Piero Fiorili è stato uno dei massimi animatori dell’esperimento Bottega del Fantastico anni ottanta. Tutta la sua (e la nostra) storia è riportata abbastanza completamente qui, sul blog NuoveVie, anche perché accanto alla personale ricostruzione dei fatti, lo stesso Piero ha voluto intervenire con un ampio commento.

Questo articolo fa parte di quelli che sono stati pubblicati sul quinto numero de La Bottega del Fantastico, presente e disponibile solo su questo sito e in due articoli, quello più ufficiale del 26 Maggio 2016 e quello un po’ anticipato del 17 Settembre 2015. In queste due pubblicazioni la rivista in questione ha fatto quasi 2.000 download (1.920).

Comunque, Piero Fiorili, che negli anni in cui lo abbiamo conosciuto, passava dall’esperimento di Un’Ambigua Utopia (UaU), all’esperimento Bottega del Fantastico, afferma oggi di non volersi più interessare di fantascienza. Per cui questo è probabilmente l’ultimo articolo sull’argomento che Piero abbia prodotto (anno 2012). Il suo carattere è sempre stato abbastanza pessimistico, o per lo meno molto disilluso nei confronti della fantascienza e di chi fa fantascienza. Nel presente articolo non è molto da meno e però la sua analisi ricorda un grande autore italiano, Massimo Mongai, che proprio qui su Nuove Vie spiegava più o meno allo stesso modo perché, a suo avviso, la fantascienza non fosse definitivamente spacciata.

 

Da molti anni ormai si dibatte, anche e soprattutto tra appassionati di questo genere, sullo stato di salute della fantascienza. Si veda, per esempio, l’inchiesta promossa dalla rivista online Delos (n. 62 del 2001). Le opinioni dei lettori sono varie e contrastanti, com’è nella logica di queste iniziative, ma affiora qua e là il concetto che la fantascienza sia ormai “morta”.

Il motivo di questa presunta morte? Non c’è più un futuro sul quale costruire storie interessanti e meravigliose. È morto il sense of wonder, e con esso il sense of the future. Il futuro è già oggi, e non piace proprio per niente.

L’affermazione secondo la quale la fantascienza è morta perché non esiste più il futuro, perché il futuro è oggi, e quindi lo viviamo piuttosto che sognarlo, è un’affermazione tanto oscura quanto parziale e limitativa.

Oscura perché il futuro è pur sempre il futuro, e il presente non può che rincorrerlo senza alcuna speranza di raggiungerlo. La chiave interpretativa di questa curiosa affermazione è rappresentata dal “futuro immaginato dalla fantascienza nei suoi anni d’oro”, un futuro positivista che, come è stato osservato acutamente, prevedeva uno sviluppo illimitato della produzione e del consumo di beni grazie a fonti di energia inesauribili, e che si è arrestato o meglio è stato “raggiunto” dal presente  nel momento in cui (quasi) tutti noi, a quei beni abbiamo avuto accesso.

Ma una volta chiarito ciò che poteva essere percepito come “oscuro”, emerge pure la limitatezza di quella affermazione. Non è vero che abbiamo raggiunto tutto ciò che la fantascienza, nel suo periodo tecnologico e positivista, aveva immaginato. Sarebbe assai riduttivo nei confronti della fervida immaginazione di scrittori forse letterariamente non eccelsi, ma dotati di una incrollabile fede nel progresso scientifico e tecnologico.

Il problema è un altro. Già nel 1981, in occasione della conferenza “Countdown” organizzata dalla libreria universitaria CLUP, e alla quale avevo partecipato in rappresentanza della Bottega del Fantastico, avevo denunciato la battuta d’arresto della scienza, il ritardo della tecnologia rispetto alle aspettative della fantascienza (ma anche della gente comune) per “le meraviglie del possibile”, attese per il fatidico anno 2000. Le immagini oniriche di città verticali, con palazzi svettanti raggiunti da arditissime rampe aeree, col cielo solcato da mezzi volanti individuali e i piani inferiori pavimentati da marciapiedi mobili, erano popolarissime negli anni ’50. Si sperava che negli anni 2000 tutto ciò si realizzasse, o che almeno se ne cominciassero a vedere i primi prototipi.

Invece niente. Sapevamo benissimo, già nel 1981, che tutto ciò sarebbe rimasto un parto della fantasia. Avevamo la percezione netta che la scienza stesse segnando il passo, che le scoperte nel campo della fisica, delle leggi che regolano il mondo, si fossero fermate davanti a un muro invalicabile.

E di conseguenza, la tecnologia, la scienza applicata, non aveva più nulla, o quasi, da “inventare” per soddisfare le nostre necessità, prima fra tutte la mobilità individuale.

Al contrario, la mobilità è ora ridotta, regolamentata, a volte perfino negata, a causa della congestione dei mezzi di trasporto tradizionali. Era prevedibile dalla fantascienza, questa situazione? Certamente, ma avrebbe “inventato” una soluzione, attraverso una scoperta scientifica rivoluzionaria, e la sua immediata applicazione tecnologica. E perché non avrebbe dovuto pensare a questa soluzione “magica”, visto che al principio del secolo scorso era ancora in dubbio la realizzazione del volo di un mezzo più pesante dell’aria, e solo pochi decenni dopo la gente comune si spostava in aereo su lunghe distanze, “rimpicciolendo” il mondo?

La progressione geometrica del progresso scientificotecnologico, dalla metà dell’800 alla metà del ‘900, autorizzava ogni ottimistica previsione sul futuro. Un problema insolubile oggi, sarebbe diventato una scontata banalità entro una decina d’anni; quindi ogni sogno, ogni fantasia degli autori di fantascienza appariva come la mera anticipazione di un prossimo futuro.

Ma dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, dalla presunta “addomesticazione dell’atomo”, la scienza e la tecnologia ci hanno dato ben poco da sognare e da sperare. L’unica vera invenzione in quasi 70 anni è stato il laser, che è senz’altro utile in molte applicazioni, ma non risolve problemi fondamentali.

La miniaturizzazione dei circuiti elettronici ci ha dato, peraltro, possibilità che nemmeno la fantascienza aveva previsto. Effettivamente, nel 1981, quando lamentavo la scarsa utilità di questa evoluzione dell’elettronica, non immaginavo nemmeno io che entro vent’anni avremmo avuto in ogni casa una potenza di calcolo ben superiore a quella di grandi computer che la fantascienza stessa collocava in luoghi deputati, inaccessibili alla gente comune. Che avremmo avuto la telefonia mobile, questa sì prevista dalla fantascienza ma non in così breve tempo e con una diffusione così universale. Che avremmo potuto, a breve, chattare in tempo reale e contemporaneamente, con un polacco, un cinese e un messicano, ognuno nella propria casa.

Tuttavia, questo imprevisto sviluppo della comunicazione non risolve alcun problema fondamentale della società. Non solo non tocca il problema della mobilità individuale, ma non tocca nemmeno i temi scottanti delle materie prime, della produzione, della forza lavoro.

Il fatto è che ormai nessuno più si aspetta, dalla scienza e dalla sua applicazione tecnologica, una soluzione a questi problemi, che va dunque cercata altrove. Ma non si sa dove.

Il risultato di questa involuzione del “progresso” è la perdita di fiducia nel futuro: anzi, il futuro ormai atterrisce e terrorizza. Siamo nevrotizzati costantemente da lugubri profezie e allarmi più o meno giustificati da proiezioni nel futuro di attuali modelli di comportamento: che sia la crisi energetica piuttosto che la sovrappopolazione e la conseguente crisi alimentare, oppure il clima del pianeta o il suo inquinamento, le prospettive del prossimo futuro sono così pessimistiche, e ribadite quotidianamente, che non viene nemmeno voglia di immaginarne gli effetti e di costruirci sopra una storia, una distopia.

Abbiamo raggiunto non già il futuro fattosi presente, ma l’orizzonte del futuro, giacché non osiamo più spingere in là la nostra immaginazione per sognarlo, e accarezzare l’idea che sarà migliore del presente.

Questo sogno apparteneva a una società in espansione verso un crescente benessere, com’era la nostra (mi riferisco all’Italia) negli anni ’50 e ’60, all’epoca cioè della “scoperta” della fantascienza attraverso Urania e le numerose altre riviste dalla vita più effimera.

Così era anche nell’America degli anni ’30 e ’40 (giacché noi siamo sempre rimasti indietro di almeno un decennio rispetto al modello di vita nordamericano), ma già nei ’50 faceva capolino, soprattutto attraverso la rivista Galaxy, una nota di pessimismo sul futuro più prossimo.

Qui in Italia scoprimmo col solito ritardo, naturalmente, questo filone vagamente distopico che chiamammo fantascienza sociologica, ma che per lungo tempo non intaccò le nostre speranze e i nostri sogni: ci limitammo a giudicarlo un avvertimento, una possibile ma ancora scongiurabile  conseguenza dell’esasperato abuso di un modello di sviluppo basato sulla produzione e sul consumo.

Oggi abbiamo coscienza, invece, che tali conseguenze non sono affatto state scongiurate, e la sottile angoscia di quei racconti ha permeato ormai anche la nostra vita, le nevrosi di quei personaggi sono le nostre nevrosi.

Solo in questo senso si può dunque affermare che il futuro (quel futuro) lo stiamo vivendo oggi, e non se ne vede (o non siamo in grado di vederne) un altro all’orizzonte.

Tutto ciò sembra non incidere più di tanto sui nuovi lettori di fantascienza, sulle generazioni più giovani che scoprono ora il periodo “classico” della fantascienza, e che attraverso le poderose saghe immaginate dai vari Asimov, Heinlein, Vance, Dick e altri grandi sciencefictioneers, possono sognare un futuro ben più appetibile di quello che la realtà odierna sembra offrire. E infatti tali lettori sono quelli che nei sondaggi affermano entusiasticamente che la fantascienza è ben viva.

Almeno finché non avranno esaurito tutti i classici della golden age, e allora si accorgeranno che non c’è stato praticamente ricambio. Probabilmente quel giorno si uniranno anch’essi al de profundis della fantascienza.

Ma il problema investe principalmente gli autori, che nel tentativo di immaginare il futuro secondo le tendenze scientifiche e sociologiche contemporanee, si trovano di fronte alla nebbia più fitta.

Il fenomeno del cyberpunk, che pure ha avuto vasta eco mediatica negli anni ’80 e ’90, ha già esaurito le sue scarse possibilità. Bruce Sterling, l’ideologo del movimento cyberpunk, ha infatti dichiarata conclusa quell’esperienza (a Gorizia, per il Film Forum Festival 2011), dandone la colpa, come affermavo io nel 1981, all’impasse della scienza.

Genere morto e sepolto, dunque?

Non direi ancora. Io credo che, finché il cinema di fantascienza (chiamato un po’ spregiativamente scifi) non avrà a sua volta esaurito la sua capacità di stupire e ammaliare con immagini mirabolanti, il genere fantascientifico non potrà ancora essere considerato una vestigia del passato, come lo sono, per esempio, i romanzi esotici di Emilio Salgari, che in questi tempi di voli charter a Bali o a Sumatra hanno perduto ogni alone di meraviglia e mistero.

© 2012 Piero Fiorili