La Principessa di Marte è il primo volume del famoso ciclo John Carter di Marte, detto anche Ciclo di Barsoom. Si tratta del lavoro più famoso di Edgar Rice Burroughs, se escludiamo l’atro suo ciclo, quello di Tarzan delle scimmie, da noi già presentato qui. A cominciare da oggi vogliamo proporre una nuovissima e recentissima traduzione de La Principessa, per tutti coloro che non conoscono questo ciclo. E per chi, pur conoscendolo, volesse tornare a leggerlo.
Riporto da Wikipedia:

Il Ciclo di Barsoom o Ciclo di Marte è una serie letteraria science fantasy di Edgar Rice Burroughs. Il romanzo d’esordio è La principessa di Marte pubblicato nel 1912 a puntate sulla rivista The All-Story e poi raccolto in volume unico nel 1917. A questo fanno seguito altri otto romanzi e due raccolte di novelle.

La nostra intenzione è la stessa di The All-Story ed ecco quindi la prima puntata. Tutte le puntate saranno facilmente rintracciabili cercando la categoria o il Tag John Carter.

Prefazione

Al Lettore di Quest’Opera:

Nel presentare a voi il singolare manoscritto del Capitano Carter sotto forma di libro, ritengo opportuno premettere qualche parola su questa figura straordinaria, che credo susciterà il vostro interesse.

Il mio primo ricordo del Capitano Carter risale ai pochi mesi che trascorse nella casa di mio padre in Virginia, poco prima dello scoppio della guerra civile. Avevo allora appena cinque anni, ma ricordo vividamente quell’uomo alto, bruno, dal viso glabro e dall’aspetto atletico, che chiamavo affettuosamente “Zio Jack”.

Era sempre sorridente, partecipe dei giochi dei bambini con la stessa gioiosa cordialità che mostrava nei passatempi degli adulti. A volte restava per ore a intrattenere la mia anziana nonna con racconti della sua vita selvaggia e avventurosa nei luoghi più remoti del mondo. Lo amavamo tutti, e persino i nostri schiavi sembravano venerare il terreno che calpestava.

Era un autentico esempio di virilità: superava di almeno due pollici i sei piedi di altezza, con spalle larghe, fianchi stretti e l’andatura sicura di un uomo abituato al combattimento. I suoi tratti erano regolari, ben definiti; i capelli, neri e tagliati corti; gli occhi, di un grigio d’acciaio, riflettevano un carattere forte e leale, ardente e risoluto. I modi erano impeccabili, e il suo stile era quello del perfetto gentiluomo del Sud, nella sua forma più nobile.

La sua abilità a cavallo, specie durante le cacce alla volpe, era tale da stupire anche in una terra famosa per i suoi cavalieri. Mio padre lo ammoniva spesso per la sua temerarietà, ma lui rideva soltanto, dicendo che la caduta che l’avrebbe ucciso sarebbe avvenuta da un cavallo non ancora nato.

Allo scoppio della guerra, ci lasciò, e non lo rividi per quindici o sedici anni. Quando tornò, fu senza preavviso, e con mio grande stupore notai che non era invecchiato di un giorno, né mostrava alcun cambiamento visibile. In compagnia degli altri era lo stesso amico affabile e spensierato di un tempo, ma quando credeva di essere solo, lo sorprendevo assorto per ore, con lo sguardo perduto e il volto segnato da una struggente malinconia. Di notte lo vedevo spesso seduto a fissare le stelle. Solo molti anni dopo, leggendo il suo manoscritto, compresi cosa cercasse.

Ci disse di aver trascorso parte degli anni successivi alla guerra cercando oro e lavorando in Arizona, e la sua agiatezza sembrava confermare che fosse stato assai fortunato. Ma su quel periodo della sua vita era reticente, e si rifiutava categoricamente di parlarne.

Rimase con noi circa un anno, poi si trasferì a New York, dove acquistò una piccola proprietà sul fiume Hudson. Lo andavo a trovare una volta l’anno, in occasione dei miei viaggi d’affari – mio padre ed io gestivamo una catena di empori in tutta la Virginia. La casa del Capitano Carter era un cottage piccolo ma incantevole, su un’altura che dominava il fiume. Durante una delle mie ultime visite, nell’inverno del 1885, lo vidi dedicarsi con grande impegno alla scrittura – presumo ora che fosse intento a redigere questo stesso manoscritto.

In quell’occasione mi disse che, se gli fosse accaduto qualcosa, desiderava che mi occupassi dei suoi beni. Mi affidò la chiave di uno scomparto nella cassaforte del suo studio, dove avrei trovato il suo testamento e alcune istruzioni personali che mi fece giurare di seguire scrupolosamente.

La notte stessa, dalla finestra della mia stanza, lo vidi in piedi al chiaro di luna, sull’orlo del dirupo che si affacciava sull’Hudson, con le braccia protese verso il cielo in un gesto che mi parve una supplica. All’epoca pensai stesse pregando, sebbene non lo avessi mai considerato un uomo particolarmente religioso.

Diversi mesi dopo il mio ritorno, credo fosse il primo marzo 1886, ricevetti un telegramma che mi chiedeva di recarmi da lui con urgenza. Ero sempre stato il suo nipote prediletto tra le nuove generazioni dei Carter, e mi affrettai a partire.

Arrivai alla piccola stazione, a circa un miglio dalla sua proprietà, la mattina del 4 marzo 1886. Il vetturino, alla mia richiesta di condurmi dal Capitano, mi diede una notizia sconvolgente: il Capitano era stato trovato morto all’alba di quel giorno, dal guardiano della tenuta vicina.

Per quanto la notizia mi colpisse, non mi sorprese. Mi affrettai a raggiungere la casa per occuparmi del corpo e delle sue volontà.

Trovai il guardiano, il capo della polizia locale e alcuni cittadini radunati nello studio. Il guardiano raccontò di aver trovato il corpo ancora tiepido, disteso nella neve, con le braccia rivolte verso l’alto, proprio sul ciglio del dirupo. Mi mostrò il punto, ed ebbi un’immediata certezza: era il medesimo luogo in cui lo avevo visto quelle notti, con le braccia levate al cielo.

Non vi erano segni di violenza, e con l’aiuto di un medico del posto, la giuria del coroner stabilì rapidamente che si trattava di un arresto cardiaco. Rimasto solo nello studio, aprii la cassaforte e recuperai i documenti indicati. Alcune istruzioni erano alquanto singolari, ma feci tutto il possibile per seguirle alla lettera.

Mi ordinava di trasportare il suo corpo in Virginia senza imbalsamazione, e di deporlo in una bara aperta all’interno di un sepolcro da lui fatto costruire in precedenza – un sepolcro, appresi poi, perfettamente ventilato. Era categorico sul fatto che dovessi supervisionare personalmente ogni dettaglio, anche agendo in segreto, se necessario.

La sua eredità fu disposta in modo che io ne percepissi i redditi per venticinque anni, al termine dei quali il capitale sarebbe diventato mio. Mi lasciava anche questo manoscritto, con l’ordine tassativo di conservarlo sigillato e intatto per undici anni, e di non divulgarne il contenuto prima che fossero trascorsi ventuno anni dalla sua morte.

Un dettaglio inquietante: la porta del sepolcro, dove giace ancora oggi, è chiusa da una massiccia serratura dorata a molla… che può essere aperta solo dall’interno.

Con la massima stima,
Edgar Rice Burroughs


Capitolo I

Sulle Colline dell’Arizona

Sono un uomo molto vecchio; quanto esattamente, non lo so. Forse ho cent’anni, forse più, ma non posso dirlo con certezza, poiché non sono invecchiato come gli altri uomini, né ho memoria della mia infanzia. Per quanto posso ricordare, sono sempre stato un uomo di circa trent’anni. Appaio oggi come apparivo quaranta e più anni fa, pur avendo sentore di non poter vivere per sempre; un giorno morirò la morte vera, da cui non c’è più resurrezione.

Non so perché dover temere la morte, essendo io morto due volte, pur essendo ancora vivo; ma, provo lo stesso orrore che provate voi, che non siete morti mai, e credo sia proprio questa paura a convincermi della mia mortalità.

Ed è per tale certezza che ho deciso di scrivere la storia dei più interessanti periodi della mia vita e della mia morte. Non posso spiegare i fenomeni e, con le parole di un umile soldato di ventura, posso solo raccontare gli strani eventi che mi sono capitati nei dieci anni in cui il mio corpo morto giacque inosservato in una caverna dell’Arizona.

Non ho raccontato mai questa storia, né alcun uomo mortale vedrà il mio manoscritto finché non avrò raggiunto l’eternità. So che nessuna mente umana normale potrà credere a ciò che non può comprendere e quindi non intendo essere messo alla gogna in pubblico, né da un pulpito, né dalla stampa; additato come un gigantesco bugiardo anche se sto solo raccontando semplici verità che un giorno la scienza non potrà che confermare. Forse le intuizioni che ho acquisito su Marte, e le conoscenze che posso condividere in questo racconto, aiuteranno a comprendere prima i misteri del nostro pianeta gemello; misteri per voi e non più per me.

Il mio nome è John Carter, ma sono meglio conosciuto col nome di Capitano Jack Carter della Virginia. Alla fine della Guerra Civile, mi ritrovai con diverse centinaia di migliaia di dollari — confederati — e il grado di capitano nella cavalleria di un esercito che non c’era più; al servizio di uno Stato scomparso insieme alle speranze del Sud. Senza padroni, senza denaro, e con un’unica mia arte — combattere — ormai inutile, decisi di dirigermi a sud-ovest, nella speranza di ricostruire la mia fortuna cercando oro.

Trascorsi quasi un anno a cercare filoni auriferi in compagnia di un altro ufficiale confederato, il capitano James K. Powell di Richmond. Fummo fortunati: sul finire dell’inverno del 1865, dopo mille fatiche e privazioni, scoprimmo una vena di quarzo aurifero che superava persino le nostre fantasie più sfrenate. Powell, che aveva una formazione da ingegnere minerario, stimò che avessimo a disposizione più di un milione di dollari in minerale, e tutto in appena tre mesi.

Con attrezzature rozze com’erano le nostre, era evidente che uno di noi doveva tornare alla civiltà per acquistare macchinari adeguati e portar lì un gruppo d’uomini per sfruttare la miniera. Poiché Powell conosceva il territorio e le esigenze tecniche, decidemmo che sarebbe stato lui a muoversi. Io sarei rimasto a sorvegliare il giacimento, nel caso, improbabile, che qualche cercatore errante cercasse di rubarcelo.

Il 3 marzo 1866, caricammo le provviste di Powell su due muli, ci salutammo, e lo vidi allontanarsi in sella al suo cavallo lungo il sentiero che scendeva verso la valle, prima tappa del suo viaggio. Quella mattina, limpida e serena come quasi tutte le mattine in Arizona, lo osservai a lungo avanzare, sempre più lontano, finché nel pomeriggio scomparve tra le ombre della successiva catena montuosa.

Mezz’ora dopo, lanciai un’occhiata distratta verso la valle e con mia sorpresa notai tre punti proprio dove avevo visto scomparire Powell. Non sono uno che si preoccupa in genere, ma più cercavo di convincermi che fosse tutto normale —magari erano antilopi o cavalli selvatici — meno riuscivo a tranquillizzarmi.

Da quando eravamo arrivati in quelle terre, non avevamo visto un solo indiano ostile. Eravamo diventati imprudenti, addirittura scherzavamo sulle storie di temibili predoni che infestavano i sentieri, che uccidevano e torturavano chiunque capitasse nelle loro grinfie.

Powell era armato, e sapeva difendersi; era un veterano nella guerra con gli indiani… Ma anch’io avevo combattuto a lungo contro i Sioux del Nord, e sapevo quanto poco valessero tali abilità con un gruppo di Apaches esperti nelle tecniche di inseguimento. Non potevo più restare lì. Mi armai con due revolver Colt, un fucile, e riempii le cartucciere. Saltai sul mio cavallo e mi lanciai lungo il sentiero già percorso da Powell.

Appena arrivato in pianura, spronai il cavallo al galoppo, rallentando solo dove il sentiero diventava troppo impervio. Verso il crepuscolo, trovai un punto in cui altre orme si univano a quelle di Powell: erano tre pony senza ferri, e correvano al galoppo. Era chiaro: lo stavano inseguendo.

Continuai a seguire le tracce finché non calò la notte. Aspettai il sorgere della luna per poter andare avanti. Ero combattuto: forse mi stavo preoccupando per niente, e Powell era sano e salvo. Ma non potevo ignorare il richiamo del dovere, che per me è sempre stato una specie di ossessione. Forse è per questo che tre repubbliche mi hanno decorato, che ho ricevuto onori, l’amicizia personale di un vecchio potente imperatore e di diversi re, sotto i cui vessilli ho versato il mio sangue in tante battaglie.

Quando la luna fu abbastanza alta, ripresi la marcia. Verso mezzanotte raggiunsi la sorgente dove era previsto che Powell si sarebbe accampato. Ma il posto era deserto, nessun segno di sosta: solo le tracce dei cavalli, ancora in corsa. Non c’era più dubbio, erano Apaches, e volevano Powell vivo… per torturarlo.

Spinsi il mio cavallo al massimo, ma fui interrotto da due spari lontani. Powell era nei guai. Spronai ancora di più la cavalcatura lungo il sentiero montano. Dopo un miglio, sbucai in un altopiano e ciò che vidi mi gelò il sangue.

L’altura era punteggiata da tepee indiani e centinaia di guerrieri si affollavano intorno a qualcosa al centro del campo. Nessuno mi aveva notato. Avrei potuto tornare indietro, al sicuro, ma tale pensiero non mi sfiorò nemmeno. Non mi considero un eroe e tutte le volte che ho affrontato la morte è stato perché non ho riflettuto molto. Agisco, e basta. Così, senza pensarci, estrassi le pistole e mi lanciai verso il campo, urlando come un indemoniato e sparando a più non posso.

La sorpresa funzionò: pensarono che stesse arrivando un intero reggimento e fuggirono per armarsi a dovere. Quando mi avvicinai, vidi Powell: il corpo trafitto da frecce. Era decisamente morto. Ma non avrei permesso a quei bastardi di mutilarlo.

Lo misi in sella e mi lanciai verso la parte opposta dell’altopiano. Gli indiani avevano finalmente capito che ero solo e iniziarono a inseguirmi con urla, frecce e proiettili. La mia salvezza fu la confusione, il buio e la velocità.

Il mio cavallo, seguendo l’istinto, prese un sentiero diverso da quello normale e fu questo a salvarmi. Gli inseguitori si lanciarono dalla parte opposta. Mi fermai su un promontorio e vidi gli Apache sparire tra le rocce. Potei respirare.

Proseguii lungo un nuovo sentiero che seguiva la parete rocciosa, largo e in salita. Dopo un centinaio di metri, arrivai all’imbocco di una caverna. Era l’alba, ma, come spesso accade in Arizona, arrivò all’improvviso.

Scesi da cavallo, posai Powell a terra, e tentai in ogni modo di rianimarlo. Ma fu tutto inutile. Mi arresi con dolore: Powell era stato un uomo straordinario, un amico leale. Lo lasciai lì e mi infilai nella grotta per esplorare.

La caverna era ampia, con pavimento liscio e tracce evidenti di abitanti del passato. In fondo, un’oscurità impenetrabile. Mentre ispezionavo, fui invaso da una strana sonnolenza. Pensai fosse stanchezza, e cercai di resistere. Ma fu più forte di me. Mi mossi verso l’uscita, barcollai… e piombai privo di sensi sul pavimento della caverna.

 

Traduzione di Franco Giambalvo © 2025
L’immagine di copertina è stata ricavata tramite IA Microsoft

Edgar Rice Burroughs
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(Chicago, 1º settembre 1875 – Encino, 19 marzo 1950) è stato uno scrittore statunitense, autore, fra l'altro, del ciclo di romanzi incentrati sulla figura di Tarzan, il personaggio della giungla allevato dalle scimmie che ha alimentato la fantasia dei lettori e degli appassionati di cinema di più di una generazione.