il volto di Montgomery per un minuto. Con mossa repentina si liberò le braccia e si ficcò i pugni lentigginosi nelle tasche.

— Quell’uomo è un passeggero, – disse Montgomery. – Vi consiglio di non toccarlo.

— Andate all’inferno! – disse il capitano sbraitando. E fece un voltafaccia improvviso avviandosi barcolloni verso il fianco della nave. – Faccio quel che mi pare sulla mia nave.

Io penso che Montgomery avrebbe potuto lasciarlo vedendo che il bruto era ubriaco. Ma egli non si fece che un tantino più pallido e seguì il capitano verso il parapetto.

— Guardate, capitano, – disse. – Quell’uomo è mio e non deve essere maltrattato. È stato perseguitato fin dal primo momento che è salito a bordo.

Per un momento i fumi dell’alcool impedirono al capitano di dire parola.

— Animale! – fu tutto quello ch’egli ritenne necessario ripetere.

Potei constatare che Montgomery possedeva uno di quei temperamenti lenti e pertinaci che vanno giorno per giorno alimentando un odio che non abbandonano più mai e constatai pure come questa contesa fosse venuta addensandosi da qualche tempo.

— L’uomo è ubriaco, – gli dissi, forse per cortesia; – non fate bene a insistere.

Montgomery torse malamente il suo labbro penzolante.

— È sempre ebbro. Credete che sia questa una scusa per aggredire i suoi passeggeri?

— La mia nave, – prese a dire il capitano agitando fiaccamente la mano verso le gabbie, – era una nave pulita. Guardatela ora.

— Avete acconsentito a prendere le bestie.

— Vorrei non aver mai veduto la vostra isola infernale. A quale scopo, diavolo!… occorrono bestie per un’isola come quella? Poi quel vostro individuo… È un pazzo.

— I vostri marinai cominciarono a perseguitare quel povero diavolo non appena ebbe messo piede a bordo.

— È un diavolo, un brutto diavolo. È proprio il suo nome. I miei uomini non possono tollerarlo. Nessuno di noi può tollerarlo. E nemmeno voi.

Montgomery gli voltò le spalle.

— A ogni modo, lasciate stare quell’uomo.

Ma il capitano sembrava voler continuare la contesa. Alzò la voce.

— Se egli ritorna da questa parte della nave gli caverò le budella, ve lo dico io. Gli trarrò fuori tutte le sue viscere fetenti! Chi siete voi da suggerirmi quel che io debba fare? Ve lo ripeto, solo io sono capitano della nave. Capitano e proprietario. Qui io sono la legge, la legge e i profeti. Io ho pattuito di pigliare un uomo e il suo assistente da e per Arica e di trasportare alcuni animali. Non ho mai contrattato di portare un diavolo matto e un animale, un…

Non ripeterò l’epiteto ch’egli rivolse a Montgomery. Vidi quest’ultimo avanzare di un passo e m’intromisi.

— È ubriaco, – dissi.

Il capitano prese a insultare anche più trivialmente di prima.

— Basta! – gridai rivolgendomi bruscamente verso di lui.

Avevo intuito il pericolo dalla faccia bianca di Montgomery. Con questa mossa attirai la scarica su di me.

Tuttavia, fui lieto di aver evitata una rissa anche a prezzo dell’ostilità del capitano avvinazzato. Non credo di aver mai udito tante parole volgari uscir dalle labbra di un uomo sebbene abbia frequentato assai spesso compagnie eccentriche.

Ne trovai qualcuna dura da sopportare, benché io sia un uomo di carattere mite. Ma certamente quando dissi al capitano di finirla, avevo dimenticato di non essere che un brandello errante di umanità, tagliato fuori dal mondo, di non aver pagato il viaggio, di essere in balia della generosità o dell’egoismo del padrone. Ed egli mi rammentò questo fatto con voce vibrata. Ma ad ogni modo evitai una lotta.

Montgomery parla.

Quella sera, dopo il tramonto, fu avvistata la terra e la goletta virò verso di essa. Montgomery dichiarò che quella era la sua meta. Era troppo lontana per poterne scorgere i particolari; in quel momento mi parve semplicemente una macchia bassa di azzurro fosco nell’incerto grigio-azzurro del mare. Una striscia di fumo quasi verticale saliva nel cielo.

Il capitano non era sul ponte quando fu avvistata. Dopo aver dato sfogo alla sua collera con me era sceso barcollando di sotto e mi si disse che era andato a dormire sul pavimento della sua cabina. Il secondo assunse il comando. Era quell’individuo magro e taciturno che avevamo visto al timone. A quanto parve, anch’egli era di malumore con Montgomery e non fece la menoma attenzione a noi.

Pranzammo con lui in un silenzio tedioso, dopo alcuni sforzi senza risultato da parte mia per conversare. Mi colpì il fatto che i marinai guardavano il mio compagno e le sue bestie in un modo stranamente ostile.

Trovai Montgomery molto discreto circa il suo scopo e rispetto alla sua destinazione e, benché mi sentissi pungere da una crescente curiosità, non gli feci domanda.

Rimanemmo a chiacchierare sul cassero finché il cielo non fu ricoperto di stelle. Tranne qualche rumore sul castello di prua tutto rischiarato di luce gialla, e a quando a quando i movimenti degli animali, tutto intorno a noi era calma. Il puma giaceva accoccolato su se stesso, guardandoci con occhi splendenti. I cani parevano addormentati. Montgomery estrasse alcuni sigari.

Mi parlò di Londra in un tono di rimpianto, facendo ogni sorta di domande sui cambiamenti che vi si erano operati. Parlava come un uomo che aveva condotto là una buona esistenza, e che ne era stato strappato d’improvviso e irrevocabilmente.

Io chiacchierai meglio che potei di cose varie. Per tutto quel tempo la stranezza di lui occupò la mia mente e mentre parlavo, spiavo il suo bizzarro viso pallido alla luce fosca della lanterna della bussola. Mossi lo sguardo verso il mare oscurantesi. La sua piccola isola era celata fra la foschia.

Mi pareva che quest’uomo fosse uscito dall’immensità solo per salvare la mia vita. Domani sarebbe calato giù dalla nave e sarebbe di nuovo sparito dalla mia esistenza.

Anche in circostanze meno strane la cosa mi avrebbe dato da pensare, ma inoltre c’era la singolarità di un uomo vivente su di un isolotto sconosciuto, e ancora, la natura straordinaria del bagaglio. Mi trovai a ripetere la domanda del capitano: Che ne avrebbe fatto delle bestie? E perché quando dapprima avevo fatto qualche osservazione che le riguardava aveva detto che non erano sue? E poi quel suo assistente personale era un individuo bizzarro che mi aveva fatto profonda impressione.

Queste circostanze, che gittavano un velo di mistero attorno all’uomo, si impadronirono della mia fantasia e m’ingarbugliarono la lingua.

Verso mezzanotte la nostra conversazione su Londra si spense, e noi rimanemmo fianco a fianco poggiati al parapetto, fissando trasognati il mare silenzioso rischiarato dalle stelle, ognuno di noi seguendo il corso dei propri pensieri.

L’atmosfera invitava al sentimento ed io incominciai con l’esternargli la mia gratitudine.

— Permettetemi di ringraziarvi – dissi dopo un po’ di tempo. – mi avete salvato la vita.

— Il caso – egli rispose – non altro che il caso.

— Preferisco essere riconoscente al suo strumento.

— Non ringraziate alcuno. Voi avevate bisogno di soccorso, e io vi ho fatto delle iniezioni e vi ho nutrito. Ero annoiato e desideravo qualche novità. Se quel giorno fossi stato seccato o non mi fosse piaciuto il vostro viso, non so dove sareste ora.

Queste parole calmarono un po’ le mie simpatie.

— A ogni modo…. – cominciai.

— È il caso, ve lo dico io, – m’interruppe, – come è il caso ogni cosa nella vita dell’uomo. Soltanto gli asini non vogliono capirla. Perché sono qua io ora, bandito dalla civiltà, invece di essere un uomo felice e gustare tutti i piaceri di Londra? Semplicemente perché, undici anni fa, in una notte di nebbia io perdetti la testa per dieci minuti. – S’arrestò.

— Ebbene? – interrogai.

— È tutto! –

Ripiombammo nel silenzio. Dopo un istante proruppe in una risata.

— V’è qualcosa in questa luce stellare che scioglie la lingua. So di essere un imbecille, eppure mi piacerebbe narrarvi una storia.

— Qualunque cosa mi diciate, potete fare assegnamento sulla mia discrezione… se tutto dipende da ciò.

Egli fu lì lì per cominciare, ma poi scosse la testa dubbioso.

— Tacete, – gli dissi – dopo tutto è meglio che conserviate il vostro segreto. Per me è la stessa cosa. Voi non guadagnereste che un po’ di sollievo.

Egli brontolò indeciso. Sentii che lo avevo conquistato, che l’avevo sorpreso in vena di indiscrezione: ma per dire il vero, non ero punto curioso di sapere il motivo che aveva spinto fuori di Londra un giovane studente di medicina. Diedi un’alzata di spalle e gli voltai la schiena.

Sovra il parapetto di poppa stava appoggiata una figura nera silenziosa che mirava le stelle. Era lo strano domestico di Montgomery. Ai miei movimenti guardò rapidamente indietro, poi volse di nuovo gli occhi.

Forse a voi potrà sembrare una cosa insignificante, ma a me fece impressione.

L’unica luce a bordo era una lanterna presso la ruota del timone.

Il volto di quella creatura uscì per un breve istante dalla tenebra di poppa verso quella luce ed io vidi gli occhi che mi guardavano risplendere di un pallido chiarore verde. Allora io non sapevo che lo splendore rossiccio non è straordinario negli occhi umani. Quel riflesso verde mi parve addirittura fuor dell’umano.

La figura nera, coi suoi occhi di fuoco, mise sossopra tutti i miei pensieri e sentimenti di adulto, e per un momento gli orrori dimenticati della fanciullezza risorsero nella mia mente. Poi tutto passò come era venuto. Non vidi che una figura bizzarra nera di uomo, una figura di niuna importanza speciale, che si protendeva sovra il parapetto, contro la luce stellare, e udii la voce di Montgomery.

— Penso che si potrebbe entrare.

Risposi evasivamente. Scendemmo di sotto e, presso l’uscio della mia cabina, egli mi augurò la buona notte.

Quella notte la luna si alzò tardi. La sua luce saettava un debole raggio bianco spettrale traverso la cabina, creando un’ombra sinistra sul pavimento presso il mio giaciglio. Poi si destarono i mastini e cominciarono a ululare e a latrare. Ebbi incubi bizzarri e non pigliai sonno se non all’annunciarsi dell’alba.

 

TITOLO: L’isola del Dottor Moreau
AUTORE: Herbert George Wells
TRADUTTORE: Arturo Bagnoli
NOTE: si ringrazia la Biblioteca Comunale Teresiana di Mantova per la disponibilità dimostrata fornendoci generosamente le scansioni dell’originale.
CODICE ISBN E-BOOK: 9788828102687
DIRITTI D’AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

Copertina tratta da Pagina Tre, che ringraziamo.

 

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nacque a Bromley il 21 settembre 1866, morto a Londra, 13 agosto 1946, è stato uno scrittore britannico tra i più popolari della sua epoca. Autore di alcune delle opere fondamentali della fantascienza, è ricordato come uno degli iniziatori di tale genere narrativo, grazie alle sue opere, Wells è stato definito come un "padre della fantascienza", insieme a Jules Verne e Hugo Gernsback.