Tutta colpa di Rubens

[singlepic id=290 w=320 h=427 float=left]Studiai con attenzione l’articolo che mi era stato segnalato da Furio, il mio migliore amico terrestre, musicista di grande sensibilità, insuperabile al corno inglese. Come aveva fatto un alieno di cultura come me, per giunta medico, laureato in due pianeti diversi, con un master galattico in psichiatria gravitazionale, a vivere nell’ignoranza fino ad allora?

Scoprivo, infatti, solo in quel momento, a 35 anni sonati, dopo due lustri in incognito sul pianeta azzurro, che oltre alla nota sindrome di Stendhal esisteva anche quella di Rubens. Si trattava di una sorta di estasi dei sensi di fronte alla bellezza di opere d’arte. Una “patologia erotizzante” – così era definita nell’articolo – che spingeva le vittime a consumare l’atto carnale sul posto, nei corridoi di rinomati musei, in confessionali di luoghi di culto finemente affrescati, negli sgabuzzini di gallerie d’arte moderna…

I sondaggi rilevavano come i casi di consumazione in loco fossero più frequenti e numerosi in presenza di opere di tale artista. Da qui il nome della sindrome.

Ripensai alle mie esperienze con gli umani, ma soprattutto con le umane. Due anni prima ero stato all’Acquario di Genova e una signora mi aveva sfiorato una coscia davanti alla vasca delle foche, ma certamente l’episodio non si poteva attribuire alla sindrome di Rubens.

E di certo non mi sarei lasciato sopraffare io da raptus simili, andando a visitare la mostra dedicata a Van Gogh, insieme alla mia fidanzata Marta. Lo so, era stato imprudente innamorarmi di una terrestre, anche perché mi sarei potuto tradire, facendomi scoprire, rivelandomi nella mia natura aliena. Inizialmente pensavo di fermarmi solo il minimo indispensabile nello strano mondo d’acqua salata, solo quanto bastava per portare a termine la mia ricerca di antropologia primitiva dei pianeti arretrati, ma poi mi era sembrato tutto così meravigliosamente caotico e perciò ricco di potenzialità che mi ero fermato.

Infine era arrivata lei: Marta. C’era qualcosa di candido e schietto nello sguardo di quella ragazza, qualcosa di particolare nei suoi angelici occhi azzurri come il paradiso. Qualcosa che mi attraeva come il bene attira le anime assetate di bontà. Lei era il bene. Lei era la bontà.

Era così bella, senza imperfezioni, senza esagerazioni, senza nulla fuori posto. Una ragazza così speciale da volersi donare a me solo dopo le nozze. Avevo subito capito che aspettare sarebbe stato un sacrificio, ma ne valeva la pena.


La mostra andava al di là delle mie aspettative. Il verde dei cipressi di Van Gogh che si stagliava sui gialli dei campi di grano richiamava alla mia mente immagini ogivali svettanti verso l’estasi del paradiso. Che fosse un principio di sindrome?

Con la coda dell’occhio sbirciavo la mia fata e mi parve di intravedere un fremito sulle sue labbra, un lampo di desiderio nel suo sguardo innocente. Mi sentii in colpa.


Fu davanti ad un ulivo rappresentato con tutto il genio della creatività di Van Gogh, che incontrammo il mio amico Furio. Gli presentai Marta e notai come le guance della mia amata si tingessero di rosa mentre gli stringeva la mano. Era davvero una ragazza timida e pudica, come solo le terrestri veraci sanno essere. Furio ci spiegò che dopo la mostra di Van Gogh, il museo aveva in programma di organizzarne una di Rubens. Così dicendo, mi fece l’occhiolino con un cenno verso la mia Marta, ignara di tale spregiudicata malizia. Provai un forte senso di rimorso, di disagio, e salutai frettolosamente il mio amico. Cosa credeva Furio? Io avrei aspettato. Avrei atteso tutto il tempo che le sarebbe servito.

Prima di uscire dal museo, Marta si assentò per andare in bagno.

Io mi soffermai ancora un momento davanti ad un autoritratto di Van Gogh, mentre dentro di me la sindrome di Rubens andava placandosi.

Ne ebbi la certezza: amavo Marta. L’avrei sposata.

Dopo un quarto d’ora che l’attendevo all’uscita del museo, cominciai a preoccuparmi.

Mi misi a cercarla per i corridoi. Non vedendola, mi ricordai di avere il cellulare e la chiamai. Udii la sua inconfondibile suoneria – un canto di cardellino – provenire da dietro alla porta alla mia destra. Sembrava un’uscita di sicurezza. Io non so perché chiamino quel coso “maniglione antipanico”… fatto sta che lo spinsi e qualcosa di molto peggio del panico m’invase.

La porta dava su un angusto pianerottolo. Seduta sul corrimano delle scale di sicurezza c’era Marta, rossa in viso, con due occhi come girasoli, discinta e scapigliata come un olivo, con le gambe ondeggianti come spighe di grano al vento, attorno ai fianchi di Furio e al suo cipresso. Perduti in chissà quali visioni pittoriche, non si accorsero nemmeno di me.

Chiusi la porta.


Tachicardia, vertigini, capogiro, confusione… Mi portarono via con l’ambulanza: sentivo i volontari della Croce Verde dire: «Il tipico malore da sindrome di Stendhal!».

Ma quale Stendhal? «Non c’entra Stendhal! Rubens… è tutta colpa di Rubens», farfugliavo con un fil di voce.


Cosa mi tratteneva sulla Terra ora che Marta aveva trovato il suo cipresso altrove?

Decisi di accettare il posto di direttore medico-scientifico nella base sul Pianeta n° 55.737. Un luogo disabitato ancora senza nome, nella galassia parallela alla Via Lattea, un mondo che non ospitava neanche un’opera d’arte: solo scienziati, ingegneri, medici e tecnici, nemmeno l’ombra di un pittore o di un scultore, né tantomeno di un maestro di corno inglese!

Al mio risveglio dall’ipersonno mi trovai in una base incredibile. Me la figuravo simile ad una gigantesca astronave costruita sulla terra ferma, un incrocio fra l’Enterprise e la Morte Nera. Invece era formata da casette sugli alberi, in mezzo a una foresta in riva al mare.

I pionieri del nuovo pianeta l’avevano trovato talmente perfetto che non se l’erano sentita di modificarlo.

«Vede, dottore – mi spiegò l’ingegnere-capo, che era una ragazza di eccellente carisma – questo mondo è un’opera d’arte!».

A quelle parole, «opera d’arte», sentii un brivido correre lungo la schiena e quasi mi mancò il respiro. Senza esitazione guardai negli occhi l’ingegnere e dichiarai con fermezza: «Ti voglio!».

Anna Laura Folena (2015)

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Chi sono:

Appassionato di fantascienza credo da sempre, ma scoperto di esserlo in quarta elementare quando mi hanno portato a vedere "La Guerra dei Mondi" di Byron Haskin: era il 1953 e avrei compiuto nove anni in quell'autunno.

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