Philip Kindred Dick è considerato pressoché unanimemente tra i più rilevanti scrittori non solo nel campo specialistico della fantascienza, ma anche nell’ambito della letteratura “nobile” americana (mainstream). Il suo stile inconfondibile, asciutto e concreto, ne fanno uno dei pochi autori di fantascienza capaci di raggiungere elevati standard espressivi. Va indicato a suo merito di aver scritto romanzi di fantascienza che hanno sfuggito la gabbia del ghetto, diventando popolari anche presso i lettori non legati al genere.Per essere più chiari, definiamo Dick un autore”bifronte”che, cioé scrive fantascienza secondo  i moduli espressivi propri del mainstream e, d’altra parte, innesta tematiche  appartenenti alla fantascienza sui canoni formali del mainstream.

Egli seppe operare una perfetta simbiosi tra sofisticate riflessioni filosofiche e gli stilemi canonici della narrativa popolare.

Sottovalutato in vita, fu riscoperto dopo la morte grazie anche ai film tratti dalle sue opere, come il celebre Blade Runner di Ridley Scott. Vinse il prestigioso Premio Hugo nel 1963 con La svastica sul sole.

Nato a Chicago nel 1928, vivrà quasi sempre in California la sua esistenza inquieta e tormentata; studia all’Università di Berkeley in California, lavora saltuariamente finché si dedica completamente all’attività di scrittore pubblicando dal 1952 alla morte (1982) più di trenta romanzi (non tutti di fantascienza) e innumerevoli racconti.

L’interesse precipuo di Dick si indirizza verso una questione ontologica (“esiste il principio della vera realtà?”) e gnoseologica (“se sì, come possiamo conoscerla”?). Il pensiero dello scrittore è tristemente consapevole che la realtà si sfrangia in mille rivoli diventando inafferrabile ed evanescente, in continua trasformazione/frammentazione, I personaggi di Dick si muovono come levitando nel nulla, senza punti d’appoggio né un punto di gravità permanente, per dirla alla Battiato. C’è in lui una tensione permanente a togliere il diaframma che ci nasconde la vera natura del fenomenico, a rivelare l’inganno dell’apparenza/illusione, A differenza di Parmenide, che propugna l’esistenza necessaria e stabile dell’Essere (“L’Essere è e non può non essere”), Dick non riesce a relazionarsi con esso, perché fallisce nella ricerca del Principio costitutivo del reale (in greco Arké) che in lui si configura come permanente divenire, inarrestabile metamorfosi delle cose, come disse Eraclito di Efeso: “tutte le cose mutano”.

Una conoscenza oggettiva della natura gli appare irrealizzabile, mentre esistono tante conoscenze soggettive, di verità individuali, non omologabili in un disegno unitario, appunto ontologico. Né possono aiutare le esperienze di percezione delle cose indotte dagli stupefacenti, (di cui Dick non fece mai uso, mentre usò e abusò delle anfetamine), esperienze che, lungi dal permettere una visione più vera delle cose acuiscono il dramma della dissociazione mentale e della schizofrenia

Gli innumerevoli personaggi di Dick sono atomi che vivono nelle loro oasi esistenziale, il tutto all’interno di un reticolo labirintico e inestricabile. Si può far risalire il suo pensiero ad un tipo di Idealismo che vede nell’individuo pensante e creativo l’unica fonte del reale, che ne esce però come caos, proprio perché rappresentazione di sé. A questo riguardo sarebbe forse proficuo riprendere certe tematiche pirandelliane, come la maschera, l’incomunicabilità, l’alienazione.

Credo che possano bastare questi brevi accenni per comprendere la profondità e l’acutezza non scevra di pietas con cui Dick indaga sulla realtà tramite la sua narrativa, che resta nello stesso tempo una vibrante    testimonianza della crisi dell’uomo di oggi e un’ulteriore conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, di come la fantascienza possieda tutti gli strumenti per essere una lettura stimolante, provocatoria, pungente.