Questa avventura, iniziata il 23 aprile 2015, oggi trova un punto di riferimento davvero significativo. Avevamo detto a E.R. Mason, Autore del libro che ora potete leggere tutto anche in italiano, di voler fare un esperimento: un romanzo di fantascienza americano, originale, che i nostri lettori avrebbero collaaborato a tradurre. Ed ha subito detto che l’idea gli paiceva moltissimo e di tenerlo informato sugli esiti di questa operazione.

La traduzione esce con la sola revisione mia, fatta velocemente, mentre vorrei presentare un prodotto rivisto davvero al meglio. Per questa fase siamo un po’ indietro:

la persona che si era presa l’incarico di fare il controllo, Arianna Zanini, ha evidentemente delle difficoltà a rileggere il tutto. Per cui, se qualcuno volesse rivedere il testo mi contatti e invierò alla persona, o alle persone un testo leggibile e scrivibile da computer.

Inizalmente le cose sono andate un po’ lentamente e infatti abbiamo cominciato a presentare i capitoli a uno per volta. Poi finalmente tutto è diventato più rapido e grazie e nuovi amici siamo arrivati in breve tempo alla totale traduzione del romanzo.

Un grazie a tutti quanti: Paolo Beretta, Paolo Buzzao, Viviana Campo, Roberto Climastone, Ferdinando Temporin. Un grazie particolarissimo a Roberto Climastone, che da solo si è preso carico della maggior parte dei capitoli finali, come vedrete anche in questa parte presentata per la lettura diretta.

Abbiamo anche avuto piccole incomprensioni con degli esperti, vale a dire coloro che leggono e producono fantascienza: “il libro non è un bel libro“, ci hanno detto. Al che ho risposto che il giudizio mi pareva piuttosto superficiale. È un romanzo un po’ ingenuo in certi momenti, probabilmente per la poca esperienza dell’Autore quando lo ha scritto (la pubblicazione è del 2011). Per esempio, su una nave spaziale con motori più veloci della luce, le comunicazioni avvengono via radio: “Qui il capitano, chiama Roby, passo!

Di questo e di altro ho intenzione di parlare in un prossimo articolo, coinvolgento anche E. R. Mason. a intanto non siate pigri e aggiungete qui sotto i vostri commenti. Soprattutto, che ne pensate del libro? Senza problemi: dite la vostra.

Adrian Tarn, allergico alle regole e inaffidabile romantico, accetta di lavorare sulla nave cartografica Elettra, ma il noioso viaggio in Amp-luce si interrompe perché è in vista un veicolo alieno, apparentemente abbandonato. Adrian entra nella nave con una squadra, ma scopre di non ricordare più il momento in cui è uscito dall’Elettra! Una improvvisa e inspiegabile amnesia! Va comunque avanti.

Nel veicolo alieno c’è energia neuronica, ma nessun segno di vita, c’è un tavolo che è un buco nero e la squadra sperimenta diverse difficoltà. Tornati all’Elettra, si scopre che Maureen Brandon, Capo Analisi Dati, ha distrutto l’intero data base per poi sparire in modo misterioso. L’Elettra ha mille avarie ed è del tutto inutilizzabile. Adrian sente dire dal capitano che forse sarà necessario consultare l’Inviato, ma non gli viene spiegato chi, o cosa sia costui.

Sulla nave scompare improvvisamente la gravità artificiale e scompare anche il vice comandante Tolson. Si sa che il vecchio Tolson e la glaciale Maureen Brandon avevano una relazione e Adrian ritrova la “bella” nella sua cabina, svenuta, legata alla poltrona e senza vestiti addosso. Poco dopo, anche il vice comandante viene trovato, “quasi” vivo all’interno della camera di equilibrio, ma è avvolto in un bozzolo che lo ha orribilmente trasformato.

Il comandante Grey chiede ad Adrian di sostituire il vice comandante Tolson, e gli parla dell’Inviato: si tratta di un alieno che occupa un comparto annesso alla cabina del comandante e fa parte di una razza enormemente evoluta, i Nasebiani. Con questi esseri non è possibile parlare e comunicano telepaticamente, facendosi vedere solo quando vogliono.

Ma scompare anche il Comandante Grey: Adrian va nella cabina di Grey ed ecco apparire la misteriosa entità: l’Inviato è chiaramente di sesso femminile. La comunicazione è scarna, telepatica, ma l’aliena già sapeva della scomparsa di Grey.

R.J. amico di Adrian, ha una sua teoria: anche se nessuno li ha visti, l’unica possibilità è che degli alieni, provenienti dalla nave misteriosa, siano a bordo e operino i sabotaggi. Ma come? Ben presto si scopre che questi alieni indossano delle tute che li rendono invisibili e operano con speciali pistole in grado di cancellare la memoria e rendere inoffensivi i nemici. 

Adrian decide di tentare un’impresa impossibile, entrare nella loro nave, aiutato da Perk per annientarli. Il piano è impreciso: attaccare alla nave aliena due dei loro grossi motori di supporto, poi entrare, minare lo scafo da dentro e spingerlo lontano accendendo i motori. In qualche modo i due ce la fanno ad attaccare i motori e a entrare, ma qui li aspetta una sorpresa davvero inaspettata.

Traduz. di Roberto Climastone

Era una festa. La più orribile festa che avessi mai visto. C’era un folto gruppo di loro, forse trenta o quaranta. Non so come avessero tenuto nascosto che questa nave aveva un equipaggio completo. Stavano intorno a dei tavoli o vagavano facendo cose che non capivamo. C’era un’atmosfera macabra e festosa.

L’attrazione principale era in un lato della stanza. Da una sorta di candelieri fissati al muro pendevano delle tute grigie di grossa taglia. Non erano tute spaziali. Erano permanentemente fissate alle loro posizioni tramite cavi grossi come tubi da idranti. Gli ospiti della festa si alternavano nell’indossarle, tenendole per un certo tempo e poi interessandosi ad altre cose. Alcuni sembravano più trepidanti in attesa del trattamento rispetto ad altri.

Osservammo per parecchi minuti, poi una cosa strana attrasse il mio sguardo. Sganciai il cannocchiale dalla mia arma, lo accesi alla massima potenza e mi misi in modo da poter osservare l’ingrandimento di una delle tute.

Un omino che pareva particolarmente anziano vi entrò arrampicandosi. Dopo dieci o quindici minuti la tuta si aprì e ne emerse un brutto omino molto più giovane. Mi guardai intorno e vidi che Perk osservava lo stesso evento. Ci fissammo increduli.

Era una festa di ringiovanimento. Stavano infondendo nuova vita in se stessi. Non poteva essere una coincidenza che ciò avvenisse esattamente quando stavano saccheggiando l’Electra. Non volevo credere che le vittime nel nostro equipaggio fossero la sorgente del loro ripristino fisico, ma il pensiero era quello. Cosa volevano dalla nostra gente? Non poteva essere.

Mi accasciai e cercai di riprendermi. Perk mi guardò e scosse la testa incredulo. La rabbia mi paralizzava. Avrei voluto urlare e inveire, ma eravamo precariamente appesi sopra le loro teste. Poco per volta, l’odio diventò voglia di vendetta. Era l’unico pensiero confortante. Avevo voglia di avviare quei grossi motori a razzo e mandare la loro nave all’inferno, ma non eravamo pronti. Entrò in gioco una fredda determinazione di esaudire la mia voglia di vendetta. La stessa che si leggeva negli occhi di Perk,.

Ci sollevammo assieme e avanzammo silenziosamente lungo il corridoio con le grate.

Il corridoio finiva con un ampio canale verticale. Dal basso veniva aria tiepida. Una scala sul lato destro permetteva l’accesso. Senza parlare, ci voltammo decisi e iniziammo la discesa.

Tre livelli più in basso il tepore divenne calore. La nostra unica via di fuga era un tunnel di ventilazione circolare che in orizzontale. Vi feci scivolare la mia arma e la sacca, poi mi infilai io stesso carponi. Cercavamo la nostra strada alla cieca nelle viscere di una nave aliena, ma non ci importava. Nessuna forza sulla Terra o nello spazio avrebbe potuto privarci della vendetta. Non ci saremmo mai fermati, come un branco di lupi. La nostra vita anelava alla vendetta.

Trovammo condotti di ventilazione nelle condutture. Nel primo si vedevano attrezzature di supporto per un sistema di reattori. Il che ci diede speranza.

Il terzo fu quel che serviva. Era una sala di controllo con grossi interruttori, del tipo che si usati nei sistemi d’alimentazione. Perk mi toccò la spalla indicando. Un secondo dopo un orribile omino passò sotto di noi.

Quando la stanza sembrò sgombra accendemmo la luce di un’arma e cercammo di capire come era unita la griglia alle condutture. Un semplice meccanismo a scatto con una chiusura rotante. Si doveva sganciare un angolo alla volta, senza farla cadere. Perk prese la sua arma e ne tolse la cinghia. Guardò giù un momento, poi fece passare la cinghia attraverso la griglia riprendendola con la lama del coltello a formare un laccio. Afferrò le due estremità, sganciò la griglia ed attese. Stavo per colpire il primo angolo con il taglio della mano, quando l’orrido omino ripassò sotto di noi. Perk roteò gli occhi.

Aspettammo, ma non tornò. Colpii l’angolo in alto più vicino a me con tutta la forza. La griglia si sganciò facilmente. L’altro angolo in alto fece come il primo. Perk abbassò la griglia e la lasciò penzolare da un lato. Dovetti uscire a testa avanti. Sotto di noi c’era una scrivania. Atterrai con le mani e mi rotolai per arrivare di fianco sulla scrivania, facendo il minor rumore possibile. In pratica non ci fu rumore. Salii in piedi sulla scrivania per trattenere la grata e per aiutare Perk a scendere. Portai giù le armi e la sacca il più in fretta possibile e rimisi a posto la griglia. Ci accucciammo dietro la scrivania in attesa.

Era sicuramente la sala controllo. I monitor climatici e i pannelli di distribuzione erano lì. Non riuscivamo a decifrare i simboli arabeggianti, ma la disposizione era inequivocabile. Non avevamo trovato i motori, ma i generatori d’energia andavano bene lo stesso. In realtà le zone di controllo non erano mai molto lontane dei generatori veri i propri. Non avevamo modo di capire quale tipo di sistema usassero, ma non c’era dubbio che avremmo causato parecchio danno.

Mi sporsi per dire qualcosa a Perk, ma il ‘bip’ di un allarme mi interruppe. Un secondo dopo, l’orrendo omino arrivò di corsa. Dopo qualche istante, corse via nella direzione opposta. L’allarme continuò a suonare. Ci sedemmo con la schiena contro la scrivania e ci guardammo sconfortati. L’allarme sicuramente era a causa nostra.

Perk si sporse e mi disse in un sospiro, “Siamo fottuti.”

Azzardai un’occhiata al di là della scrivana, ma non c’era nessuno. “Amico mio, credo invece che abbiamo vinto.”

“Vinto cosa?”

“I motori sono pronti a partire. Bruciano per cinque-sette minuti. Se piazziamo le due bombe in questa sala controllo e impostiamo il timer a, diciamo, quattro minuti, possiamo accendere i motori, allontanare questa chiatta e le cariche spazzerebbero via la sala ed i loro sistemi di alimentazione per sempre. Forse causerebbero ancor più danni se si verifica una reazione e catena. Direi che li abbiamo dove ci serve.”

“Capisco. Comunque non dovevamo andare da nessuna parte.”

“Dobbiamo esser pronti senza allarmare il tipo nervoso che corre avanti e indietro. Non vogliamo che vengano tutti qui, per ora.”

Perk mi guardò e fece una smorfia. “Ironico, no? Non molto tempo fa eravamo noi a correre confusi in cerca degli intrusi sull’Electra e adesso tocca a loro.”

“Chi la fa, l’aspetti, immagino.”

“Ti rendi conto che così gli roviniamo la festa?”

“Mi chiedo se questo tizio sia sempre lui o uno dei tanti. Non riesco a distinguere i bastardi uno dall’altro.”

“Secondo me i più sono alla festa, per la giovanizzazione.”

“Bel termine. Prepara le cariche e vedrò se riesco ad avere una migliore osservazione.”

“Dammi i telecomandi dei motori. Li metto in modo che uno faccia accendere i due motori con un solo controllo.”

Gli passai la sacca e rimanendo giù strisciai intorno alla scrivania, osando un’altra sbirciata oltre il tavolo. La stanza era vuota. C’era una porta ai due lati. Mi sporsi per vedere dentro alla stanza alla mia sinistra, ma vidi solo altri pannelli di controllo. Alla mia destra, l’altra porta immetteva in un breve corridoio di collegamento.

Dovevamo trovare un posto per nascondere le cariche e poi impostare i timer. Un pannello lì vicino aveva quello che sembrava un cassetto nello slot più basso. Feci silenziosamente un passo in avanti, afferrai le maniglie e lo aprii. Una parte dello spazio interno conteneva quello che sembrava un manuale. Il posto perfetto per una bomba. Richiusi delicatamente il cassetto e mi voltai per tornare indietro, quando qualcosa lontano, alla mia sinistra fece suonare un campanello nella mia testa. Mi affrettai dietro la scrivania e sedetti.

“Ho appena visto qualcosa che mi ha mandato fuori di testa.” “Ma che bello.”

Aprii la bocca per replicare, ma i passi dell’orrendo omino mi fecero gelare. Entrò nella sala controllo da sinistra, si fermò, poi corse via. Continuammo, sempre tenendo la voce bassa.

“Non ti hanno visto, vero?”

“No ho guardato in entrambe le direzioni. Sono tutti fuori di testa, corrono come galline decapitate.”

“Beh, è ciò che saranno. Che hai visto?”

“Non ci crederai, ma a circa novanta metri a sinistra c’è un ascensore vuoto che sembra proprio quello che abbiamo usato noi.”

“Scherzi?”

“Il problema è che, se ce ne andassimo, non ci troverebbero qui, ma frugherebbero in giro.”

I passi ritornarono, ma transitarono rapidamente e svanirono.

“Due opzioni.”

“Quali?”

“Uccidere tutti in zona, o sparire senza farci vedere.”

“La prima è un un macello.”

“Se provassimo con l’ascensore e si accorgessero che non c’è più, che problema è? Forse penserebbero che lo hanno chiamato a un altro livello.”

“Dovremmo impostare i timer delle cariche grandi. Sarebbe una stima approssimata. Poi dovremmo accendere i motori quattro o cinque minuti prima dello scoppio, in qualsiasi posto fossimo in quel momento.”

“È azzardata, qualsiasi cosa decidiamo di fare.”

“Quindi, prima opzione, mettiamo le cariche grandi a quattro minuti, le piazziamo il più lontano possibile, facciamo partire subito i motori e ci mettiamo a correre.”

“Giusto.”

“Oppure, opzione due, impostiamo le cariche al tempo sufficiente per andarcene e proviamo a prendere l’ascensore senza essere visti.”

“Ottima comprensione della situazione, amico mio. Zitto, arriva il nostro amico.”

L’omino vecchio arrivò di corsa e di nuovo sparì nella stanza accanto.

“Ho preso il suo tempo. Sta sempre via per almeno tre minuti.”

“Basterà. Piazzo una carica in questa stanza, mentre tu piazzi l’altra nella stanza vicina. Il primo che arriva all’ascensore sta vicino al pulsante di salita.”

sbirciai dietro la scrivania, ma non vidi nessuno. “Sai cosa servirebbe? Una distrazione a un livello diverso per tenerli lontani da qui.”

Perk sorrise. “So come fare. Quante cariche abbiamo?”

“Cinque.”

“Dammene una.”

Cercai nella sacca e gliene diedi una.

Perk separò il telecomando dalla carica e lo mise nella tasca sul petto. “Passando da uno degli altri piani getterò la carica il più lontano possibile. Se non c’è nessuno, attirerà tutta l’attenzione degli altri. Se dovessero esserci degli stramboidi, li metterà a nanna.”

“Per me va bene. Quanto tempo abbiamo?”

“Piazzare le cariche, prendere l’ascensore, mettere le tute spaziali, speriando che il portello sia aperto… dieci minuti più o meno.”

“Facciamo i generosi e diciamo quindici, caso mai abbiano chiuso la porta.”

“Giusto, non possono trovare le cariche grandi in quel tempo.”

“Allora, quindici minuti per noi, più quattro minuti perché i grossi motori spostino la nave, totale diciannove minuti.”

“Diciannove minuti.”

Tirammo fuori le cariche grandi, segnammo diciannove minuti sui timer, poi aspettammo il ritorno dell’omino. Stavamo lì con gli esplosivi sulle ginocchia, fissando i bottoni di armamento e avvio, con grandi incertezze sulle nostre possibilità. Non ci fu da aspettare molto. L’orrendo omino passò trotterellando anche più rapidamente di prima, come se stesse davvero andando da qualche parte.

Schizzammo fuori, trascinando le nostre armi, la sacca e le cariche. Andai direttamente alla porta e sbirciai cautamente dietro l’angolo. Nessuno in vista.

Corsi verso il mio obiettivo e aprii il cassetto in basso. Perk stava già lavorando su una carica nella camera accanto. Spinsi l’attivatore della mia carica e guardai il timer iniziare il conto alla rovescia, quindi la posai delicatamente sotto il manuale.

Scattammo verso l’ascensore arrivando nel medesimo istante. Una volta dentro spinsi il bottone di salita e Perk tirava fuori il detonatore dalla sua tasca ponendosi nella migliore posizione per lanciare la carica piccola. L’ascensore non era molto veloce. Attraversammo il livello successivo inosservati, c’erano solo cavi e robaccia sparsa in una zona di carico.

Al successivo incontrammo dei possibili guai. Quattro di loro con la schiena volta verso di noi, stavano lavorando su qualcosa. Uno sentì l’ascensore e si voltò. Sollevò una mano tridattila per indicarci con espressione allarmata. I compagni si girarono proprio nel momento in cui la carica di Perk già scivolava sul pavimento verso di loro. Esplose quando noi avevamo ancora i piedi in vista, per cui  avvertimmo il forte botto e l’impatto dei detriti sparsi.

Il livello successivo era una stanza enorme alta due o tre piani con un montacarichi in una nicchia di lato. Mentre salivamo notai che stavamo passando dalla festa.

Intorno a noi si sentivano molti allarmi, ma noi intanto emergevamo in silenzio al nostro ingresso. Scesi e usai il calcio dell’arma per rompere il pannello di controllo, in modo da renderlo inutilizzabile. Ci guardammo intorno in fretta, sperando che le tute fossero ancora al loro posto. Guardai dietro e notai deluso l’ascensore che tornava giù.

“Perk, stanno arrivando.”

“Si, hai visto che il portello è chiuso e sigillato con un tastierino?”

“Merda.”

Trovammo in fretta le nostre tute. Nel tirarle fuori e indossarle, imbrogliammo le attrezzature tra noi. Perk mi mostrò il dito medio. Dopo un enorme sforzo ragionato riuscii a sedermi sul pavimento e infilare le gambe. Perk continuò a lottare con la sua.

Era preoccupato, “Tempo?”

“Forse siamo stati troppo generosi. Abbiamo ancora dieci minuti.”

“Sai che dobbiamo far saltare il portello.”

“Quattro cariche dovrebbero bastare.”

“Imposterò due telecomandi per far esplodere tutte e quattro le cariche. Chiunque di noi potrà farlo con un solo invio.”

“Non vedo l’ora.”

Ci alzammo infilandoci le tute, lottando con le maniche e i guanti. Chiusi e sigillai lo zaino sulla schiena di Perk, mi voltai e lui sigillò il mio. Aprì la sacca e tirò fuori due telecomandi. Dopo averli impostati, me ne consegnò uno. “Aspetta che io sia al sicuro, va bene?”

“Non è divertente.”

“Devo piazzare queste prima di pressurizzare la tuta. Sarò veloce.” Raccolse le quattro cariche rimaste e si diresse verso il portello.

Tirai fuori i telecomandi dei motori a razzo, li infilai in una tasca in velcro sulla gamba della tuta e calciai via la sacca vuota. Fu un piacere avvitarmi il casco. Con la visiera alzata, presi posto tra Perk e l’ascensore e mi preparai a reagire.

“È l’ultima.” Prese il casco e se lo mise velocemente. “Dovremo andare dietro l’ascensore per ripararci.”

Cercammo di abbassare le visiere, ma non ce ne fu il tempo. La sommità dell’ascensore superò il livello del pavimento.

Non so come, ma erano in quattro sulla piccola piattaforma rotonda. I controlli dell’ascensore erano spaccati, ma quell’affare venne su come un siluro. Saltarono fuori con un’esplosione controllata. Non erano i soliti orrendi omini: questi indossavano tute da combattimento e usavano armi molto più grandi. Ad ogni modo erano visibili, probabilmente le armi erano troppo grosse per nasconderle. Aprirono il fuoco immediatamente e si sparpagliarono da ogni parte. Il fuoco continuo dei fulminatori echeggiava sui muri ad un livello stordente.

Il mio primo colpo raggiunse uno di loro in pieno petto. Lo fece cadere all’indietro, ma il bastardo si rialzò subito. Lo colpii ancora con il fuoco rapido finché un colpo lo raggiunse dritto in quei denti gialli e rimase giù.

Perk ficcò tre colpi dentro due di loro. Li sbatté in giro, ma senza abbatterli. Con orrore, vidi che veniva colpito al petto. Buttato all’indietro e non si rialzò.

Mi misi dietro un corto divisorio sulla destra, tenni l’arma puntata dietro l’angolo e sparai una dozzina di colpi alla cieca. La cinghia dell’arma di Perk era alla sua cintola, abbastanza vicina a me. Con un’altra salva di fuoco cieco, mi azzardai a uscire e rientrare, afferrando l’arma lungo la strada. Ancora fuoco cieco e trascinai il corpo di Perk dietro la paratia con me.

Ascoltai. Nessun rumore.

Mi inginocchiai e liberai l’arma di Perk, ma ci misi troppo. Quando mi sollevai, c’era una canna sul lato della mia testa. Mi irrigidii mentre una delle creature si metteva di fronte a me, tenendomi l’arma puntata alla fronte. L’orrendo omino mi fece un altro di quei sorrisi dei quali non ne potevo più. Abbassò la canna dell’arma in modo da puntare al mio cuore. Avevo timore di alzare le mani per paura che quello sparasse.

Sorridendo ancora, buttò bruscamente la testa indietro, come per ridere. Ma non ci fu nessuna risata. Invece dalla sua gola spuntò l’estremità appuntita e affilata di un pugnale. La creatura cadde direttamente su Perk, che si era inginocchiato dietro di lui.

Mi buttai giù, allo scoperto, immaginando che gli altri due dovessero essere proprio dietro l’angolo. Il più vicino dei due si era spostato di fronte al grosso tavolo centrale.

Sparammo tutti e due, il suo colpo era alto, ma tre dei miei lo raggiunsero in pieno petto, facendolo volare all’indietro, sul tavolo. Come ogni altra cosa, ci finì dentro. Afferrò il bordo e sembrò aggrapparsi disperatamente. Il suo compagno sul lato opposto rimase inorridito a quella vista, come se fosse la peggior cosa che potesse accadere. L’omino lottò, ma scivolò ancora più giù come se una grande forza lo tirasse. Lasciò cadere l’arma sul pavimento e si aggrappò al bordo con entrambe le mani tridattile. I suoi occhi erano spalancati la bocca spalancata per urlare, ma fu tirato ancor più giù, fino a quando non rimasero che le mani aggrappate al bordo del tavolo. Una mano scivolò giù, l’altra la seguì poco dopo e lui sparì.

Il suo compagno era furibondo. Aprì il fuoco ma partirono solo due colpi, prima che Perk, ancora steso al suolo, facesse brillare il portello. Ma io ero troppo maledettamente vicino. Fui sbattuto in su e all’indietro contro il muro battendo la testa molto forte dentro il casco imbottito e il mondo si fece buio. Non volendo perdermi niente, mi imposi di non svenire. Quando la luce fu tornata normale, Perk, l’alieno morto ed io eravamo un mucchietto sul pavimento.

Per prima cosa, pensai di verificare se il casco fosse incrinato, ma tutto inutile. Immediatamente sentii l’aria aspirata fuori dai miei polmoni. Qualsiasi cosa non fissata nella stanza venne trascinata e schizzò fuori dal portello aperto. Sulla nave aliena non c’era pressione, ma avrebbe potuto compensare. Perk ed io fummo spinti verso l’uscita. Riuscii a prenderlo e a bloccarmi sul bordo della nicchia. Lo tirai dentro per una gamba e buttai giù la sua visiera. Appena si sigillò, sentii che la sua tuta entrava in funzione, un vantaggio delle tute da volo. Lasciai andare la presa al muro e buttai giù anche la mia visiera. Venimmo trascinati per la stanza raggiungendo il portello aperto giusto in tempo per incrociare l’ultimo omino. Tutti e tre arrivammo alla porta insieme, troppo affollato per passare e l’alieno senza tuta, con gli occhi spalancati, si aggrappò a me per salvare la pellaccia.

Lo colpii con il più forte gancio sinistro di cui fui capace al momento, con tutta l’anima. Lo stordii abbastanza da liberarmene. Uscimmo dal portellone in fila indiana, l’alieno, Perk e io. Lo slancio ci portò troppo vicini all’Electra, rimbalzando sulla ringhiera della passerella. Feci di tutto per mettermi in posizione: più in là, alla mia destra l’extraterrestre se ne andava roteando. Ci fu un momento in cui mi guardò negli occhi: aveva perso tutto. Non ci sarebbe stato il ritorno al porto pirata con il bottino. Nessun futuro a risucchiare la vita degli altri. Cadde verso le stelle, mentre lottava inutilmente e infine sparì nella fredda oscurità.

Poco prima di cozzare contro la superstruttura dell’Electra, mi accorsi che la tuta di Perk perdeva aria e sangue gelato. Schiacciai il mio guanto contro il buco della tuta e una frazione di secondo dopo subii l’impatto a destra. Rimbalzammo come lottatori contro il tappeto e il rinculo ci fece girare verso la nave aliena. Continuavo a turare la falla nella tuta di Perk con la mano, ma guardai il conto alla rovescia sul timer della mia manica. Tre minuti prima dell’esplosione delle grandi cariche. Lo lasciai andare, tirai fuori il telecomando dalla tasca sulla gamba lo armai. Quando si accese la luce, schiacciai l’accensione.

Per una ragione che non sarà mai nota, il motore sinistro partì per primo. Dopo quella prima esplosione afferrai Perk e lo tenni stretto. Ci volle solo un secondo perché il motore spostasse l’enorme sagoma da insetto dell’astronave. La passerella venne strappata, sobbalzò, si contorse, ancora agganciata dalla nostra parte. La massa del veicolo doveva essere molto inferiore al previsto, perché quel singolo motore sarebbe bastato e avanzato. Il getto del motore ci buttò contro l’Electra e ci mantenne lì.

Il motore fece andare quella cosa in alto e verso destra, capovolgendola in senso orario. Là dentro doveva essere un inferno. Poi si accese il motore destro, eruttando uno spruzzo di schifezze e subito tentò di contrastare il rollio e l’imbardata a destra. Il veicolo si allontanò verso lo spazio piroettando, avvolgendosi e roteando come un dragster lanciato che ha colpito il parapetto, diventando sempre più piccolo e veloce.

Eravamo stati tanto, tanto fortunati. L’accessione del primo motore ci aveva spinti verso l’Electra che si era spostata, il che aveva spinto la nave aliena verso l’alto, allontanando da noi gli scarichi dei razzi.

La scena era così surreale che mi stavo dimenticando le grosse cariche. Guardai il timer. Aveva sorpassato lo zero ed ora era a più uno. Ero terrorizzato. O l’esplosione era stata tutta all’interno della nave o non c’era stata per niente

Improvvisamente in lontananza apparve una grande luce, come una nuova stella. Un lampo, poi strisce bianche in ogni direzione.

Un istante dopo avvenne qualcosa di totalmente inaspettato: il nulla assoluto. Improvvisamente ci fu spazio nero e vuoto, come se tutto fosse stato un’illusione. Ma ci volle solo un secondo per capire. Usavano l’antimateria. Con la distruzione del loro sistema di contenimento di antimateria, essa era libera di divorare ogni cosa. Mutuo annullamento. Neutralizzazione bilanciata di ogni cosa.

Come uno scimpanzé ferito, riuscii ad aggrapparmi all’Electra e ci trascinammo alla camera stagna aperta. Le luci all’interno erano basse. La tuta di Perk si stava afflosciando. Lui era incosciente o morto, non capivo bene. Lo stesi sul pavimento dell’Electra per poter chiudere la porta esterna. Attivai la pressurizzazione d’emergenza, ma sapevo che dovevamo restare un bel po’ dentro le tute. Non sarebbe arrivato nessuno ad accoglierci. Per quanto ne sapevamo, tutti quelli sull’Electra erano al momento prigionieri. Tenni Perk con un braccio ed aprii un kit d’emergenza sul muro. Strappai la grossa pezza e la pressai contro il foro nella tuta, quindi lo agganciai ad un cordone ombelicale, sperando che il suo zaino funzionasse abbastanza da gestire la sua atmosfera.

Quando la porta interna finalmente di aprì, mi venne voglia di piangere come un bambino. C’erano R.J. ed il Dottore, carichi di kit medici e pronti ad intervenire.

 

Traduz. di Roberto Climastone

Mi risvegliai in una stanza bianca, su un letto bianco pulito e una coperta bianca tirata su fino al collo. Non avevo più i vestiti. Avevo su solo i boxer. E un bel mal di testa. C’era una faccina sorridente su di me appiccicata al soffitto.

Provai a mettermi seduto, ma riuscii solo a sollevare la testa. Il resto rifiutò di muoversi. Alla mia sinistra apparve la faccia di R.J. che mi fissava.

“Fossi in te non ci proverei.”

“Perché sono legato?”

“Non lo sei. Sei pesto e hai quella sensazione.”

“Perk?”

“Se la sta spassando laggiù.” R.J. fece un cenno del capo verso destra.

Voltai il capo e vidi Perk, nello stesso ambiente totalmente bianco, addormentato dentro un cilindro di plexiglas. R.J. disse. ” È stato un proiettile al plasma. Ha fatto un buco bello grosso. Era progettato per fare in modo che la vittima continuasse a sanguinare. Era bloccato il polmone sinistro, ma il medico lo ha riattivato. È ok.”

“Ma l’equipaggio e la nave?”

“Sarai fiero di noi. Ci crederesti che Ringo e Salardy hanno tirato giù due di quelli? Gli alieni avevano creduto al nostro falso messaggio in rete e sono passati attraverso i raggi e sono stati abbattuti dall’esplosione dove li aspettavano Ringo e Salardy. Gli hanno scaricato addosso tutto quello che avevano. Le tute degli alieni hanno smesso di funzionare e sono diventati visibili, ma erano già morti.”

“E non è tutto. Abbiamo isolato la maggior parte del livello due, tranne il corridoio principale, e ne abbiamo beccato uno che usciva. Andava in gran fretta, come se avesse ricevuto la notizia che era ora di andarsene o qualcosa del genere. Non è stato abbastanza attento. Ha interrotto due dei fasci di controllo e si è beccato una sparatoria. Credo che se muoio le loro tute smettono di funzionare o comunque si fermano. Ad ogni modo, i resti dei tre sono in congelamento isolato. E indovina chi lo ha ucciso. Frank Parker.”

“Frank Parker ne ha colpito uno?”

“Non solo l’ha colpito, ha ingaggiato la sparatoria. Quel coso è rimasto invisibile per parecchio. Frank si tuffava, si rotolava e sparava. C’è un video che devi vedere. Diventerà virale, se dovesse trapelare su Video-Tube.”

“Frank Parker in una sparatoria ed è ancora vivo?”

“Si, non si è fatto nemmeno un graffio. Ma ti pare?”

Frank si è reinventato. “Quanti altri sono rimasti?”

“Non saprei. Il reparto di Biologia non farà scansioni per un po’. Le attrezzature sono in pessime condizioni. Ma il punto è che abbiamo il controllo della nave. Abbiamo piazzato rilevatori ovunque, tanto che quelli rimasti non potrebbero andare da nessuna parte senza farcelo sapere. Tutti sono più o meno al sicuro. L’equipaggio è rimasto quasi tutto nella sezione di coda, e sono sorvegliati. Tutti cercano di uscirne. Là c’è ancora parecchio vomito, perché ovviamente non c’è gravità. Comunque molte delle capsule di salvataggio sono aperte e hanno quindi tutto ciò che serve. Vogliamo tenerli lì finché non sapremo che la nave è sicura. Non vogliamo suicidi, né prese di ostaggi.

“Quanti ne abbiamo persi?”

“Qui è difficile. Non sappiamo dire quanti siano ancora nascosti e di cui non abbiamo informazioni. Una stima molto approssimata è da trenta a quaranta. Molti sono stati trovati a bordo, imbozzolati per il viaggio nella nave aliena e non ci sono speranze. Non sappiamo che gli volessero fare.”

Provai ad alzarmi, ignorando il dolore e ce la feci a poggiarmi su un gomito. “Devo alzarmi. Dovrebbe esserci il modo per sapere quante persone rimangono e dove sono.”

“Si pensa che possano essere al livello più basso. Ma c’è un’altra brutta notizia. Stavano trasferendo aria e acqua dalla nostra nave alla loro. Non so come, ma ne è sparita parecchia. Però, da quando tu e Perk li avete convinti ad andarsene, il trasferimento si è interrotto.”

Ce la feci a mettermi seduto. Il movimento avvisò il medico che si avvicinò subito con l’espressione seria tipica da dottore.

“Adrian, sei sotto forti antidolorifici, non puoi fare niente.”

“Devo solo fare una visita alle stanze del Capitano. Non ci vorrà molto.”

“Hai visto al tuo torace?”

Guardai giù e vidi che il torace aveva assunto un colorito blu-nerastro.

“La schiena è nelle stesse condizioni. Hai subito micro-fratture nella zona toracica, davanti e dietro ed hai una commozione di terzo grado, il che non è uno scherzo. Se non ti avessimo trovato per tempo, il rigonfiamento del cervello ti avrebbe ucciso.”

“Malgrado tutto, devo solo fare una rapida visita alle stanze del Capitano. Andrò piano e tornerò subito.”

“Ma perché è così importante? Se ti aumentasse il battito cardiaco, molto probabilmente avresti un aneurisma.”

Tornerò in venti minuti, lo giuro. Porterò qualcuno della sicurezza.”

“Bene, sei il sostituto del Capitano su questa nave. Non posso scavalcarti, ma ricorda, un qualsiasi sforzo e non potrai per fare niente altro.”

Feci scendere i piedi verso il pavimento. Sembrava lontano e irraggiungibile. Per fortuna le mie gambe erano diventate lunghe tre metri e toccai facilmente. Barcollai con il dottore aggrappato al braccio sinistro e mi fermai un secondo appoggiato al tavolo per orientarmi.

R.J. aveva preso una tuta di volo e mi aiutò ad infilarci le gambe. Me la tirò su da dietro e guidò le mie braccia nelle maniche. Continuai a barcollare come un ubriaco, mentre cercavo la chiusura lampo e finalmente fui vittorioso e riuscii a chiuderla. Senza doverlo chiedere, sentii R.J. che mi infilava degli stivali con chiusura lampo e con ciò il vestiario era finito.

“Chi mi avete assegnato?”

R.J. rispose, “Ringo e Patterson. Gli altri sono di pattuglia. Ah, ci sono anch’io. Stavolta vengo con voi.”

“Ok, andiamo.”

Con R.J. a un braccio e uno dei ragazzi della squadra all’altro, feci del mio meglio per far credere al dottore di essere in pieno possesso di me stesso. Fu un tentativo patetico e dall’espressione del medico capii che per lui sarebbe stato un disastro.

Quando raggiungemmo le stanze del Capitano, le mie gambe erano migliorate e mi parevano quelle vecchie scarpe a molla giocattolo. Mi pareva di camminare su trampoli a molla e guardare attraverso un periscopio. Chiesi agli accompagnatori di aspettare fuori. Mi fissarono come se fossi matto.

Si aprirono le porte e avanzai barcollando come il mostro di Frankenstein; aspettai che si chiudessero. La più vicina ancora di salvezza era la scrivania. Inciampai e mi sporsi troppo, ma ce la feci.

Non dovetti aspettare. Fissavo la scrivania provando a riprendermi e la stanza prese improvvisamente a brillare della solita luce dorata. La stanchezza mi abbandonò. Mi raddrizzai e vidi l’Inviata ferma sulla sua porta aperta. Fui stupito nel vederla avanzare fino a un metro da me. Stese una mano e mi toccò il braccio destro.

Il mio corpo iniziò a formicolare, come se fosse avvolto da energia statica. L’elettricità mi attraversò e la sensazione si trasformò in gioia ed euforia fisica. Mi raddrizzai ancora di più e i pensieri e la vista furono molto più chiari. Provai a muovere la spalla sinistra. Funzionava.

Alzando lo sguardo la vidi di nuovo sulla sua porta. Non ero sicuro che mi fosse mai stata vicina, ma la mia condizione fisica era enormemente migliorata.

La guardai meravigliato.

Parlò nella mia mente. “Non troppo.” “E Perk?”

“Starà bene.”

“E tutti gli altri?”

“Tutto è come deve essere.”

La interrogai riguardo agli intrusi. Lei rispose, “Uno, giù da basso.”

Con quella informazione compresi che nel fornirmela aveva peccato, dal suo punto di vista. In qualche modo. Non capivo come potesse essere.

Arrivò una risposta al di là della mia comprensione. Lei non era parte del presente, ma più del passato e del futuro. Sapeva che i ‘banditi’, come li chiamava, sarebbero diventati una razza spirituale. Li vedeva già in quella forma. Tutte le anime erano immortali. Tutti trovavano la loro strada. Sapeva ciò che sarebbero diventati. Intervenire in un percorso di sviluppo voleva dire che lei avrebbe scritto una pagina delle loro vite.

Feci del mio meglio per capire. Mi guardò con espressione gentile.

“Fammi visita ancora una volta.” La porta si chiuse più lentamente del solito. Il bagliore si spense assieme al campo di energia.

Mi guardai il petto. Era sempre livido. Feci un paio di passi di corsa sul posto. Tutto funzionava bene. La vista era buona. Andai alla porta.

Quelli fuori si stupirono della mia mobilità. Me la cavai dicendo che recuperavo più velocemente del previsto. Ci dirigemmo all’infermeria.

“R.J., quante porte ci sono per andare al livello più basso?”

“Ne abbiamo contate tre.”

“I comunicatori delle squadre speciali funzionano?”

“Si, ma non li abbiamo usati molto, dato che non sappiamo chi stia ascoltando cosa.”

“Ringo, sai come funzionano le paratie bloccanti d’emergenza che si usano proprio per isolare un corridoio in caso di irruzione indesiderata?”

“Fa parte dell’addestramento standard, Comandante.”

“Senti bene. Chiudete le entrate al livello inferiore di poppa e di prua, in silenzio assoluto. Ignorate il portello di mezza nave. Quindi inchiodate una paratia bloccante d’emergenza nel corridoio che porta all’entrata di mezza nave. Mettila dietro a un angolo. Così se qualcuno volesse uscire dal livello non capirebbe di essere bloccato da una nuova porta dietro l’angolo. Dobbiamo farlo velocemente, per evitare che l’intruso voglia sabotare il resto della nostra aria e dell’acqua, sempre che non l’abbia già fatto.”

R.J. mi guardò. “Non capisco bene, Adrian.”

“Toglieremo pressione poco per volta al livello più basso. Prima o poi l’alieno sarà costretto a sloggiare e quando lo farà resterà intrappolato tra il livello basso e la nuova paratia d’emergenza.”

“Perché intrappolarlo? Perché non togliamo aria a tutta l’area e lo lasciamo morire?”

“Perché non è quello che fanno le razze avanzate, R.J.”

Potevo avvertire il conflitto di emozioni in R.J. Lui era quello spirituale, il difensore delle vecchie abitudini, l’uomo che risolveva parole crociate su carta invece che su un e-reader di ultima generazione. La perdita degli amici, la paura della morte, la voglia di restare vivo avevano messo in mostra ciò che davvero albergava nel profondo del suo cuore. Mi guardò un’altra volta.

“Capisco.” Dopo un istante chiese, “Che ne farai di lui?”

“Lo metteremo a dormire, gli togliamo la tuta e lo teniamo in animazione sospesa.”

Raggiungemmo l’infermeria e dopo poche ultime istruzioni, Ringo e Patterson andarono a preparare la trappola. Il dottore notò immediatamente che mi controllavo molto bene e si avvicinò.

“Sembri stare molto meglio!”

“Dovevo solo fare una passeggiata.”

“Fammi dare un’occhiata al petto.”

Aprii la tuta e mostrai la contusione. Aggrottò lo sguardo e puntò la lucina nei miei occhi. “È strano. Non avevo mai visto un simile miglioramento in un trauma del genere, molto strano.”

“Dottore, dal momento che sono in piedi ed abile, R.J. ed io dobbiamo dare un’occhiata al sistema di supporto. Ultima cosa, poi riposerò per ventiquattro ore, giuro.”

Il dottore era ancora stupito per il mio improvviso recupero. Si prese il mento fra le dita, mi fissò e scosse la testa. “D’accordo, ma alla prima ricaduta fili dritto qui.”

Gli feci segno col pollice alzato e ci avviammo all’uscita. Quando fummo soli, R.J. disse. “Conosco il segreto, Adrian. È stato facile.”

“Sarebbe?”

“C’è un sistema video riservato, accessibile solo al Capitano, per monitorare segretamente l’equipaggio e tu l’hai usato in qualche modo per localizzare l’alieno.”

“C’è quel vecchio detto, R.J. Potrei dirtelo, ma poi dovrei ucciderti.”

“È il nostro segreto.”

Quando arrivammo al reparto di Sussistenza, la squadra della sicurezza aveva già piazzato raggi spia a entrambe le estremità del corridoio e all’ingresso. Erano parecchio agitati e mi ritenni fortunato perché non ci avevano sparato.

Avevano richiamato dalla seziona di coda un ingegnere di Sussistenza. Stava al pannello di controllo in attesa di Ringo e Patterson. Dopo quarantacinque minuti la trappola era pronta. L’ingegnere di Sussistenza attivò una lenta eliminazione dell’atmosfera dell’ultimo ponte. Trascorse un tempo infinito, ma infine aprimmo e chiudemmo il portello di mezza nave, usando il cntrollo a distanza.

Mi aspettavo ci volesse di più. Potevano volerci ore, perché nella tuta aveva aria respirabile. Era possibile considerasse quella risorsa preziosa, avendone rubata molta della nostra. Avevano svuotato i cassoni più vicini ed avrebbero proseguito con gli altri se ne avessero avuti l’opportunità.

Ci affrettammo verso la trappola seguiti dal dottore e sbirciammo attraverso la finestra d’osservazione. La sezione di corridoio sigillata pareva vuota, ma sapevamo che lui era lì. Doveva sapere che sapevamo, ma mantenne il suo travestimento per disperazione, ormai scoperto.

Usando la valvola di dispersione sulla paratia temporanea, inondammo il corridoio di nebbia fredda finché con gli occhiali all’infrarosso fu visibile una fievole sagoma aliena. Il dottore immise un anestetico che pensava sicuro e in pochi minuti il prigioniero giacque al suolo.

La squadra speciale entrò, gli rimosse il comando da polso e lo legò con cinghie. Gli misero una maschera sul grugno, il dottore monitorò i segni vitali che poteva capire e lo portarono via.

La nave era finalmente sicura.

Traduz. di Roberto Climastone

Il primo punto all’ordine del giorno era liberare l’equipaggio nella sezione di coda. Li chiamammo, ma non rispose nessuno. R.J. e l’ufficiale della sicurezza si offersero volontari per la missione, se io promettevo di tornare in infermeria.

Quindi, non assistetti all’esodo dalla sezione di coda senza gravità di un centinaio e più di persone furiose, piangenti, ferite, malate, risentite e riconoscenti, ma mi dissero che la visione non poteva essere descritta da alcun poeta, passato o presente. I ragazzi della sicurezza che li coordinavano descrissero le maledizioni, i gemiti, le risa, i pianti, le ostilità, le preghiere, la collaborazione e l’entusiasmo, un rullo compressore di umani fuori controllo e disincantati.

Nella nave partì la valutazione dei danni e fu emessa una direttiva a quello scopo e, appena il personale fu disponibile, per il controllo di tutte le aree.

L’infermeria fu ben presto sovraffollata. Il che costrinse il dottore a lasciarmi andare. Gli serviva ogni letto e ogni più piccolo spazio sul cui riusciva a mettere le mani. Pensai di usare gli alloggi di Tolson, ma l’idea mi dava i brividi. Il mio umile alloggio fu di nuovo più invitante di quanto pareva possibile per delle mura di metallo e composito.

Sgomitai per i corridoi disorganizzati, pieni di persone e mi rifugiai nel mio piccolo alloggio. Impostai il terminale per svegliarmi nelle giuste condizioni e mi stesi delicatamente faccia in giù nel letto. Caderci sopra sarebbe stato troppo doloroso.

 

Il cicalino del computer sembrò attivarsi uno o due minuti dopo. Alzai lo sguardo e strizzai gli occhi verso lo schermo. Cinque ore. Ciò mi rese certo che viaggiare nel tempo era davvero possibile.

Fui piacevolmente sorpreso nel vedere Ann-Marie alla sua scrivania nell’ufficio sicurezza. Pareva stanca, ma a posto.

Sorrise al mio ingresso.

“Adrian, è un enorme piacere vederti.”

“Ma tu non dovresti riposare un po’?”

“Mi basta così. Non avrei mai pensato di essere tanto felice per tornare a lavorare.”

“Tu sai che sono felice anch’io di vederti qui.”

“Stanno chiamando tutti. Troppa roba. Li ho rimandati indietro e ho fatto scrivere i rapporti su computer, così sarà più facile leggerli.”

“Devo farlo io?”

Rise. “Da ciò che ho visto, leggere i rapporti dei sistemisti sarà la minore delle tue preoccupazioni.”

La sua affermazione era piuttosto seria. Potevo solo immaginare il casino in cui eravamo. Mi sedetti alla scrivania di Tolson e il mio odio per il lavoro d’ufficio mi richiamò severamente. Mi dissi che sarebbe stato per poco.

I rapporti di Ann-Marie erano già sullo schermo. Mi barcamenai deciso tra navigazione, sussistenza, comunicazioni, rete e tutto il resto. Problemi notevoli. Gli uomini avevano fatto un lavoro motivatissimo, oltre ogni aspettativa. Non avevano ancora lasciato la sezione di poppa dove erano stati isolati, che già scrivevano i loro rapporti.

Il guaio era che la situazione era pessima. Gli alieni avevano distrutto i cablaggi nelle varie sale di controllo a tutti i dispositivi periferici collegati. Linee che correvano attraverso le sezioni remote difficili da raggiungere. Le connessioni erano state bruciate, i cablaggi erano inservibili. I cavi in fibra anche peggio, si erano surriscaldati chissà come, al punto che il vetro nelle linee era contorto ed inutilizzabile. Era possibile comunicare all’interno della nave, ma le linee verso le parabole e le antenne erano distrutte. Forse potevamo ripararle e far ripartire i computer, ma non avremmo potuto comunicare con l’attrezzatura che dovevano controllare.

Questo era il risultato di ciò che gli alieni avevano fatto. Si era dovuto controllare la gravità a mano. I motori dovevano essere avviati manualmente. Avevano già distrutto i collegamenti prima che ci accorgessimo di loro. E se questo fosse stato il peggio, avremmo avuta qualche possibilità. Invece oltre a quei problemi c’era la perdita d’aria e di acqua. Sapevamo che ci avevano rubato più della metà delle scorte. L’inventario finale non era stato ancora scritto, perché molti dei sensori non funzionavano più. Quando avremmo ricevuto quelle informazioni, i livelli di aria e acqua ci avrebbero detto per quanto tempo saremmo sopravvissuti.

Dovetti immaginare dei rimpiazzi per i capi dipartimento dispersi, quindi organizzai una riunione del personale per reintegrare la dirigenza. Il Capitano aveva detto che erano già stati inviati segnali d’emergenza, ma le probabilità che li avessero bloccati erano elevate. Non potevamo fuggire nelle capsule di salvataggio e c’erano seri dubbi che qualcuno stesse arrivando per salvarci.

Puntai i gomiti sulla scrivania e mi massaggiai a fronte. Dovevamo andare a casa. Per farlo, dovevamo andare a velocità luce. Ma come fare a raggiungere la velocità luce.

Mi appoggiai allo schienale della sedia e sospirai. Chiesi ad Ann-Marie di prepararmi un diagramma di flusso del dipartimento con indicate tutte le persone disperse o fuori gioco. Mi rispose ‘Già fatto’ e mi indicò ancora la mia scrivania.

In un certo senso, riempire le posizioni vacanti non fu troppo difficile. In realtà molti di loro io non li conoscevo, per cui presi la persona più in alto di ogni diagramma e la promossi. Se invece era possibile, sceglievo persone che erano state molto molto utili nel nostro impossibile recupero. Per una delle molte ironie della vita, Maureen Brandon era sopravvissuta al massacro.

Faci pianificare da Ann-Marie una riunione del personale. L’unica piccola cosa che ci era indispensabile era un piano.

 

Arrivarono tutti con almeno quarantacinque minuti di anticipo. Li facemmo entrare e chiudemmo le porte. Non dovetti domandare il silenzio, erano già in silenzio.

“Bene, ho letto i vostri resoconti. A proposito, ottimo lavoro. Non ho la minima idea di come siate riusciti a fare così tanto e così rapidamente, ma grazie. Chiaro che è necessario occuparci dei problemi più urgenti, a partire dalla Sussistenza. Signor Leaman, ultimi aggiornamenti sui materiali critici?”

“Sappiamo di avere aria e acqua per meno di tre mesi. Abbiamo iniziato il viaggio con circa dodici mesi di riserve, il doppio del necessario, quindi ne hanno rubate parecchio prima di venire fermati. Possiamo probabilmente aspettarci di avere non più di due mesi di risorse con un uso normale, quindi il dobbiamo razionare immediatamente.”

“Quando avrà le cifre definitive?”

“Nelle prossime quattro ore. Le squadre devono andare in giro.”

“La prego di farmi sapere subito.”

“Dottore, condizione attuale?”

Il Dottor Pacell era esausto. Chiaramente non aveva avuto il riposo che io mi ero preso. Si tirò su provando di sembrare a posto. “Le vittime dell’assalto alieno vengono tenute in sospensione in un magazzino che abbiamo convertito allo scopo. Sto monitorando la zona di continuo. Poi, non abbiamo casi critici. Perk Holloway è stabile e va migliorando. Non vedo ragioni mediche per le quali non dovrebbe ristabilirsi completamente dopo un lungo periodo di cure. Gli altri casi vanno da ferite varie e stress psicologico. Tutti sono sotto trattamento e controllati.

“Ha tutto quello che le occorre, Dottore?”

“Considerando il numero dei feriti in vario modo, in quanto a risorse andiamo bene. Farò sapere se la situazione dovesse cambiare.”

“Bene. Propulsione, siamo pronti per le cattive notizie.”

Paul Kusama si alzò e si sporse in avanti. “I nostri motori tachionici sono in condizioni imperfette. I nostri Amp-luce sono in condizioni perfette. L’interfaccia coi controlli centrali è non funzionante e non riparabile. Possiamo solo assicurare il controllo manuale dei due motori. Per sistemare tutto ci vuole un lavoro di cantiere.” Si sedette incrociando le braccia, esprimendo così che non era colpa sua.

“Andiamo dritto al punto, è mai stato realmente tentato un salto a velocità luce in manuale?”

Senza alzare gli occhi, scosse la testa. “Non che io sappia.”

“Conosco i principi basilari, ma vorremmo una descrizione del problema.”

Rispose Leaman. “C’è un’onda d’urto quando si arriva a velocità luce e non è solo una cosa tipo ‘boom’ sonico. È più simile ad un lungo corridoio. Viene compensato con un algoritmo molto complesso generato dal computer e usato nella matrice gravitazionale. Il corridoio di “curvatura” spazio temporale gestisce tra l’altro la gravità fino allo scambio con i motori e costituisce un ambiente del tutto separato.”

“C’è una minima possibilità di ricollegarci con i generatori di campo gravitazionale?”

“Sono cinquecentomila cavi in fibra, oltre ad alcuni enormi cavi di alimentazione.”

Faci una pausa e mi guardai attorno in attesa di altri dati. Ottenni solo sguardi preoccupati.

Misi piano una mano sul tavolo. “È facile riassumere le nostre possibili scelte. Per come la vedo, possiamo aspettare sfruttando le attuali risorse vitali e sperando che qualcuno arrivi ad aiutarci, oppure possiamo tentare il salto a velocità luce col comando manuale insieme ai sistemi automatici che riusciremo a rimettere in funzione. Qualcuno ha una terza alternativa?”

L’atmosfera intorno al tavolo era tesa, il silenzio pesante. Uno dei tecnici della gravità che era stato promosso recentemente, disse nervoso. “Abbiamo già tagliato, lucidato ed inserito connettori ai cavi in fibra in passato.” Silenzio.

Gli venni incontro. “Intende riparare cavi in fibra che non funzionano?”

Si guardò intorno nervoso. “Dopo un aggiornamento ci siamo accorti che dai terminali veniva troppa luce. Le linee erano più corte del previsto e il laser saturava i recettori. Tagliammo la fibra ed inserimmo degli attenuatori per ridurre la quantità di luce. Le fibre dei nostri distributori di campo gravitazionale potrebbero essere tagliate, giuntate e connesse sul posto a nuove schede di computer.”

Guardai il nuovo capo del reparto Sopravvivenza, Barbara Deyo.

“Che ne pensa?”

Annuì. “È tutto giusto, ovviamente, ma stiamo parlando di un fascio di fibre in mezzo a mezzo milione di linee. Poi mezzo milione di canali di trasmissione Wi-Fi dal controller alle nuove schede. Inviare segnali di controllo alla matrice di campo gravitazionale su collegamenti Wi-Fi è un’altra delle cose mai fatte.”

Gli occhi di R.J. si illuminarono. “Lo scopo è tenere vive le persone. Non ci serve una gravità controllata in tutta la nave. Selezioniamo la zona più semplice per il controllo e riuniamo tutti lì per superare il salto.”

Ancora silenzio, ma anche un lieve brivido di speranza. La gente cominciò a guardarsi intorno invece di trattenere il fiato.

Deyo annuì ancora. “Comandante, dovrei andare da quelli di ingegneria per organizzare tutto e tirare fuori qualche numero. Chiamerò non appena avremo qualcosa per lei.” Senza attendere risposta, si alzò, fece cenno all’ex-tecnico di seguirla e si insinuò nella folla per uscire dalla stanza.

Gli argomenti secondari furono facili: turni, distribuzione del cibo e approvvigionamento energetico. Sembravano una distrazione perché il problema era di tornare a casa. Non dissi più del razionamento delle riserve aspettando l’arrivo dei numeri definitivi. Alla gente serviva normalità. Concludemmo pianificando di tenere in rete la successiva riunione.

Si aprirono le porte della sala riunioni e non avrei dovuto essere sorpreso per la folla di cinquanta e più persone che si era creata lì fuori. I partecipanti alla riunione si unirono agli altri, che ci fissavano con espressione interrogativa. Non ci sono altre porte adiacenti alla sala riunioni, quindi R.J. ed io fummo costretti ad uscire in mezzo a tutti. Rimasi sorpreso perché al mio passaggio si aprì un corridoio a cui dovetti passare in mezzo. Erano tutti in silenzio, solo qualche mormorio qui e là, sullo sfondo di poche conversazioni a bassa voce. Non sapevo che fare, quindi mi diedi un’espressione impegnata e proseguii con calma in direzione verso la Sicurezza. La folla si disperse silenziosamente mentre sparivamo dietro il primo angolo.

Senza guardare R.J., gli chiesi, “Che diavolo è successo?”

Fece un sorrisetto. “Penso tu gli piaccia alla gente.”

“Mi prendi in giro?”

“Sei fortunato che nessuno ti abbia chiesto un autografo.”

“Mio Dio.”

“Non preoccuparti. Almeno so che sei solo un uomo.”

“E che dovrei fare?”

“Niente. È un’ottima cosa. Se mai è esistito un momento in cui la gente ha avuto bisogno di credere in qualcuno o in qualcosa, è adesso. Sai cosa hanno passato e cosa li aspetta. Devi fare una cosa sola: andare in giro con espressione sicura e tutti penseranno che hai la situazione sotto controllo.”

“Mio Dio.”

“L’hai già detto.”

Traduz. di Roberto Climastone

Gli ingegneri impiegarono quattro ore a elaborare un piano di bypass delle fibre ottiche del generatore di gravità. Non era semplice. Sulla Terra l’avrebbero considerato assurdo. Servivano attrezzi lucidanti, microscopi e accoppiatori di fibre. Molti tecnici degli altri dipartimenti vennero dirottati sul progetto. Fu preparato un centro di addestramento per far vedere a tutti come installare i connettori. Quando i tecnici dimostravano di saper eseguire le giunture, venivano subito inviati alle aree di lavoro. Gli ispettori, addestrati allo stesso modo, giravano per assicurarsi che tutto funzionasse a dovere.

Il Gruppo Rifornimenti lavorò in parallelo, ventiquattr’ore su ventiquattro per individuare e piazzare le schede necessarie. Quando i rifornimenti finivano, entravano in gioco gli ingegneri per decidere da dove cannibalizzare e modificare, altre schede. Gli ingegneri informatici lavoravano a ciclo continuo per sviluppare il codice necessario a dare priorità al campo gravitazionale nella zona dove l’equipaggio si sarebbe rifugiato.

Quando arrivarono le cifre di aria ed acqua, i valori erano peggio del previsto. C’era aria per sessanta giorni, ma solo un’unità d’acqua del tipo a sacca. Per il gruppo significava circa cinque settimane. Questo rendeva inevitabile l’idea di andare a velocità luce manualmente.

Sebbene non fossi stato chiamato, decisi di tornare negli alloggi del Capitano. Luce bassa, nulla era cambiato nella stanza abbandonata. La porta dell’Inviato era chiusa. Sulla scrivania c’erano ancora documenti prima dell’invasione. I due computer mostravano lo stemma dell’Electra. C’era una strana immobilità. Mi aggiravo lento e stavo pensando di andar via, ma la porta si aprì dietro di me.

Lei entrò la stanza che si rischiarava, le mani appena davanti a sé. Ancora una volta quella sensazione di perfezione. Chissà se lei comprendeva i pericoli dell’accelerazione che stavamo per azzardare e se dovessimo preparare una zona speciale per lei.

“Trascendenza.”, fu la sua silenziosa replica. Aveva la sua soluzione personale.

Dovevamo fare dei preparativi per lei quando saremmo arrivati a casa?

“Spazio tempo non condiviso.”

Quella risposta mi mise alla prova. Stava dicendo che quando saremmo arrivati nel nostro sistema, lei non avrebbe fatto parte del nostro spazio-tempo. Sapeva che il concetto mi innervosiva. Era quel che voleva: i compiti a casa assegnati dalla maestra.

Mi chiesi come mai non ci avesse aiutati di più, essendo lei onnipotente.

La sua risposta fu piuttosto complicata. “Il meno possibile.”

Il sistema vitale nel quale esistiamo esiste per una ragione. È stato creato dalla somma intelligenza. Le regole che lo governano non possono essere infrante o modificate senza danneggiare lo scopo principale. Quando un essere evoluto lo facesse, sarebbe un peccato, nel senso che si riterrebbe più saggio del creatore. Lei ci aveva assistiti nel modo più lieve possibile, per equilibrare la partita contro una specie evoluta e malvagia. Poi è stato uno scontro di libere volontà. Aveva fatto del suo meglio per non aggirare la volontà del creatore o per esimerci dalla prova che dovevamo sopportare. Quella domanda mi imbarazzava, temevo fosse offensiva, ma lei se l’aspettava da subito.

Come al solito, la mia mente era sovraccarica ed avendo esaurito la ragione della mia visita non sapevo cosa dire. Però, non volevo lasciare lo cose così. Non era abbastanza. Volevo diventasse un’amicizia.

“Amicizia”, fu la sua replica. Mi obbligò ad alzare lo sguardo contro la mia volontà. Crebbe in me la tristezza all’idea di lasciarla.

Lei lo sapeva che ero imbarazzato, ma allo stesso tempo mi auguravo di vederla di nuovo.

“Così sarà.”, fu la sua replica, del tutto inattesa.

Lei si voltò e si ritrasse oltre la porta. Il che mi fece capire che questa volta era realmente stata con me nella stanza e non le volte precedenti. Guardò indietro e mi sorrise con la mente e la porta si chiuse.

Ripresi a respirare. Tornai nel mondo reale, pensai un ‘grazie’ verso di lei e me ne andai con tutta la sensazione di perfezione che riuscii a trattenere.

 

Le modifiche alla nave richiesero sette giorni. Allora avevamo consumato tutti i rifornimenti di materiale elettronico e tutte le risorse di supporto. Era tutto a posto. I motori erano stati programmati per comunicare tra loro. Il nuovo codice era stato testato e ritestato. L’ampia zona di carico scelta per proteggerci era stata preparata al meglio. Per Perk era stato preparato un letto apposta. Non c’era altro da fare. Tutti volevano solo tornare a casa. Alcuni lo chiamavano il volo della fenice, citando un vecchissimo film con James Stewart.

Non c’era nessun bisogno di guida. La navigazione, il salto a velocità luce ed il ritorno a velocità sub-luce sarebbe tutto stato gestito dai singoli computer dedicati ai sistemi che regolavano queste funzioni. Nessun controllo centrale, nessun sistema di navigazione. Saremmo andati praticamente a caso. Erano serviti due mesi per arrivare in questo settore di spazio. Viaggiando alla velocità di crociera del sessantotto percento di velocità luce, il livello standard di potenza per la modalità risparmio. Alla stessa velocità ci sarebbero voluti altri due mesi. Se ci fossimo azzardati al novanta percento, il tempo di rientro sarebbe sceso a quarantacinque giorni. Più bassa la velocità, più sicuri i nostri motori, ma significava passare più tempo nello spazio il che aumentava le possibilità di altri problemi. Alla fine, la votazione dei capi dipartimento fu unanime. Novanta percento di potenza, quarantacinque giorni. Se tutto avesse funzionato, avremmo rallentato a distanza di sicurezza dal nostro sistema solare.

Nel giorno della partenza, il salto era previsto alle ore 10:00. La gente iniziò ad arrivare alle sei. La maggior parte si allineò contro il muro, come se li dovessero fucilare. Altri erano seduti sul pavimento. Erano stranamente calmi e silenziosi. Era stato messo un computer all’entrata della sala. La telemetria era al minimo, ma una simulazione dei sistemi era stata sincronizzata sui cronometri della nave, per vedere un po’ di ciò che capitava e che era previsto.

Quando ci furono tutti, nella sala scese un silenzio di tomba prima degli ultimi dieci secondi. Un tecnico iniziò un sinistro conto alla rovescia su un computer provvisorio.

A zero, non ci fu attesa. Un movimento irregolare come un piccolo terremoto e una spinta graduale verso il retro della sala. Con l’accelerazione la gravità andava e veniva a ondate, eravamo pesanti, poi leggeri, poi ancora pesanti. Il corridoio di curvatura si avanzò in fretta, con strani effetti collaterali: vista annebbiata, vista doppia e orecchie tappate e il culmine fu un sobbalzo che causò un’esclamazione da parte di tanti. Poi, tutto tornò a fuoco. La cavalcata fu tranquilla. La simulazione mostrava il dieci percento di velocità luce, in aumento. Al settanta per cento aprimmo le porte degli hangar ed entrarono gli ingegneri a svolgere le loro funzioni. Avevamo raggiunto lo scopo, senza perdere un colpo.

 

La strategia era stata di radunare tutto l’equipaggio nei limiti dell’area protetta della sala di carico. Se per una ragione qualsiasi i motori ultra-luce avessero smesso di funzionare uscendo dalla velocità luce, quelli fuori da quella rete di sicurezza potevano restare feriti o uccisi. Si era detto che solo il personale essenziale si sarebbe mosso alla bisogna, ma col passare dei giorni la regola diventò piuttosto lasca. I direttori ritennero quel rischio accettabile e non inasprimmo il controllo. La gente passava il tempo nei loro alloggi per avere un po’ di tranquillità. Si svilupparono nuove intimità. Furono fatti servizi funebri per quelli che erano morti. La sala carico diventò una sorta di campo base. C’erano sempre gruppi di persone o singoli occupati ai loro passatempi preferiti, ma mai più di venti, o trenta. La sala fu decorata in vari modi: qualcuno disegnò dei murales, vennero messi dei fiori, alcuni artificiali, altri veri, erano ovunque. La piccola zona dove si preparano i pasti crebbe e i frigoriferi portatili erano strapieni di cibi non essenziali. Fu chiaro che non solo il dottore e io avevamo contrabbandato alcol a bordo.

Tre giorni prima del momento previsto per il ritorno a velocità sub-luce, crebbero ancora una volta tensione ed eccitazione. Le persone nella zona di carico aumentarono decisamente. Il tono delle voci era più alto ed energico. Si avvertiva l’aspettativa del ritorno a casa, assieme alla preoccupazione di una decelerazione mai provata.

L’attesa era forte e anche questa volta vennero tutti in anticipo. Avevano installato un grosso schermo per il conto alla rovescia di fronte al compartimento. Tutti diventarono seri, ma decisi, tra di loro si salutavano e volevano rassicurarsi. Nel compartimento di carico l’atmosfera era da chiesa.

Verso la fine, contammo le persone per essere sicuri che il gruppo fosse presente al completo. Le porte vennero chiuse. Si abbracciarono, alcuni pregarono, altri fissavano semplicemente lo schermo. A meno di dieci secondi, si udirono alcune voci fare il conto alla rovescia e allo zero capimmo subito che stava succedendo.

Prima ci fu uno spostamento da sinistra a destra, da davanti a dietro sotto i piedi. Fui scosso dall’euforia perché la programmazione stava funzionando al tempo giusto, ma poi mi tornò la stessa trepidazione di tutti. Poi, una serie di onde su e giù, tipo montagne russe, che si intensificavano diventando un effetto tipo asse da bucato, innervosendo qualcuno. Poi ci fu un forte botto da qualche parte a prua.

Mi risvegliai sul pavimento. Erano tutti finiti a terra. Iniziarono a risvegliarsi altri intorno a me. Mi misi in piedi guardando in giro. Nessuno sembrava ferito. Un tecnico della navigazione arrivò prima di me alle porte. Corse fuori e nel corridoio, con R.J.  e me alle calcagna. Si formò rapidamente un seguito. Spalancando le porte del reparto Navigazione, fissammo il grosso schermo di prua. Al suo centro c’era una stella molto più grande e vicina di ogni altra intorno a noi. Era la nostra. Era casa.

Traduz. di Roberto Climastone

Avevamo attrezzato una debole trasmittente generica, ma non ce ne fu realmente bisogno. In quattro ore, una nave Terrestre inviata dal comando centrale venne ad accogliere l’Electra. Non stavano aspettando nessuno.

Non riuscii ad ascoltare lo scambio tra la nostra marconista e l’altra nave, ma mi dissero che fu un eccitato discorso a base di quanto era successo, in una serie di frasi frammentate troppo esigue e sconnesse, in un tempo troppo corto, e che alla fine la povera donna era rimasta senza fiato e quasi svenuta.

Saputo quanto era capitato, vennero mandati dei rimorchiatori per agganciare l’Electra. Fummo immediatamente messi in quarantena. Durante il rientro ci fu mandata una speciale nave medica, con la priorità assoluta di isolare l’alieno. Ma non c’erano stazioni o avamposti così ampie da gestire circostanze tanto allarmanti e fummo perciò scortati in orbita Terrestre.

Nei giorni di rimorchio ci fu una spettacolare mancanza di disciplina sull’Electra come io non avevo mai visto. Da capitano sostitutivo non avevo responsabilità, ma ero contento. La mentalità di Adrian Tarn aveva preso piede. Come correre nudi sulla spiaggia senza pensieri. Le feste che sbocciavano a ogni livello. In sala sterile del reparto di Biologia c’erano coriandoli e pezzi di torta secca sul pavimento. Una volta l’ascensore si aprì con un mucchio di vestiti a terra e due persone nude che si baciavano. Aspettai la chiusura delle porte e presi quello dopo.

Permisero a Perk di sedersi con il braccio sinistro al collo. Noi due bevemmo succo di mela con le porte dell’infermeria aperte, guardando la folle festa che ci passava davanti a intervalli brevissimi.

Nel mezzo del viaggio, arrivò la nave medica con tutte le squadre speciali per il contenimento della minaccia aliena. Loro indossavano tute ambientali integrali e fecero una zona d’isolamento in Analisi Dati. Una piccola camera stagna e un sistema di controllo per proteggersi dalle infezioni. L’assurdità della situazione fu decisamente evidente quando le feste e celebrazioni andarono avanti anche attorno alle persone in tuta bianca che valutavano, documentavano e mettevano in sicurezza la nave.

Fummo messi in orbita sincrona con la Terra e a causa della quarantena e perché non c’erano stazioni orbitali o cantieri adatti a sistemarci, furono dirottati alcuni shuttle speciali per portare giù tutti. Per fortuna, non ci fu occasione per una riunione di tutto l’equipaggio, il che significava che non avrei dovuto stare in piedi di fronte a tutti provando a riassumere tutto in una maniera significativa. Ringrazierò sempre Dio per questo.

il comando dell’Electra fu assegnato a un equipaggio per recuperi speciali, persone addestrate a lavorare dove c’era stato un brutto incidente. Anche se avevano un addestramento speciale, non fu possibile prepararli alla vista del magazzino pieno di umani trasformati e di uno degli orrendi omini, capace se cosciente, di un certo controllo mentale, ora messo in sospensione. Li portai nelle zone giuste, ragguagliandoli al meglio e vidi che erano parecchio nervosi e chiedevano istruzioni, perché non esisteva una procedura per tali circostanze inusuali.

A un certo punto R.J. e io non fummo più necessari. Potevamo andarcene. A eccezione delle squadre di recupero, noi eravamo gli ultimi. Uno speciale shuttle di sicurezza ci attendeva alla camera stagna. Non ci avrebbero ancora lasciati liberi. Ci sarebbe stato da rispondere alle domande, consegnare i rapporti, gestire le informazioni. Ci avrebbero sistemati in uffici di Washington fino alla ricezione dei rapporti e al rilascio delle autorizzazioni. C’erano da prendere decisioni e poi, forse, ci avrebbero lasciati alla nostra vita.

Chiesi ad R.J. di aspettarmi alla camera stagna. C’era un’ultima cosa che volevo controllare. Quando il suo ascensore partì, andai verso gli alloggi del Capitano. All’ingresso, controllai il pannello di manutenzione. Le squadre di recupero non erano ancora arrivate lì. Entrai e chiusi la porta.

La porta dell’alloggio dell’Inviato era aperta. Lei non c’era da nessuna parte, né l’avvertivo. Entrai lentamente in quello che era il suo regno. Era l’alloggio più scarsamente arredato che avessi mai visto. Al centro della stanza c’era un piedistallo altro alla cintola. Sopra c’era una sfera di cristallo, dalle dimensioni di una nocciola. Era lì per me, il regalo di un’amica. La raccolsi ed avvertii dell’elettricità statica. Cambiava colore dentro e fuori ma di poco e non ce se ne sarebbe accorti senza fissarla per alcuni minuti. La strinsi e pensai ‘Grazie’, poi me ne andai.

R.J. mi aspettava alla camera stagna. Ci voltammo a guardare l’Electra. Non c’era motivo, ma sentivamo rimorso a lasciarla. Non dovevamo. Era stato il peggior incubo della vita. Perché tanto attaccamento per una nave che era appena tornata dall’inferno?

Dovevo ringraziarla. Ebbi un singulto e deglutii per nasconderlo. Avrei seguito i progressi e la sua traccia. Era stata la mia nave e lo sarebbe sempre stata.

Traduz. di Roberto Climastone

A Cocoa Beach su sottili sedie di paglia, Perk, R.J. ed io, osservavamo due delle più belle ragazze della Florida con addosso costumi da bagno così minuscoli da essere al limite dalla legge locale. I bicchieri in equilibrio sugli stretti braccioli, per non perderci nulla della bella scena.

Perk sorseggiò dalla bottiglia e annunciò con calma, “In avvicinamento, ore nove.”

Ci voltammo all’unisono a guardare. Nira sobbalzava scendendo la rampa del molo, con un secchiello pieno di ghiaccio e delle bottiglie. Il suo bikini era blu cielo con delle nuvolette. Era su lei il più bel bikini che avessi mai visto. Si avvicinò a grandi passi sotto i nostri sguardi d’apprezzamento e piazzò il secchiello in mezzo.

“Sto andando in acqua, cari terricoli.” si voltò e trotterellò sulla sabbia verso le onde.

R.J. cominciò a canticchiare a voce bassa, “Hmmm, ora ho visto entrambi i lati delle nuvole, da da da da…”

L’interruppi, “Non posso credere che vi abbiano promossi a ufficiali di ponte.”

R.J. non era d’accordo, “Beh, senti chi parla.”

“Ben detto,” aggiunse Perk, poi lui e R.J. brindarono con le bottiglie.

Sollevai la mia bottiglia. “Colpito.”

R.J. spazzò la sabbia dal suo e-reader, “Comunque Adrian, era medici.”

“Era cosa?”

“Parola di sei lettere che significa elargitori di piacere e dolore, medici.”

“Diamine, era facile.”

“Allora, tornerai a volare?” si intromise Perk, “Io si.”

R.J. lo ammonì, “Tu? Sei un relitto. Devo tenerti d’occhio.”

Perk fu sprezzante. “Sono praticamente del tutto guarito.”

“Cosa vuoi dire? Hai ancora quel grosso cerotto sul petto.”

“Sotto sono guarito. È solo una medicazione. Il dottore ha detto che posso entrare in acqua e fare tutto il resto con quello addosso.”

R.J. si rivolse di nuovo a me. “Allora? Tornerai sù?”

“Non se ne parla, R.J.. Ho abbastanza crediti extra da viverci per un bel po’. Era il mio piano fin da subito.”

R.J. si distrasse. “Perk, quella ragazza ti ha appena fatto un segno.”

“Cosa?”

“Già, vedi quelle due che stanno parlando con Nira? Quella in rosa ha appena guardato verso di te e ti ha fatto un cenno.”

“Davvero? Meglio andare a vedere se Nira ha bisogno di un drink o altro.”

Detto questo, Perk si alzò e trascinò I piedi verso il trio.

R.J. guardò verso di me. “Farai meglio a seguirlo. Bisogna tenerlo d’occhio. Non dovrebbe fare sforzi.”

Lo salutai quando se ne andò.

Il sole pomeridiano mi batteva sul petto quasi sano e ancora livido. Era una sensazione piacevole. La marea si alzava e disegnava delle linee nella sabbia. C’era tanto da mettere in ordine. Ci sarebbe voluto molto tempo. Pensai all’Inviato.

Nella mia sacca, in un sacchetto di cotone, c’era il cristallo tondo che mi aveva lasciato. Lo tenni in mano e avvertii il suo strano potere. Sentivo che al suo interno c’era un messaggio, ma non sapevo tradurlo. Era qualcosa del tipo ‘futuro inatteso’. Non riuscivo a immaginare cosa potesse voler dire ‘futuro inatteso’. Aprii la mano e lo guardai di nuovo. Era diventato nero ed era pieno di stelle.

FINE

Scontro mortale
Scontro mortale

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nato nel 1944, non ha tempo di sentire i brividi degli ultimi fuochi della grande guerra. Ma di lì a poco, all'età di otto anni sarà "La Guerra dei Mondi" di Byron Haskin che nel 1953 lo conquisterà per sempre alla fantascienza. Subito dopo e fino a oggi, ha scritto il romanzo "Nuove Vie per le Indie" e moltissimi racconti.