Frugando tra vecchi quaderni del periodo in cui frequentavo l’università di Bologna, mi sono trovato tra le mani un singolare quaderno dalla copertina satinata e di un bel rosso acceso. Su di essa spiccava in bella vista il mio nome scritto in uno stampatello un po’ stentato. Preso dalla curiosità ne ho sfogliato le prime pagine trovandomi ben presto proiettato sul finire degli anni Settanta. Erano gli appunti di un ragazzino con la passione per l’astronomia. Quel ragazzino ero io.

Dopo un veloce confronto con l’amico Franco Giambalvo, direttore della webzine ‘Nuove Vie’, è nata l’idea di trasformare quei disadorni appunti di viaggio di un tredicenne alla scoperta del cosmo, in una serie di brevi narrazioni tra lo scientifico e il letterario con il palese obiettivo di suscitare, in chi mi seguirà in questa avventura letteraria, quel sottile piacere che accomuna chi scrive con chi legge.

In questa antologia a puntate non troverete balzane vicissitudini di fantomatici e grotteschi personaggi, con cui sono solito animare i miei racconti, e neppure incredibili viaggi spaziali alla scoperta di ancor più incredibili mondi, ma una vera e propria ricostruzione archeologica per arrivare all’origine della mia passione per il fantascientifico e scoprire che ciò che realmente anima uno scrittore di fantascienza potrebbe risultare ben più complesso di ciò che l’apparenza indurrebbe a ritenere.

Buona lettura.

 

Con una certa attenzione affrontai l’ultima rampa di scale che portava alla mansarda. La mia non era una casa, ma una torre! Per raggiungere il sottotetto dal piano terra era necessario vedersela con ben quarantasei gradini di fine granito color verde eucalipto. Se ciò non bastasse, l’ultimo tratto, per l’appunto quello che mi stavo accingendo a salire, era pure a maggior pendenza rispetto agli altri e, da buon ingegnere, credo di essermi pure divertito a calcolarla, ma astenetevi dal commentare, so leggere nei vostri pensieri.

Non nascondo che in passato salire e scendere tutti quei gradini per una mezz’ora abbondante con uno zaino in spalla del peso di una decina di chilogrammi, era un ottimo esercizio per allenare gambe e sistema cardio vascolare. Non giudicatemi male, ma l’arrampicata sportiva era tra i miei svaghi all’aria aperta e un esercizio di quel genere era sicuramente un toccasana.

Fin qui nulla di strano se non che la salita stava avvenendo reggendo tra le braccia un pesante scatolone pieno di libri che finalmente mi ero riproposto di sistemare nel sottotetto. Capirete che un minimo di attenzione fosse più che doveroso vedendo a fatica dove mettere i piedi. Sarebbe stato paradossale volare giù dalle scale per chi come me si divertiva ad affrontare ben altri tipi di salite.

Un’occhiata a destra, una a sinistra, un passo in avanti e poi ancora un altro, sguardo verso il basso e via di nuovo sino a conquistare l’ambito pianerottolo.

Un impercettibile velo di sudore mi imperlava la fronte, ma ce l’avevo fatta.

Posi lo scatolone per terra. La mansarda era avvolta nella penombra, la tenda oscurante della finestra a tetto era estesa per quasi tutta la sua lunghezza impedendo alla luce del giorno di prendere seriamente possesso dell’ampia stanza in cui mi trovavo. Alla mia sinistra, saldamente ancorato alla parete, si trovava un piccolo mobile con stretti scaffali realizzato utilizzando dei tavolacci di legno color giallo solitamente impiegati per preparare le strutture di contenimento delle gettate di cemento.

Era una delle tante suppellettili che l’estro creativo di mio padre aveva partorito per arredare la mansarda in uno stile a dir poco minimalista. Egli era particolarmente affezionato all’uso di quel tipo di materiale.

A suo dire era il legno migliore per fare delle librerie, scaffalature o tavoli, perché nel tempo non rischiava di imbarcarsi e tenendo conto del livello di umidità presente nella bassa, mi sa che avesse proprio ragione.

Raggiunsi la finestra a tetto per dare luce al locale aprendo completamente la tenda che velocemente si riavvolse su sé stessa liberando nell’aria un fiotto di polvere.

Lo scaffale più alto era occupato nella parte di sinistra da testi universitari. Fedeli compagni di ore e ore spese a preparare esami di elettronica, sistemi di controllo, meccanica razionale, geometria, chimica, linguaggi di programmazione e analisi matematica, tanta, tantissima analisi matematica.

Osservando tutti quei vecchi volumi, sacro sacello di conoscenza e polvere, con un pizzico di nostalgia mi si palesarono lentamente alla memoria le vicissitudini che li aveva visti protagonisti negli anni di studio.

Ognuno di loro avrebbe avuto una storia da raccontare se solo qualcuno avesse avuto il tempo di ascoltarli. Quelli di analisi matematica erano i miei preferiti. Non tanto per l’apparato teorico in essi contenuto quanto per quello pratico che quell’esorbitante numero di teoremi serbava gelosamente.

È difficile trasmettere ad altri il personale piacere che traevo nell’analizzare il comportamento di una funzione matematica, perché di questo si occupava l’analisi matematica, svelare cosa si celasse dietro un apparente groviglio di operatori aritmetici, numeri e simboli.

Immaginate di versare a piccoli getti un vino rosso, corposo, profumato che lentamente va a colmare in parte la coppa di un calice di cristallo. Con un gesto deciso del polso imprimete a quel prezioso liquido un lento moto rotatorio per poi subito dopo inspirarne profondamente, a occhi chiusi, gli effluvi che da esso si sprigionano. A quel punto accostate in religioso silenzio le labbra al bordo della coppa e libate un primo sorso.

Un gusto acido vi percorrerà quasi istantaneamente i lati della lingua per poi infrangersi nella parte più interna liberando sentori di frutti rossi e tabacco che si richiuderanno su un persistente aroma di vaniglia.

A questo punto riaprite gli occhi e osservate gli archetti di vino formatisi ai lati della coppa che a poco a poco si dissolveranno al vostro sguardo. Un profondo, ancestrale, benigno senso di piacere si sarà impossessato di voi.

Bene, questo era ciò che provavo quando, come un abile chirurgo, mi divertivo a dissezionare quell’accozzaglia di formalismi matematici sino ad arrivare a tracciarne il grafico che gradualmente compariva sul foglio quadrettato che tenevo tra le mani.

Nella parte destra, sempre dello stesso scaffale, facevano bella mostra di sé i libri che negli anni avevano alimentato le mie passioni e al contempo stimolato la curiosità a spingermi sempre un passo oltre.

Tutti rigorosamente ordinati per altezza (forse ero un tantino maniacale), partendo dal più alto dedicato al sistema solare per poi andare via via a scalare verso la zona centrale con una preziosa guida alle stelle, a cui seguiva un testo base sui buchi neri che faceva compagnia a un trattato sui fossili e a un discreto tomo di chimica analitica.

Il punto d’incontro? Un libercolo per il calcolo logaritmico che se la parlottava con uno stretto manualetto delle edizioni Hoepli dal titolo ‘Astronomia primi elementi’. Quasi immaginavo che a notte fonda, nel più completo silenzio della mansarda, i libri si destassero all’improvviso e iniziassero a intavolare sconclusionate discussioni di cosmologia, universi paralleli, equazioni differenziali e orbite planetarie per poi, ormai esausti, al fare dell’alba, con un cenno di saluto, rientrare ligi al posto che avevo loro assegnato sullo scaffale.

La seconda mensola era semivuota. Anche qui testi universitari. I primi otto da sinistra appartenevano alla ‘Collana SCHAUM’.

I libri erano tutti della stessa altezza, copertina color arancio vivo, leggermente corrugata al tatto. Amavo tremendamente quei libri. Mi piaceva tenerli tra le mani e velocemente far scorrere tra le dita le ruvide pagine color avorio, profumavano di antico e conoscenza.

Un paio di libri di geometria e quattro di fisica chiudevano la fila. Tutti rigorosamente con sovra-copertina di plastica trasparente che lasciava intravedere, ormai ingialliti dal tempo, i piccoli pezzi di nastro adesivo usato per fissarne i lembi alla costa.

Il solo pensiero di sfogliarli dopo così tanti anni di riposo mi metteva a disagio, avevo il timore che quelle pagine consunte dal tempo potessero staccarsi come i petali di un fiore senza vita e solo all’apparenza ignaro del passare delle stagioni.

Mezzo scaffale era vuoto, sicuramente quello il posto migliore dove collocare i nuovi compagni del simposio di tarda notte, mi dissi, strizzando l’occhio verso la libreria.

Mentre stavo sistemando i vari libri continuando a rispettare l’ordine costituito, ovvero dal più alto al più basso, il mio sguardo venne catturato da un piccolo quaderno dalla copertina rossa che sembrava stesse volutamente cercando di sfuggire alla mia attenzione forse timoroso che avessi cattive intenzioni nei suoi confronti.

Lo presi tra le mani. Al centro della copertina riportava il mio nome scritto in corsivo e nella parte inferiore era stampato il simbolo stilizzato di un salvadanaio seguito dalla scritta ‘CASSA DI RISPARMIO’.

Dovetti fare un balzo di più di quarant’anni nel passato, ma il ricordo mi fu subito chiaro, si trattava dei quaderni che le varie banche locali regalavano alle scuole. Chi non ne ha posseduto almeno uno?

Stavo per gettarlo, ma qualcosa mi trattenne dal farlo. Lo aprii, giusto per verificarne il contenuto, vedi mai che vi fosse qualche scritto di particolare interesse, mi dissi.

Ciò che trovai annotato nella prima pagina non fece che alimentare ulteriormente la mia curiosità: ‘Appunti di Astronomia su osservazioni fatte’.

Subito sotto, in un esausto inchiostro violaceo, il timbro con il mio nome e indirizzo di quando abitavo ancora con i miei genitori. La meraviglia nel leggere quelle semplici parole mi indusse a portarmi sulla seconda pagina e ciò che trovai mi stupì, commosse e inorgoglì allo stesso tempo.

Pagine ingiallite dal tempo. Erano gli appunti di viaggio nel cosmo di un tredicenne che amava guardare all’insù. Di seguito, in originale, ciò che lessi:

“24/6/79 (oss. tel. rifrat. 30×30) AR: 0h 37m decl. +40° 43’

Alle 12/10 sono riuscito a trovare, dopo ben 2 ore di ricerca, M31.

Nel telescopio appariva come una nube ovale dai contorni non ben definiti; a poco a poco che ci si avvicina al centro la luminosità aumentava mostrando il centro galattico.

Ho preso molti disegni della galassia dei quali quasi tutti sono rassomiglianti.

Questa lunga ricerca è stata ostacolata dal fatto che ho sbagliato la posizione di osservazione, perché le stelle della costellazione non erano ben visibili e solo dopo uno sguardo più accurato alla carta sono riuscito a trovare le stelle base.”

 

Erano passati quarantatré anni da quella sera. Mentirei se affermassi di ricordare ogni singolo dettaglio di quel momento, del resto era questa la ragione per cui tenevo degli appunti. Di certo non avrei mai immaginato che in un lontano futuro ne avrei ricavato una storia da condividere con altri e, soprattutto, che ad altri potesse interessare.

Quaderni: il mio telescopioPer le mie osservazioni notturne utilizzavo un piccolo telescopio rifrattore dotato di un obiettivo del diametro di ben 30 mm con la possibilità di variare l’ingrandimento da 10 a 30 volte.

In realtà non si trattava di un vero telescopio, ma di un cannocchiale. Ciò che differenziava i due dispositivi era dato dalla visualizzazione delle immagini, dritte nel primo e capovolte nel secondo a meno di usare un particolare dispositivo conosciuto come prisma raddrizzatore. Ma queste per me erano inezie.

Poi non pensate al classico tubo bianco con paraluce nero e oculare su cremagliera per la messa a fuoco, il mio strumento era decisamente diverso. Un parallelepipedo di metallo di color nero con una piccola ruota nella parte più vicina all’oculare per cambiare gli ingrandimenti e una seconda vicina all’obiettivo per la messa a fuoco. Poco più che un giocattolo, ma era il mio telescopio.

Mio padre l’aveva acquistato in un negozio del paese per sole 10.000 Lire. Ricordo che il costo era così basso, perché il meccanismo che doveva servire per cambiare gli ingrandimenti, era rotto. Sapevo che questo non era un ostacolo per mio padre che, se pur avaro nei rapporti umani, non difettava certo di inventiva e di un’innata capacità nel riparare le cose.

La mia fiducia in lui fu ben riposta, entro la stessa sera dell’acquisto avevo il mio telescopio operativo al cento per cento. Potevo iniziare a esplorare il cielo.

Non ricordo quale oggetto celeste osservai per primo, ancora non avevo l’accortezza di prendere appunti, ma immagino di averlo diretto verso la Luna. Banale, ma un punto di partenza era pur ben necessario averlo e la Luna era sicuramente un facile obiettivo per un principiante come me.

Ma quella sera di giugno del 1979 il mio interesse era rivolto verso la famosa Galassia di Andromeda, anche nota come M31 secondo la descrizione data dal catalogo celeste compilato dall’astronomo francese Charles Messier e pubblicato nel 1774.

È un bellissimo esempio di galassia a spirale distante circa 2,5 milioni di anni luce dalla Terra e visibile nella costellazione di Andromeda da cui appunto prende il nome. Tra tutte le galassie è quella a noi più vicina e viste le grandi dimensioni che la caratterizzano, risulterebbe ben visibile a occhio nudo nel cielo notturno se l’inquinamento luminoso non ne rendesse praticamente impossibile l’osservazione ormai da tempo. Fortunatamente così non era nel lontano 1979.

La maggior parte delle osservazioni astronomiche le facevo dal terrazzo di casa.

Un ampio spazio retrostante l’abitazione principale in cui potevo comodamente posizionare una vecchia sedia a sdraio da campeggio (avete presente quelli con seduta composta da tante malefiche fettucce di plastica colorata che ti si appiccicavano alla cute, perché non ne permettevano la traspirazione?), un piccolo tavolino di legno su cui sistemavo ordinatamente tutto il necessario per dare corso a un’attività di osservazione astronomica degna di questo nome: il mio prezioso atlante celeste ‘Giovanni Battista Lacchini’ (fatto arrivare appositamente dalla specola che si trovava nella torre astronomica eretta all’inizio del Settecento su Palazzo Poggi in via Zamboni a Bologna, sede storica del Dipartimento di Astronomia), una pila rigorosamente con filtro rosso per impedire che il suo utilizzo durante la consultazione delle carte stellari riducesse il mio acume visivo, l’immancabile quaderno degli appunti, un paio di penne e una matita nel caso avessi la necessità di mettere note sull’atlante.

E ovviamente il protagonista principale della serata, il mio telescopio.

Mio padre mi aveva prestato a tempo indeterminato un esile cavalletto da macchina fotografica che aveva dismesso. Ottima soluzione, l’attacco del telescopio era perfettamente compatibile con quello del cavalletto, peccato che questo fosse talmente malfermo sulle proprie gambe che, dopo avere eseguito una messa a fuoco agendo sull’apposita rotella, dovevo aspettare cinque o sei secondi prima che l’immagine inquadrata smettesse di vibrare per poi scoprire che era necessario un secondo intervento, perché la resa non era ancora delle migliori per poter apprezzare dettagli significativi.

Se poi considerate anche il fatto che gli oggetti inquadrati avevano il vizio di spostarsi continuamente a causa del moto di rotazione terrestre, mi si poteva sicuramente dare una menzione al merito per la pazienza e caparbietà dimostrata sul campo di battaglia.

Dell’inquinamento luminoso di allora non mi potevo certo lamentare. Avevo la fortuna di abitare in un quartiere periferico del paese, poco distante dalla campagna. Il lampione stradale più vicino non rappresentava un grosso problema vista l’esigua luce che emetteva; cosa questa di una certa rilevanza quando alla sera ci si trovava con gli amici a giocare per strada a ‘guardie e ladri’ o a ‘nascondino’. Inoltre, la mia postazione di osservazione cadeva perfettamente nel cono d’ombra prodotto dalla casa.

Potevo ritenermi fortunato, non avevo a disposizione la linea dell’orizzonte astronomico, ma la porzione di volta celeste visibile mi permetteva di compiere ugualmente interessanti osservazioni.

Ogni periodo dell’anno è caratterizzato dalle proprie costellazioni, un po’ come frutta e verdura di stagione. Bastava sapersi accontentare e seguire il naturale ciclo dei mesi.

Le costellazioni e tutto il loro stuolo di oggetti celesti alla portata del mio modesto strumento, si sarebbero palesate alla giusta quota per essere osservate senza eccessiva difficoltà, bastava saper aspettare.

Se poi la curiosità mi spingeva oltre, inforcavo la bici e con l’armamentario del giovane astrofilo in spalla, me ne andavo ad attrezzare il campo base nella vicina campagna, la compagnia di qualche timida lucciola l’unica fonte di inquinamento luminoso presente in zona. Cosa potevo chiedere di più?

Ma torniamo all’evento di quella sera.

Erano circa le 22. In realtà, tenendo conto dell’ora legale in corso, erano le 21 da un punto di vista solare. Esattamente l’ora a cui i miei manuali di astronomia pratica suggerivano dar seguito a una sessione di osservazione in quel particolare periodo dell’anno, dato che il cielo, a quell’ora, lo si poteva considerare privo del chiarore diffuso dell’ultimo tramonto.

Un sinistro cigolio accompagnò l’apertura della pesante porta di legno che permetteva di accedere al terrazzo dalla piccola stanza da bagno presente al secondo piano di casa.

Subito un veloce sguardo al cielo per assicurarmi che la porzione di volta celeste di mio interesse fosse sgombra da nubi o fastidiose velature. Sarebbe stato alquanto difficoltoso individuare un oggetto celeste nebuloso in un cielo ovattato di nubi. Avevo visto cieli più limpidi, ma non potevo lamentarmi più di tanto, la missione poteva aver sicuramente seguito.

Le pupille non erano ancora sufficientemente dilatate, sapevo che sarebbero stati necessari una ventina di minuti, per cui decisi di usare quel tempo per verificare che avessi a disposizione tutto il materiale necessario; sarebbe stato fastidioso accorgersi all’ultimo che mi mancava qualcosa per cui sarei stato costretto a rientrare in casa vanificando l’attesa dell’adattamento della vista alle sopraggiunte condizioni di oscurità.

Iniziai a sistemare il cavalletto sfilando con molta attenzione le lunghe gambe telescopiche. Per avere un minimo di visibilità dell’area in cui mi stavo muovendo, avevo acceso la pila con il filtro rosso cercando di orientarla alla bell’e meglio verso i piedi del cavalletto.

Chissà cosa avrebbe pensato mia zia Ivonne se si fosse affacciata alla finestra della camera da letto e avesse notato quello strano baluginio di luce rossa proveniente dal terrazzo di fronte. Probabilmente non se ne sarebbe stupita più di tanto, sapeva perfettamente di avere un nipote con strane abitudini serali.

Avevo scordato di dirvi che il mio terrazzo in realtà era un doppio terrazzo. Nel senso che la mia casa e quella di mia zia paterna erano collegate da un unico terrazzo che di volta in volta, durante il giorno, poteva ospitare il campo di battaglia in cui far scontrare schieramenti di eroici soldatini di plastica con tanto di mezzi corazzati e aerei oppure ci si divertiva a far calare attraverso il tubo di scarico dell’acqua piovana un pupazzo snodabile immaginando che fosse in missione segreta per sgominare una pericolosa banda di malviventi che volevano far esplodere un ordigno nucleare rappresentato da una decina di piccoli petardi con le micce pronte all’innesco.

Con il calare della notte, fatti rientrare ordinatamente tutti i soldatini nelle loro scatole, i mezzi corazzati nelle loro autorimesse, gli aerei negli hangar e messo a riposo l’impavido action figure, prendevo finalmente il controllo dell’intera area trasformandola nel mio osservatorio astronomico privato.

Vi era solo un piccolo inconveniente in questo piano magistrale, l’istante in cui mia zia decideva che era giunta l’ora di andare a dormire e le tapparelle della finestra della camera da letto non erano state preventivamente chiuse.

Più di una volta, sul punto di compiere l’osservazione del secolo, mi capitò di essere accecato da un improvviso bagliore che vanificava ore di meticolosi aggiustamenti al campo visivo inquadrato. La zia aveva acceso la luce in camera!

A volte apriva anche la finestra per augurarmi la buona notte. Era bello avere una zia così gentile e cortese.

Ma il momento migliore era quando mia madre veniva a verificare che non fossi stato rapito dagli alieni o per avvisarmi che l’indomani mattina mi sarei dovuto alzare presto per andare a scuola e ovviamente questa sua inaspettata entrata in scena, avveniva con l’immancabile accensione della lampada a muro che serviva per illuminare a giorno l’intero terrazzo. Capirete quanto dura fosse all’epoca la vita di noi giovani astrofili.

Le pupille erano dilatate al punto giusto, la conferma mi venne nell’osservare il chiarore lattescente della Via Lattea che si mostrava in tutta la sua imponenza tagliando trasversalmente la volta celeste che mi si parava davanti agli occhi.

Quasi allo zenit faceva bella mostra di sé il triangolo estivo rappresentato dalle stelle principali delle costellazioni della Lira, dell’Aquila e del Cigno. Ricordo il profumo dei fiori di tiglio e il rispettoso tepore risulta di una calda giornata di inizio estate.

Mi piaceva starmene in piedi e per pochi istanti chiudere gli occhi e lasciare che l’Universo mi permeasse. Era quasi un rito ancestrale con cui mi avvicinavo in reverenziale silenzio al cospetto di quell’opera maestosa e umilmente ne chiedevo l’accesso accostando l’occhio alla lente dell’oculare che lento iniziava a palesare alla mia vista le meraviglie del cosmo. In un istante venivo proiettato per centinaia di migliaia di anni luce nello spazio profondo.

Erano ormai trascorse un paio di ore da quando avevo iniziato la ricerca di M31.

Il campo inquadrato non mostrava ancora nulla che potesse essere considerato una galassia. A dire il vero, non avevo la benché minima idea di come potesse apparire una galassia, non ne avevo mai vista una prima di allora.

Ricordo il continuo alternare la lettura delle carte celesti e l’osservazione al telescopio per riuscire a trovare le stelle necessarie per l’orientamento.

Purtroppo, l’oggetto celeste si trovava in un’area priva di stelle sufficientemente luminose. La strategia che avevo messo in atto era quella di usare la linea passante per le stelle Alfa e Beta della costellazione di Cassiopea, facilmente distinguibile per la sua caratteristica forma a ‘W’, intercettare Almach, la stella Gamma della costellazione di Andromeda, e da lì spostarsi verso destra per individuare Mirach, una gigante rossa con la stessa luminosità della stella Polare.

Arrivato a quel punto, se fossi stato in grado di trovare la Mi Andromedae (è consuetudine in astronomia indicare le stelle principali di una costellazione con una lettera greca seguita dal nome latino della costellazione di appartenenza. Nel caso specifico qui riportato, ‘Mi Andromedae’ va letto come ‘stella m di Andromeda’), a una distanza angolare esattamente uguale a quella che la separava da Mirach, avrei trovato nel campo visivo del telescopio la Galassia di Andromeda.

Questo era il piano operativo, ma la sorte mi era avversa quella sera, perché ancora non ero riuscito a centrare il bersaglio. Ero alquanto sfiduciato. Mancavano pochi minuti allo scoccare della mezzanotte e anche se il giorno seguente me ne potevo stare tranquillamente a letto, la scuola era terminata da diverse settimane, mi dispiaceva rinunciare al mio obiettivo, non era nel mio stile anche se a volte bisognava saper perdere.

Mi diedi un altro quarto d’ora. La vista stava per cedere le armi e un fastidioso indolenzimento alla base del collo che mi rendeva alquanto difficoltoso assumere una posizione stabile durante l’osservazione. Sapevo che da lì a pochi minuti avrei avuto anche la visita di mia madre, allora sì che potevo definitivamente considerare la missione annullata.

Da pochi minuti l’orologio del Municipio aveva battuto la mezzanotte. L’ansia da prestazione stava per avere la meglio sulla mia testardaggine, ma ero sicuro di avere nel campo visivo la Mi Andromedae, proprio non capivo tutta quella difficoltà.

Poi il miracolo.

Portai l’ingrandimento al minimo per avere un campo inquadrato più ampio e fare un ultimo tentativo. Traguardai lungo il profilo del telescopio per essere sicuro di puntare per l’ennesima volta lo strumento verso Mirach. Ritornai a osservare all’oculare. Con la coda dell’occhio notai una piccola, evanescente, insignificante macchia bianca; come avevo fatto a non notarla prima, mi chiesi.

L’euforia iniziò a crescermi dentro, cercai di portare quell’effimero batuffolo il più possibile al centro del campo visivo e lentamente iniziai ad aumentare l’ingrandimento… x15… x20… nel farlo trattenevo il respiro temendo di perdere l’inquadratura e dover ricominciare tutto da capo senza la sicurezza che sarei riuscito, al nuovo tentativo, a ricentrare lo strano oggetto.

A ogni successivo incremento dell’ingrandimento la tenue chiazza si stagliava sempre più sul fondo costellato di tanti piccoli punti luminosi. Non potevo guardare l’oggetto celeste direttamente, ma sempre con la coda dell’occhio. Questo insegnava la pratica per gli oggetti estremamente deboli e nebulosi.

Mettere a fuoco quella macula era decisamente complesso con l’ulteriore aggravante del torcicollo e del cavalletto traballante in libera oscillazione a ogni minimo movimento.

Mezzanotte passata da dieci minuti. L’ingrandimento era al massimo. L’oscillazione nulla. Le condizioni di osservazione ottimali. Testa inclinata verso destra, entrambe le mani dietro alla schiena per non farsi prendere dalla voglia di toccare il cavalletto, gambe leggermente piegate a guisa di lottatore di sumo sottopeso, schiena piegata in avanti di un non ben precisato numero di gradi. Avrei retto in quella posizione ancora per pochi istanti.

Per poter osservare l’oggetto per più tempo mi ero accertato di tenerlo parzialmente fuori dal centro dell’obiettivo e far sì che la rotazione terrestre facesse quello sporco lavoro al posto mio. In questo modo non dovevo far nulla se non continuare a osservare con la coda dell’occhio per raccogliere il maggior numero di dettagli possibili mentre la galassia stava attraversando da un capo all’altro il campo visivo.

Se in quel momento fosse arrivata mia madre avrei rischiato di rimanere orfano prematuramente, ma fortuna volle che tale nefando evento non avesse luogo.

Ero riuscito nel mio intento, quello che stavo osservando era proprio la Galassia di Andromeda, un’insignificante ‘nube ovale dai contorni non ben definiti’ composta da milioni di stelle e a una distanza tale dal nostro sistema solare per cui molti di quei soli altro non erano che l’immagine della loro anima, corpi ormai spenti da chissà quante migliaia di anni, ma questo triste pensiero non gettava la benché minima ombra sulla catarsi in cui versava il mio animo di tredicenne in quel preciso istante in cui circa 220.000 anni luce di estensione galattica mi stavano transitando davanti agli occhi.

Avevo osservato la mia prima galassia e questo mi bastava.

Fu in quel preciso istante che il terrazzo venne illuminato a giorno accompagnato pochi istanti dopo dal sinistro cigolio dell’apertura della porta della stanza da bagno. Il viso corrucciato e al contempo interrogativo di mia madre si palesò alla vista: «Dadi, ma sei ancora lì? Sai che ore sono? Dai, vai a letto… sistemi tutto domani mattina! E non fare casino, che svegli la zia!»

«Va bene, va bene, arrivo… però prima metto via il telescopio… sai, ho visto una galassia!» Le risposi iniziando a smontare il telescopio dal cavalletto per poi riporlo con cura all’interno della sua custodia protettiva.

«Bravo, domani mi racconti tutto!» E così come era apparsa, scomparve dietro la porta cigolante lasciandosela appena socchiusa alle spalle, tacito invito, questo, a seguirla quanto prima.

Con la custodia del telescopio sottobraccio raggiunsi a passi svelti la mia cameretta… quante cose avrei avuto da annotare sul mio piccolo quaderno di ‘Appunti di Astronomia su osservazioni fatte’.

Davide Formenti
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nasce a Bondeno (FE) l’8 giugno 1966. Già in giovane età ha dimostrato uno spiccato interesse per il mondo della scienza lanciando, tra l'altro, il suo primo razzo autocostruito. Nel 1992 ha conseguito la Laurea Magistrale in Ingegneria Elettronica presso l’Università di Bologna. Nel 1999 collabora con un’azienda come Responsabile della Ricerca e Sviluppo. Da sempre amante della montagna, dal 2019 pratica arrampicata sportiva sotto il vigile occhio della moglie Rosalia.