Processo alla fantascienza

Nel n. 31 di “Continuum” ho pubblicato l’articolo Processo alla fantascienza, nato – credo – in maniera abbastanza casuale, quando mi è capitato di trovarmi sotto gli occhi con sorprendente simultaneità (si sarà trattato di serendipità o di coincidenze significative nel senso che Karl Gustav Jung dava a quest’espressione) una serie di scritti riportanti critiche al nostro genere, opera di critici, divulgatori scientifici, scienziati.

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Mi colpì soprattutto che la maggior parte delle critiche alla fantascienza, e relative dichiarazioni di morte del nostro genere (stilate le quali, ha poi regolarmente proseguito, dimostrando una salute ragionevolmente buona) erano in genere venute dall’ambiente letterario e/o da parte di autori “nati” nel “ghetto” fantascientifico.

In tutti i modi si erano ingegnati per uscirne, convinti di poter accedere ad un pubblico più esteso, per poi rientrare più o meno scornati, sapendo di poter contare su una platea forse non così vasta, ma almeno interessata e fedele.

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La critica di questo genere, normalmente “lascia il tempo che ha trova”, ma quelle raccolte nel mio dossier –  scarsamente considerate nell’ambiente fantascientifico – erano addirittura opposte.

Trattavo infatti della fantascienza, qualcosa che di solito si preferisce non sollevare, la sua semplice o scientifica plausibilità, e se ci pensiamo bene, proprio questa è l’obiezione più importante al nostro genere che viene sollevata da coloro che di lei non si interessano.

Vittorio Catani

Vittorio Catani

Vittorio Catani

Io mi aspettavo che l’uscita del mio articolo su “Continuum” avrebbe destato se non proprio un vespaio, perlomeno un dibattito alquanto acceso; invece nulla, tranne la lodevole eccezione di Vittorio Catani!

A quanto pare, gli appassionati di fantascienza sono abbastanza solipsisti da infischiarsene di quel che il resto dell’universo pensa di loro e delle personali passioni letterarie.

Non tutti i capi d’accusa hanno la medesima consistenza o serietà; certamente, ad esempio John Kessel che è un autore di fantascienza (pentito?) ha una buona parte di ragione quando accusa il nostro genere di un atteggiamento talvolta semplicistico e poco realistico:

“Uno scienziato cui venne chiesto perché leggeva fantascienza, rispose: “Perché in quel genere narrativo, sicuramente, gli esperimenti funzionano sempre”.

Le cose filano sempre più lisce di quanto accada in realtà. Niente è impossibile. Le navicelle spaziali viaggiano più veloci della luce. Le armi atomiche vengono neutralizzate. Le malattie sconfitte. La gente viaggia nel tempo.

Che diamine, Isaac Asimov una volta scrisse un racconto che terminava dimostrando l’irreversibilità dell’entropia”.

Ma poco dopo cade in una grossolana esagerazione paragonando l’effetto della fantascienza a quello della cocaina. Andiamo, ben altre sono le droghe, anche mediatiche, con cui si stordiscono i nostri contemporanei in fuga dalla realtà.

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In questo articolo mi sono limitato a riportare le accuse contro la fantascienza come erano elencate nei testi citati senza intervenire con il mio personale pensiero, ritenendo che fosse più utile per il lettore rifletterci, trovando le ragioni per controbatterle, salvo il punto sollevato da Kessel dove mi è sembrato opportuno riportare un importante distinguo

“Per esempio”, scrive ancora Kessel, “Se iniziate a leggere una storia di fantascienza sull’abuso di qualche debole e indifeso, potete essere assolutamente sicuri che al capitolo due il protagonista scopre di possedere poteri segreti inaccessibili ai suoi tormentatori, e prima della fine del libro salverà l’universo”.

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La mania superomistica è un vizio molto diffuso nella fantascienza americana, ma la nostra SF ne è fortunatamente esente; al contrario, direi che essa, nei suoi esempi migliori,  è pienamente consapevole della piccolezza dell’individuo nei confronti dell’universo, ma anche di quell’altro costituito dalla massa dei suoi simili e dalla complessità delle relazioni sociali.

Nei suoi esempi più riusciti è una fantascienza umanistica nel senso migliore della parola, laddove quella americana è superomistica.

Mi assumo in pieno la responsabilità della mia affermazione, ma ritengo che Lino Aldani, Renato Pestriniero e Vittorio Catani non abbiano nulla da invidiare ai più conclamati autori d’oltreoceano, e potrebbero insegnare loro diverse cose.

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Ma quali sono gli elementi nuovi che giustificano la riapertura del procedimento?

Abbiamo per prima cosa un nuovo testimone per l’accusa, il noto divulgatore scientifico Stephen Jay Gould, che mette l’accento sulla scarsa plausibilità del cinema di fantascienza:

“Gli autori dei film dell’orrore e di fantascienza sembrano poco propensi a tener conto del rapporto tra forma e dimensioni. Questi “diffusori dell’impossibile” non riescono a liberarsi dei pregiudizi che derivano dalla loro percezione della realtà.

I piccoli uomini del Dottor ciclope, La moglie di Frankenstein, Radiazioni BX distruzione uomo e Viaggio allucinante si comportano proprio come le loro copie di dimensioni normali; precipitano dalle rocce o sul pavimento con forti tonfi, brandiscono le armi e nuotano con agilità olimpionica.

Gli innumerevoli grandi insetti dei film continuano a camminare sui muri o a volare anche se hanno le dimensioni dei dinosauri”.

Di tutti i capi di imputazione, quello riguardante la fantascienza cinematografica è in ogni caso il meno preoccupante: a parte gli effetti speciali diventati tecnologicamente sempre più raffinati e costosi e l’odierno dominio incontrastato della computer graphic.

Diciamo pure che sul piano delle idee la fantascienza cinematografica è quanto meno una generazione o due indietro rispetto a quella letteraria, e anche questa non è, probabilmente, una regola fissa.

Per esempio, all’indomani dell’uscita sugli schermi di Avatar, il kolossal fantascientifico di James Cameron, su “Wolfstep”, uno dei siti italiani più seguiti della Rete, “Uriel”, il curatore, ha scritto:

In Avatar si parla proprio di sinapsi, e se non sai cosa siano, non sai davvero come funzioni il pianeta Pandora. Il loro Dio sono degli “alberi connessi” e si dice che siano in quantità di dieci alla dodicesima. Come se niente fosse!

Se tu “sei negato per la matematica,” non hai nessun elemento per capire che quello è il numero dei neuroni del tuo cervello e quindi non capisci che cosa sia la divinità locale. Insomma, è di quel tipo di fantascienza che appassiona chi considera la fantascienza una letteratura fantastica che parla di scienza, o una letteratura fantastica qualsiasi purché ci sia qualcosa di poco realistico.

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Ma “Uriel” non è il solo testimone che possiamo citare a giustificazione.

Come vi ho anticipato, sono rimasto francamente sorpreso del fatto che il dossier messo insieme nel mio “processo” abbia suscitato la reazione del solo Vittorio Catani, anche se si tratta di una delle voci più autorevoli della nostra fantascienza!

Dopo il suo ultimo, splendido romanzo, Il quinto principio, ha dimostrato di non avere proprio nulla da invidiare ai ben più conclamati (e remunerati) autori americani.

Motivazioni

Ecco la sua replica:

“Le motivazioni addotte dai vari critici esprimono secondo me qualche verità, ma nel complesso non li condivido. Ho l’impressione che nello scrivere e pensare quei concetti, si siano troppo concentrati sulla sola SF ed abbiano evitato paragoni diretti.

Mi spiego solo con tre esempi: rispondere articolatamente a tutti i concetti da te espressi, va al di là delle mie attuali intenzioni e prederebbe molto spazio.

  • PRIMO: scrivono che la vera SF, per essere coerente quando parla di mondi a venire, non è razionale (scientifica) perché tra 1000 anni o anche solo 200 il nostro linguaggio sarà mutato e non più quello di oggi e anche i pensieri saranno diversi e i nostri sentimenti e le nostre capacità cognitive etc…

Risposta: è vero, ma qui si scopre l’acqua calda. Anzitutto, questa riflessione non è nuovissima e l’avevo pensata anche io mille anni fa, e forse anche tu e tanti altri.

Ciò dimostra però solo una cosa: che la SF ci parla del nostro presente. Cioè di come agiremmo noi se “oggi” il mondo fosse quello descritto nella narrazione. Questa è una perdita di “scienza” e aumento di “fanta”?

Può darsi. Ma è anche la dimostrazione (se ce ne fosse bisogno) che la SF ci parla soprattutto del nostro presente e di noi stessi “oggi”, né può fare altro.

Inoltre è un “gioco” che viene ben assimilato dal lettore. Ovvero: non infastidisce.

Magari un giorno scriverò un racconto in cui parlo come un uomo del 3000, pur non facendo capire che cavolo dico o faccio, il lettore comprende egualmente… Che ne dici?

E non dimentichiamo le moltissime storie SF che si svolgono in un futuro prossimo, simile ad una sorta di “presente allargato” (come si diceva negli anni ’70): insomma la SF inserita nella nostra vita quotidiana. Potrei citare numerosissimi e validi esempi.

Una bella fetta dell’intera SF in questo caso non vale ciò che lamentano i nostri critici.

  • SECONDO: Loro dimenticano un fatto evidente: la “momentanea sospensione della credulità” a ben guardare non è un fenomeno attinente alla sola SF ma, sia pure in forme più attenuate, direi all’intera letteratura. Persino al mainstream ché se davvero ricopiasse fedelmente il reale, nessuno leggerebbe libri.

Il reale lo conosciamo tutti e ce l’abbiamo nella mente e sulla nostra pelle e – salvo rare eccezioni – non è affatto romanzesco: è pedante, ripetitivo, monotono, mediocre, a  volte nauseante, e alla fine sempre amaro e tragico.

Se c’è qualche eccezione, ovvero se qualcuno ha momenti di vita fuori da questi binari, si dice appunto che quel tipo ha avuto una vita “romanzesca”.

I romanzi, anche quelli maistream, per “reggere” devono narrare una storia insolita, interessante, possibilmente avventurosa, “nuova”, eclatante, travolgente, che non ti lascia tregua, che ti stordisce, altrimenti il lettore chiude il libro alla prima pagina.

Ma vite insolite e interessanti come queste sono nella realtà pochissime, e guarda caso sono proprio quelle, vere o inventate, che possono diventare un romanzo.

  • TERZO: è vero che molta SF ripete sempre gli stessi schemi, che poi sarebbero quelli archetipici ben noti: ma non tutta la SF è così, per fortuna. Penso ad autori come Harlan Ellison, Barry Malzberg, Fredric Brown, e tanti altri.

Penso anche a quelle storie di SF nel “presente allargato” o quasi, che svolgono temi non necessariamente avventurosi, epici, catastrofici. Certo, scavando fino in fondo, anche qui possono emergere archetipi: ma a questo punto possiamo dire che sono inevitabili.

Di che si lamentano dunque costoro?

Gli schemi che conosciamo e che la nostra mente può contenere sono proprio quelli: quando le nostre menti saranno in qualche modo “ampliate”, concepiremo forse anche altri archetipi.  Ma questa è SF… o no?

  • QUARTO: Se un romanzo è ben scritto, il lettore sorvola le migliori corbellerie e anzi ne gode, si tratti o no di SF… e al diavolo le classificazioni”.

Sicuramente nelle argomentazioni difensive del buon Vittorio c’è molto di vero, e non si può rimproverare alla fantascienza di non essere realistica, come talvolta certi critici sembrano fare, visto che non lo è per definizione.

Il realismo del mainstream non è affatto tale, altrimenti non ci sarebbe finzione narrativa ma solo un’apparenza di realismo per cui qualcuno ha proposto molto opportunamente la definizione di narrativa mimetica.

Forse Vittorio sottovaluta le contraddizioni insite nella fantascienza.

Esiste la SF di chi vorrebbe farne in qualche modo uno strumento adatto a farci intuire quel che potrebbe avvenire, nel bene o nel male, nel nostro futuro, e quella di chi vede o vuol soltanto vedere il lato avventuroso, indifferente al fatto che non è questa la direzione nella quale ci stiamo muovendo, così come il Marte rivelatoci dalle ricerche degli ultimi decenni, non ha nulla a che spartire con quello immaginato da Edgar Rice Burroughs.

Non si tratterebbe di due livelli dello stesso genere, fantascienza di serie A o  B, ma letteralmente di due generi diversi anche se classificati sotto la stessa etichetta.

Perlomeno è ciò che ha sostenuto Renato Pestriniero in un articolo, Le nuove costellazioni, apparso anni fa su “Futuro Europa.”

Vorrei aggiungere una nota di personale soddisfazione per il fatto che il critico-scrittore veneziano ha usato il termine “costellazioni” nel senso di raggruppamenti apparenti di stelle così come si vedono dalla Terra. Quindi per indicare qualcosa di falso e non attendibile, prendendo spunto da un mio articolo, anch’esso apparso sulla rivista bolognese, La fantascienza fra scienza e magia:

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Per me le assurdità delle nuove costellazioni (nel senso, di riferimento fasullo, lasciando ovviamente inalterato l’eterno fascino immaginifico delle costellazioni vere che stanno in cielo), dovrebbe essere per la fantascienza moderna materiale di lavoro, di critica e di denuncia per eccellenza.

In altre parole, grazie alla peculiarità di assoluta libertà speculativa propria di questa corrente letteraria, dovrebbero costituire gli strumenti per arrivare all’obiettivo socio-letterario dell’attuale momento storico, e la fantascienza dovrebbe farsene carico.

Si dice che c’è crisi d’idee, ma basterebbe pescare nel oceano di notizie per trovare spunti adatti all’imbastitura di racconti e romanzi, e comunque adattissimi per impolpare idee già in progress con situazioni e atmosfere (…).

E la vecchia fantascienza, fatta di astronavi gigantesche, pianeti infidi e alieni imprevedibili?

Nessun problema, per chi la vuole essa è sempre là, viva e verde, disponibile a far sognare e a far passare un’ora di relax.

Dieci, cento, mille fantascienze; non esistono paletti, non esistono confini, a ognuno la fantascienza che si confà alla propria personalità e ai propri gusti (…)

Io direi di lasciar pure al marziano il suo bel colore verde pisello (…) non intendo distinzioni di serie A e di serie B, ma proprio due espressioni diverse di quell’unico prodotto, due modi di vedere e di parlare che si sono venuti a creare naturalmente: due linguaggi che hanno forgiato grammatiche e sintassi proprie”.

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Io temo che l’appassionato di fantascienza il più delle volte si distingua dal lettore comune, non tanto per una maggiore fantasia, quanto per una mancanza di senso della realtà.

La stessa cosa può valere per gli autori, anche se talvolta hanno fama di essere persone molto intelligenti: non sempre, e la cosa non è necessariamente connessa al loro lavoro come autori.

Il “buon dottore” Isaac Asimov (pace all’anima sua) era un uomo che aveva fama di essere particolarmente intelligente, di avere un QI addirittura superiore a 150 (anche se a pensarci bene temo che si trattasse soprattutto di una sua vanteria).

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Sicuramente era lui che avrebbe dovuto “masticarne” di futuro vista la sua vasta attività sia di scrittore di fantascienza, che di divulgatore scientifico.

Negli anni ’80 o ’90 in una delle tante edizioni della trasmissione di Piero Angela (Quark, o Superquark) apparve un’intervista con il “buon dottore” sul futuro che attendeva la nostra specie tra 100, 1000, 10.000 anni.

Sono sincero, attesi con ansia le sue parole.

Già all’epoca, se da un lato erano sensibili gli incrementi delle conoscenze e i miglioramenti delle tecniche, dall’altro ci confrontavamo con problemi sempre più imponenti di crisi energetica, esaurimento delle risorse, sovrappopolazione, distruzione degli habitat naturali.

Alla lunga, sarebbero prevalse le tendenze positive o quelle negative, o si sarebbero in qualche modo equilibrate? Che cosa ci attendeva e che cosa ci attende?

Sviluppo, stagnazione o regresso? Mi pare una domanda alla quale bisognerebbe cercare di rispondere con un minimo di serietà.

Stento a dirvi quanto fu cocente la mia delusione, sentendo uscire dalle labbra di cotanto maestro il più scontato catechismo progressista dell’era campbelliana.

Le tendenze negative e i problemi che già allora ci assillavano e il fatto assolutamente banale che non ci può essere sviluppo illimitato all’interno di un sistema limitato, erano cose che Isaac Asimov non vedeva o si rifiutava di vedere.

Di fatto abbiamo già toccato i limiti dello sviluppo consentitoci da questo pianeta e dalla sua disponibilità di risorse, ché quelle che potremmo, per ipotesi, attingere fuori da esso sono praticamente inaccessibili.

Si tratta di una constatazione banale, che tuttavia sembra risultare estremamente ardua per i cultori della fantascienza. Non solo per loro s’intende, ma da chi in generale continua ad essere affetto da un inossidabile mito progressista.

Tempo addietro avevo fatto circolare nell’ambiente fantascientifico, quella che ritengo più una constatazione che un’opinione: il concetto che, piaccia o no, il progresso è finito, ottenendo, ovviamente, più critiche sprezzanti e feroci invettive che pacate riflessioni.

Nel catalogo dell’edizione 2011 di ScienceplusFiction, il festival triestino del cinema di fantascienza, c’è un articolo dello scrittore Tullio Avoledo, che era ospite alla manifestazione, ispirato – inutile dirlo – alla più scontata vulgata progressista.

Nel mio articolo apparso su “Continuum” che ho dedicato alla manifestazione, Fanta e scienza, mi sono permesso di replicare.

Mi aspettavo che il mio scritto destasse una qualche eco. Pare invece che sia ancora una volta caduto nel vuoto.

Riporto qui lo stralcio, non per il gusto dell’autocitazione, ma per richiamare l’attenzione su problemi che mi sembrano vitali per tutti noi.


“La sensazione che si ha, è che la fantascienza stia languendo proprio perché si sta esaurendo “il combustibile nella caldaia”.

La fantascienza dovrebbe basarsi su previsioni più o meno attendibili anche se basate su di un certo grado di plausibilità sul nostro futuro, e ha avuto il suo maggiore sviluppo in relazione ai temi dell’esplorazione spaziale.

Quest’ultima in realtà sta segnando miseramente il passo, e non sembra molto credibile una sua ripresa futura.

Lo sviluppo delle nostre conoscenze non ha reso credibili i sogni di un secolo o anche solo di mezzo secolo fa.

Noi oggi sappiamo che nessuno dei pianeti del sistema solare, tranne la nostra Terra, ospita la vita, né presenta condizioni adatte alla vita umana o tali che l’uomo vi possa soggiornare senza complicate protezioni e nemmeno risorse il cui sfruttamento non sia reso antieconomico dalla difficoltà e dalla distanza.

Fuori dal sistema solare c’è un abisso di nulla che non può essere superato per approdare a nuovi soli e nuovi mondi nei tempi di una vita umana.

Non solo non abbiamo raggiunto altri pianeti, ma non siamo nemmeno tornati sulla Luna dopo le missioni Apollo. Ultimamente sono andate in pensione le ormai vetuste shuttle, e non si sa nemmeno se qualcosa le sostituirà.

Fino agli anni ’50 e ’60 si immaginava la conquista dello spazio in maniera molto simile alla conquista del West; oggi sappiamo che ciò è ben lontano dalla realtà.

Tuttavia si trattasse solo di questo, saremmo ancora fortunati.

Se immaginassimo di poter fare un balzo temporale indietro di mezzo secolo e di raccontare a padri e nonni la situazione del nostro tempo, penso che la reazione più probabile  sarebbe di incredulità per quanto poco siamo progrediti rispetto alle attese di cinquant’anni fa.

Non solo l’esplorazione spaziale langue, ma non abbiamo trovato una cura risolutiva contro il cancro e si è aggiunta ai mali del passato una nuova malattia come l’AIDS.

L’energia continua ad essere cara come e più del passato e le fonti alternative non sono decollate. Le città seguitano ad essere affollate e inquinate.

L’ambiente è sempre più devastato e sommerso dai rifiuti, le specie naturali sono minacciate, ma la vera tragedia sono le condizioni miserabili in cui versa il cosiddetto sud del mondo.

Se potessimo raccontare ai nostri padri o nonni che a più di un decennio dal “fatidico” anno duemila, migliaia di bambini avrebbero continuato a morire ogni anno di malnutrizione o per malattie facilmente curabili.

Che una parte dell’umanità, non solo non si riduce ma appare continuamente in crescita e non avrà  accesso a risorse fondamentali come il cibo o l’acqua, e guerre e tirannidi avrebbero continuato ad accompagnare la nostra storia, le reazioni sarebbero d’incredulità crescente.

È un discorso, ne sono sicuro, che riuscirà ostico ai più.

La maggior parte degli appassionati di fantascienza, in tutta onestà e (sperando di non riuscire traumatico o blasfemo per nessuno) mi sembra ancorata a un’idea anacronistica e non realistica di progresso, un esempio in questo senso mi pare sia proprio un articoletto di Tullio Avoledo, lo scrittore friulano che è stato ospite nonché membro della giuria di quest’edizione, del quale riporto uno stralcio:

“La fantascienza è entrata nel nostro quotidiano. Le cronache di economia e di politica del 2011 sembrano uscite dalla penna di Ron Goulart.

Certi smartphone farebbero impallidire qualsiasi gadget di Buck Rogers.

Sui giornali appaiono normalmente parole e concetti come clonazione, droni, mondi alternativi, pianeti abitabili fuori dal sistema solare, computer quantici, superneutrini che viaggiano lungo un tunnel di 700 km tra la Svizzera e il Gran Sasso”.

Certo, se potessimo veramente credere che il nostro mondo sia sul punto di trasformarsi in qualcosa di simile a quello di Buck Rogers o di Star Trek, non c’è dubbio che vivremmo meglio.

C’è da chiedersi se i super smartphone e gli esperimenti con le particelle elementari procurati da acceleratori costosissimi non siano gli ultimi guizzi di lusso concesso ad un nucleo ancora privilegiato della nostra specie, mentre il resto di essa si va sempre più scontrando con la penuria di risorse.

Infatti Avoledo che può non avere ragione in questo caso, ma è fuori di dubbio un uomo intelligente, poche righe più sotto si domanda come mai negli anni ’70 quando si viaggiava sulle FIAT 124 si scriveva di viaggi interplanetari, mentre un quarantennio più avanti nel futuro la fantascienza ha molta minore stima e visibilità.

La verità che abbiamo voluto ignorare è molto semplice, ovvia.

Il mito di un progresso illimitato si deve necessariamente infrangere contro i limiti fisici ed ecologici di un sistema chiuso quale è il nostro pianeta; eppure l’aveva già chiaramente spiegato nel 1970 il Club di Roma nel saggio/rapporto I limiti dello sviluppo.

Tutte le generazioni che ci hanno preceduti approssimativamente dalla fine del XVIII secolo ai nostri padri, hanno avuto la fondata speranza che i loro figli avrebbero avuto una vita migliore di quella dei propri genitori.

Noi oggi questa speranza non la possiamo più avere, anzi è del tutto verosimile che l’avvenire sarà più difficile e problematico del presente.

In queste condizioni, come potrebbe la fantascienza, sia quella cinematografica sia che quella letteraria, non essere in crisi?”.

La domanda che viene spontanea è se la fantascienza può sopravvivere facendo a meno del mito del progresso.

Ma la questione vera ed importante, è un’altra: esiterà una via d’uscita per la nostra specie?

Forse la fantascienza con il suo “sguardo lungo” sul futuro, una fantascienza – temo – fortemente distopica, può aiutare ad avere consapevolezza dei problemi.

Di sicuro, nascondere la testa nella sabbia non è mai stata una buona politica.