(Salute a te, Utopia…: Heil Dir Utopia – aber auf unsere Art, tratto da Ein Dutzend H-Bomben, 1983)
Traduzione di Alessandro Fambrini

 

Dimmi, Van Damm, ti ricordi di quando le teste di cuoio fecero irruzione nella bettola affumicata in cui noi ci stavamo bevendo una birra, tutti sudati, e ci chiedevamo quanto tempo avevamo ancora prima che ci scoprissero e ci tagliassero la testa?

Erano là ancora prima che avessimo svuotato la metà dei nostri bicchieri e con i loro elmi pesanti in testa avevano un’aria maledettamente pericolosa. Non corsero rischi, le schegge della vetrina ci fischiarono alle orecchie e già l’intero locale era annebbiato. Ci spruzzarono in faccia chi sa quale porcheria chimica e le altre persone, che non avevano la fortuna di sedere in fondo come noi, strabuzzarono gli occhi alla ricerca di ossigeno che non c’era più, caddero a terra e tossendo sputarono fuori la vita.

Noi avemmo maggiore fortuna, Van Damm, dato che avevamo i bicchieri alle labbra e ci rivolgemmo un brindisi, certi di non avere più alcuna possibilità. Fu grazie al liquido di cui era piena la nostra bocca che resistemmo un po’ più a lungo all’attacco di gas.

Diamine, Van Damm, quando vedemmo la nube rosa innalzarsi intorno a noi e la gente che crepava, pensammo che saremmo crollati. Ma poi ci guardammo, saltammo sul tavolo, ci tuffammo attraverso la vetrina tra i frammenti di vetro colorato e via! Cademmo nei bidoni puzzolenti dei rifiuti del cortile interno, e le teste di cuoio impazzirono quando se ne accorsero. Ma stupidi com’erano non si aspettavano che ci fosse ancora una scintilla di vita in noi che ci animava e ci suggeriva che ormai era tempo di darsela a gambe.

E ce la facemmo, Van Damm, te lo ricordi? Strisciammo in mezzo alla spazzatura, ci stropicciamo via dalla faccia i viscidi rimasugli di cibo, svicolammo attraverso i cortili pieni di gatti miagolanti e di topi fischianti e in qualche modo fummo fuori dalla giungla di case. Nel parco cittadino, poi, ci infilammo tra i cespugli.

La luna splendeva quella notte, Van Damm, davvero, vecchio mio, ma non te ne ricorderai, perché in mezzo a tutte quelle scintillanti nubi chimiche non era più grande di una perla, e inoltre tu eri troppo sfatto per lasciarti impressionare dai fenomeni atmosferici. Quella sera, prima di rifugiarci nella bettola, avevamo stabilito di lasciare la Renania, non è vero? È probabile che ci saremmo trovati in balia delle teste di cuoio, se avessimo continuato a sbronzarci e avessimo sprecato così le nostre ultime forze. Ma l’arma chimica ci aveva messo paura. Non volevamo crepare a quel modo, con la lingua gonfia, gli occhi scoppiati, il naso sanguinante e schiuma dalla bocca. Perciò fuggimmo come frecce, Van Damm, e avemmo fortuna, anche se eravamo disarmati e nessuno avrebbe scommesso un soldo sulla nostra vita.

La Renania quella notte era in pieno sommovimento rivoluzionario. Le teste di cuoio davano la caccia a tutto ciò che si muoveva nel centro, e dappertutto ardevano grandi incendi. Noi ovviamente l’avevamo previsto, ma che saremmo giunti a quel punto credo che nessuno avrebbe potuto intuirlo.

Te lo ricordi, Van Damm, come attraversammo a guado i canali melmosi, un fazzoletto sporco sul naso, luridi e sudati, con l’odore di rifiuti marci sulla lingua? Alla fine siamo tornati a strisciare sulla terraferma, da qualche parte, in un angolo sicuro, dove erano ammucchiate carcasse di automobili e un rimorchio era seppellito a metà nel fango, anche se tu nel frattempo avevi sbattuto il muso per terra e mi avevi incitato ad andare avanti da solo. Ma non potevo fare uno scherzo simile a uno come te, Van Damm; non a te, con cui avevo condiviso anni di clandestinità e dal quale avevo ricevuto i migliori consigli per tirare avanti. Ne saremmo usciti insieme o saremmo affondati entrambi, mi dissi, e perciò ti caricai sulle spalle e ti trascinai sulla strada, da dove trovammo infine rifugio nella fabbrica semidiroccata di pneumatici.

Accidenti, Van Damm, non fu una di quelle notti che si vedono descritte sui libri per bambini. Ci facemmo strada in un mare di ratti fischianti, cercammo riparo al primo piano, dove le bestie non potevano arrivare, e ci rifugiammo lì… Tu sembravi un cadavere, Van Damm, e ti addormentasti subito. La tua faccia era bianca come la neve e il tuo naso affilato come un fuso. Ansimavi, ed io capii che di quella merda chimica avevi respirato più di quanto tu non volessi ammettere e di quanto potevi tollerare. Continuavi a trasalire nel sonno.

Io restai sveglio, perché ero troppo teso per dormire. Guardavo fuori attraverso un buco e vedevo le pattuglie che avanzavano con i carri armati sulle strade dissestate. Vedevo anche la luna che quella notte si era davvero impegnata a penetrare i tre volte dannati banchi di nubi e gettava un pallido bagliore sulla terra.

Le teste di cuoio per strada chiacchieravano. Si sentivano sicure di sé, in grande forma. Fuori faceva caldo e all’improvviso cominciai a sentirmi persino a mio agio. Non avevo idea che fossero già nell’edificio, Van Damm. Proprio quando cominciavo a pensare di farmi anch’io un sonnellino, se avessi voluto rivedere la luce del giorno (parlare del sole sarebbe stato, credo, blasfemo), scivolarono fuori dai loro nascondigli e ci furono addosso.

Si scagliarono contro di noi, Van Damm, te lo ricordi? Tu eri piuttosto lontano dalla finestra, ma li avrai sentiti anche tu. Ci trascinarono in strada, ci gettarono in un cellulare e ci portarono in quella cantina umida e fredda, in cui erano rinchiusi già molti altri che sembravano ombre di se stessi. Il nostro sogno era finito. Eravamo di nuovo presi negli ingranaggi.

Eh già, Van Damm, fu un brutto risveglio, il nostro, quando all’indomani ci portarono alla centrale per gli interrogatori, che prima si svolsero con gentilezza (“Ci serve un testimone, amico, e lei ha l’aria di uno che potrebbe diventarlo”), poi con minacce (“Be’, se non collabori, caro mio, io non posso garantirti niente”) e infine con una violenza tesa a cavarci fuori ciò che volevano sapere da noi.

Io ho tenuto duro, Van Damm, lo giuro su Dio; perché sapevo che non ci avrebbero dato alcuna possibilità se avessi parlato. Non so come ho fatto a sopravvivere a quella giornata, Van Damm, a tutto quello che mi hanno fatto, e agli intrugli che mi hanno fatto bere. In qualche modo ho resistito. Non so come, ma forse solo perché ho una pellaccia dura e non sono mai stato un chiacchierone.

Ti ricordi di quando ci hanno divisi, Van Damm? Quando entrarono nella nostra cella e noi pensammo che fosse arrivata la nostra ora, che ci avrebbero spezzato le ossa, una a una? Non è andata così per pura fortuna, Van Damm, diciamolo pure. Non puoi immaginare quello che mi fecero non appena tu fosti allontanato, ma io lo so, vecchio mio, e non potrò mai dimenticarlo.

Hanno i loro metodi, sai? Le ossa le rompono solo quando un subordinato di infimo rango cerca di fare di testa sua. Se ci sono degli ufficiali, Van Damm, le cose vanno diversamente. Non voglio parlarne perché fu troppo tremendo e non mi piace ricordare. Non dirò niente, Van Damm, non preoccuparti. Una cosa soltanto: era l’inferno. Persi i sensi una dozzina di volte, e poi un occhio. Non ho più denti, Van Damm. Me li hanno estratti uno a uno, capisci, anche se erano ancora buoni, come sai non avevo mai avuto bisogno di un’otturazione in vita mia.

Volevano sapere tutto da me, Van Damm: tutto quello che agli altri era costato la pelle. Volevano conoscere i nomi, i nascondigli, le armi che avevamo e chi ci riforniva di documenti, dov’erano i nostri depositi e le nostre stamperie, chi erano i nostri contatti nei commissariati e nei centri computer, chi ci finanziava, e così via. Chi ci finanziava!

Da morire dal ridere, Van Damm, se non fosse stato così spaventosamente di cattivo gusto. Si sono dati parecchio da fare, Van Damm, credimi. Più volte sono stato sul punto di farla finita e di dar loro quello che mi chiedevano – ma ogni volta che credevo di aver raggiunto i limiti della mia sopportazione mi venivano in mente coloro che il mio cedimento avrebbe consegnato alla forca. E dopo un po’ – era davvero buffo, non lo avrei mai ritenuto possibile – riuscivo a svenire a comando. Be’, sì, le teste di cuoio ci si sono messe davvero d’impegno.

Ti ricordi, Van Damm, come sono riuscito a fuggire dalla prigione? I giornali fecero dei titoloni sull’argomento. Io non presi parte all’azione, in ogni caso non ne sapevo niente. Un povero diavolo che hanno ammazzato poco dopo riuscì a strappar loro una pistola durante un interrogatorio e prelevò dalle celle qualche altro prigioniero. Io, per caso, ero tra i fortunati che fuggirono, Van Damm, e che superarono indenni la grandine di proiettili con i quali cercarono di fermarci. Eravamo poco più di una ventina, ma due o tre al massimo riuscirono a raggiungere il centro e a nascondersi tra le rovine. Ho vissuto come un ratto nei quartieri devastati, non avevo bisogno di mangiare molto. In carcere mi ero disabituato a farlo. Ero sobrio, mi accontentavo di poco, non avevo bisogno di aria aperta, neanche là da dove venivo ne avevo goduto in sovrabbondanza.

Quando alla fine risbucai fuori e mi feci strada fino a raggiungere gli altri, a poco a poco ripresi a camminare sulle mie gambe. Presi parte a diverse azioni spettacolari, Van Damm. Ne avrai certamente sentito parlare. Ti cercai e chiesi di te dappertutto, se sapevano dove fossi, che cosa ti avevano fatto, se eri ancora vivo e così via, ma nessuno seppe dirmi nulla. Gli altri furono piuttosto abbattuti dalla notizia che ti avevano preso, proprio te, l’uomo che aveva elaborato i migliori piani di attacco e ci aveva procurato le armi migliori.

Avevamo bisogno di te, Van Damm; non avevamo più provviste e nemmeno munizioni. E il tiro al piattello che avevano fatto poco prima, in quella che era stata la più grande razzia di tutti i tempi, quando erano avanzati spruzzando palmo a palmo quel gas maledetto, dimostrava che noi, senza i talenti di gente del tuo calibro, eravamo destinati al fallimento.

Stavamo ben nascosti. Le maschere antigas di cui avevamo bisogno per resistere agli attacchi delle teste di cuoio non funzionavano. Dovemmo ben presto rassegnarci all’idea di aver ricevuto del materiale difettoso. Tre settimane dopo la mia fuga ci attaccarono, Van Damm. Non risparmiarono uomini né materiali per stanarci. Sembrava che ne avessero le tasche piene, che volessero ridurci a brandelli una volta per tutte.

Quella notte le nubi chimiche oscurarono tutto fino al limite estremo. Non si vedevano più le stelle e le luci non funzionavano. Avevano staccato l’elettricità e arrivarono da ogni parte, assistiti da elicotteri armati. Capii subito che niente aveva più senso, che avrebbero vinto e noi avremmo perduto, e che ci avrebbero recitato il rosario dei nostri diritti.

Ci diedero la caccia nelle strade come conigli. Abbatterono anche coloro che gettavano via le armi, gemendo, perché il novanta per cento delle nostre munizioni si erano rivelate caricate a salve e non ci era rimasto altro da fare che arrenderci con le mani in alto.

Volevano eliminarci, Van Damm, mi parve chiaro in quel momento, perché volevano mostrare al mondo – o a ciò che ne era rimasto – che cosa accade a coloro che hanno la sfacciataggine di ribellarsi agli stupidi piani del loro capo. Dev’essere stato il diavolo ad aiutarmi a scampare a quell’inferno. Vicino a me scoppiavano le granate e le case crollavano. Nuvole di fumo dappertutto. Dal cielo pioveva cenere. L’aria era piena di polvere sporca che rendeva tormentoso il respiro. Persi di vista gli altri. Ce la feci, Van Damm; in qualche modo riuscii a fuggire. Lasciai la Renania, attraversai le campagne, evitai per un pelo diversi cecchini, guadai il Reno di notte, mi rifugiai in un vecchio rudere, mi nutrii di erba e dell’acqua di un pozzo e in seguito mi unii a una carovana di zingari, piuttosto stupiti di vedermi poiché era da una decina di anni che non incontravano un cittadino. Furono increduli quando gli dissi che nella Renania esisteva ancora una città abitata, ma mi accolsero tra loro, mi curarono, mi vestirono e mi nutrirono, e mi portarono con loro in un paese che un tempo, credo, si chiamava Normandia; un paese che certo non era stato risparmiato dalla catastrofe, ma che era poco industrializzato e scarsamente popolato quando la merda radioattiva che avevano sepolto sotto terra era tornata fuori.

A poco a poco mi ripresi, Van Damm. Vissi la vita degli zingari e tentai di dimenticare il passato. C’ero anche quasi riuscito, ma il passato mi riprese dodici anni dopo, sotto forma di una ragazza strabica e dai denti storti che veniva come me dalla Renania. Parlammo insieme di quei giorni folli. Raccontò che in Renania c’erano ancora dei gruppuscoli che si opponevano alle teste di cuoio. Disse che era cresciuta una nuova generazione.

Lo so, Van Damm, era pura pazzia. Avrei fatto meglio a restare da Madre Natura e continuare a intrecciare cestini… ma all’improvviso mi sentii un disertore. Una notte scivolai via come un ladro, mi procurai un nuovo fucile e tornai finalmente nel grande mondo. Notai che le nuove generazioni erano più brave di noi a spaccare il muso alle teste di cuoio. Erano come uno sciame di calabroni che colpiva rapido come il lampo. Erano profondamente diversi da noi.

Nessuno li conosceva. Erano una forza anonima. Portavano i capelli corti, camicie bianche, e di giorno facevano gli impiegati. Conoscevano il terrore fin dall’infanzia, erano cresciuti con esso. Non conoscevano nient’altro, per questo non avevano paura. Sono killer perfetti, per loro è uno sport apparire dal nulla e fulminare una testa di cuoio. Per poi scomparire di nuovo nell’anonimato dei loro uffici.

E tuttavia non mi piacciono ugualmente, Van Damm, perché non hanno uno scopo e combattono senza motivo. Ad esempio, non gli interessa affatto ciò che combinano i capi delle teste di cuoio. Per loro conta meno di zero. Non hanno la minima idea di quello che da vent’anni sono tornati a seppellire nelle miniere di sale. I meccanismi si sono macabramente autonomizzati, vecchio mio. Questi giovani sono freddi, senza cuore e sprezzanti. Non hanno rispetto di nulla e di nessuno, e non hanno la più pallida idea di com’era quando ancora si vedeva la luna di notte e le barche potevano navigare sulla Ruhr. Che cosa importa a loro della luna?

Sono pochi per ora, ma diventano sempre di più e si fanno più scaltri. Agiscono a sangue freddo e non amano la vita, Van Damm; ciò ha a che fare, credo, con il fatto che non hanno più fantasia né sogni, e nessuno ha detto loro che cosa davvero è la vita.

Il senso della vita è la vita in sé, credo, ma se ciò che oggi si chiama vita è l’unica vita possibile…

Questi giovani tipi azzimati sono gente spavalda, Van Damm. Credono di essere gli ultimi eroi dell’era chimico-nucleare. Sono figli della notte; dal grilletto facile, di giorno persone gentili con i capelli in ordine che si incontrano alle feste, vestono alla moda e dopo ogni colpo riuscito organizzano un’orgia per liberarsi della tensione accumulata. Mi trattavano come un idiota, Van Damm, storcevano il naso quando sentivano parlare del nostro passato. Crepavano dalle risate quando gli raccontavo che noi combattevamo per qualcosa e non contro qualcosa. Non capivano una parola di quello che dicevo.

Finirono persino per spifferare alle teste di cuoio dove potevano trovarmi – e lo fecero solo per poi liberarmi dai dodici uomini che mi tenevano prigioniero, attaccandoli a colpi di pistola per strada, il loro sorriso a trentadue denti stampato sul viso, e per dirmi che da quel momento avrei fatto bene a non farmi più vedere in giro; avrei solo arrecato disturbo alle loro azioni.

E dunque adesso mi sono definitivamente arreso, Van Damm. Non è rimasto niente da salvare. Ho cinquant’anni; più o meno la tua stessa età, e ho un occhio solo e una gamba zoppa. Quando li ho lasciati, Van Damm, ho colto però un nome conosciuto. Il tuo. Parlavano di te con un certo timore riverenziale, devo dire… come di un eroe al quale si deve molto. Ho scoperto che sei ancora vivo e attivo. Ho saputo che fornisci a questi giovani le armi con cui combattono.

Devo ammetterlo, Van Damm, non mi sono meravigliato poi molto. Perché già all’epoca in cui militavi nelle nostre truppe eri il più bravo di tutti a elaborare piani contro il sistema.

Eri anche quello che trovava i più grossi depositi di armi.

Eppure, Van Damm, ti dirò che allora ero tutt’altro che diffidente nei tuoi confronti. Solo quando dall’alto del campanile della vecchia cattedrale ti ho visto passare sotto di me a bordo di un carro armato, tutto culo e camicia con una testa di cuoio, mi è caduto il velo dagli occhi. Non eri stato tu a procurarci le maschere antigas? E il piano fallito, in seguito al quale ci rifugiammo in quella bettola affumicata, non l’avevi elaborato tu?

Ti ricordi di quando ci stavano alle costole, Van Damm? Di come c’inseguivano mentre ci dibattevamo nei canali? Ti ricordi di come ti ho portato sulle spalle per chilometri su quel terreno fangoso?

Hai allevato una generazione nuova, vecchio mio, e le tue teste di cuoio riusciranno certamente anche questa volta a istigarla al caos di cui avete bisogno affinché la popolazione capisca che farà meglio a obbedire ai vostri ordini. Dovete agire così, se volete che la gente si affidi a voi con fiducia.

È un vecchio trucco, Van Damm, lo so. E mi sono domandato come abbiamo fatto a cascarci, come abbiamo potuto essere tanto stupidi. Ricordi…? Ah, Van Damm, lasciamo perdere. Io torno dai miei zingari. Ne ho le tasche davvero piene. Lo so benissimo che tu non ricordi più niente, che hai spolverato gli scaffali della tua memoria e ti sei dedicato a nuovi (o antichi) obbiettivi.

Ma io, vecchio mio, ricordo tutto.

Perciò me no sto qui ancora una volta sul campanile della vecchia cattedrale e aspetto che tu passi con il tuo carro armato.

Perché ho ancora con me il mio fucile.

 

Ronald Hahn

Ronald M. Hahn è nato il 20 dicembre del 1948 a Wupperta in Germania, è un autore di fantascienza, traduttore e autore di saggi di letteratura speculativa e film. È stato curatore per l’edizione tedesca di “The Magazine of Fantasy and Science Fiction” dal 1983 al 1999 e ha curato la rivista tedesca di fantascienza “Nova” dal 2002 al 2011. Ha vinto il Kurd Lasswitz Award come traduttore di fantascienza e come autore di racconti. (Da Facebook)

 

Questo racconto con la traduzione di Alessandro Fambrini mi era stato inviato da Antonio Bellomi, che aveva conosciuto Ronald Hahn in occasione delle sue molte frequentazioni con la letteratura tedesca, a cominciare dalla pubblicazione in Italia di Perry Rhodan, che Antonio aveva curato con grandissimo amore. In seguito alla scomparsa di Antonio mi sono sentito in dovere di contattare sia Fambrini che Ronald, prima di pubblicare questa storia. Alessandro è stato ben  lieto di autorizzare la sua traduzione e ne abbiamo parlato giovedì scorso, quando è apparsa la sua presentazione della letteratura tedesca di fantascienza. Ho potuto contattare Ronald Hahn proprio grazie ad Alessandro Fambrini, e l’Autore mi ha risposto immediatamente:

Caro Franco, mi rattrista sapere che Antonio sia morto. Anche se lui ed io non ci siamo mai incontrati, eravamo però ottimi amici. In oltre trent’anni di frequentazione lui ha fatto tantissimo per me. Sai, tra di noi parlavano esclusivamente in inglese, ma un giorno mi ha sorpreso parlandomi in tedesco: il suo tedesco era decisamente migliore del mio inglese, anche se affermava che la grammatica fosse troppo complicata per lui e che quindi era in grado di parlare tedesco solo da ubriaco ?.  È chiaro che puoi senz’altro pubblicare il mio racconto: ne sono lieto!