Arriviamo a un altro concetto d’importanza fondamentale: è ovvio che ogni genere letterario ha una sua storia, ma la fantascienza è vincolata al proprio divenire più di altri generi.
Il che dipende da una doppia dialettica: la propria evoluzione interna come genere letterario e l’evoluzione della scienza e della tecnologia con le quali è (o dovrebbe essere) in costante rapporto.
In poche parole, se noi facciamo ad esempio un confronto con il genere giallo, con cui la fantascienza condivide almeno un padre nobile, Edgar Allan Poe, ci accorgiamo che oggi possiamo leggere le avventure di monsieur Dupin con lo stesso interesse di quando furono scritte, a metà del XIX secolo, ma Il viaggio di un certo Hans Pfaal che va sulla Luna in pallone aerostatico ci appare oggi non plausibile e ridicolo.
Nella storia della fantascienza noi potremmo distinguere tre fasi.
- Una lunghissima preistoria che va dalla comparsa nella letteratura delle prime tracce di quelle tematiche che poi saranno sviluppate compiutamente dalla fantascienza, come il viaggio extraterrestre alla rivoluzione industriale.
- Una lunga infanzia che va dal primo ottocento (si potrebbe indicare una data precisa, il 1818, anno in cui Mary Shelley scrisse il Frankenstein, il primo romanzo propriamente fantascientifico) al 1926.
- L’era della maturità, a partire dal momento in cui la fantascienza è riconosciuta come genere letterario autonomo.
Tale riconoscimento coincide con la pubblicazione negli Stati Uniti della prima rivista di fantascienza, Amazing Stories, creata da un immigrato lussemburghese, Hugo Gernsback.
I poco più di tre quarti di secolo che ci separano da allora sono poi oggetto di ulteriori suddivisioni, e non sarebbe esagerato dire che la fantascienza ha cambiato indirizzi stilistici e/o tematici pressappoco ogni decennio.
Nella storia umana, la tendenza ad immaginare cose che oltrepassano l’orizzonte dell’esperienza immediata e prosaica, c’è sempre stata, con ogni probabilità ben prima dell’inizio della storia documentata. Essa è forse vecchia come l’uomo stesso, semmai, quella che si è imposta tardivamente è la capacità di discriminare fra il reale e il fantastico.
I termini mito, favola e saga derivano rispettivamente dal greco, dal latino, dal germanico, e tutti e tre hanno il medesimo significato, non significano “racconto fantastico” ma semplicemente “racconto.” Derivano con poche modifiche dalla parola che nelle rispettive lingue significa “parlare, raccontare”.
Perché potesse intervenire una distinzione fra racconto fantastico e narrazione di eventi reali o verosimili, occorreva prima che si formasse un’immagine del mondo filosofica o scientifica in grado di decidere cosa può essere reale e cosa non lo è.
Se ancora agli inizi dell’ottocento qualcuno fosse andato a spiegare ai contadini tedeschi di cui i fratelli Grimm raccoglievano le narrazioni orali, che queste ultime rappresentavano il fantastico popolare germanico, avrebbe probabilmente ottenuto la loro totale incomprensione. Essi credevano agli elfi, ai folletti, alle streghe, alle fate, vivevano soggettivamente in un mondo in cui simili creature erano reali e la magia una forza altrettanto concreta dell’energia idraulica o eolica che facevano muovere le pale dei mulini, e io non metterei la mano sul fuoco che simili credenze siano del tutto estinte neppure oggi, magari presso persone per altri versi acculturate e colte.
Una volta che esiste un’interpretazione razionale del mondo, è possibile introdurre una distinzione fra il fantastico in genere e ciò che non attiene all’esperienza prosaica e quotidiana ma è comunque compatibile con quest’immagine del mondo.
Potremo parlare di una pre o paleo fantascienza finché si tratta di un’immagine puramente filosofica del mondo, di fantascienza quando si tratta di un’immagine scientifica.
Del primo campo, quello del fantastico non razionale e non scientifico, che è vastissimo, antichissimo, attinge alle tradizioni di tutti i popoli, e che ha una proiezione moderna nella narrativa di fantasy e di horror, non sarà proprio il caso di occuparsi, a meno di non voler deragliare del tutto dall’argomento fantascienza.
C’è una famosa stampa medievale dove è raffigurato un viaggiatore che, giunto ai limiti del mondo, sporge il capo attraverso la cupola del cielo stellato a cui sono appesi il sole e la luna per guardare attraverso di essa gli ingranaggi che fanno muovere il sistema, secondo le concezioni della cosmologia tolemaica.
Questo è l’equivalente medievale della fantascienza.
In questo senso, di un fantastico razionale si potrebbero citare fra i precursori della fantascienza Luciano di Samosata, Dante Alighieri, Ludovico Ariosto, Cyrano di Bergerac, Rabelais.
Tanto più si è elastici nella definizione di questo fantastico, tanti più autori si trovano, ma tanto più ci si allontana dalla fantascienza e il rischio è quello di finire per fare come Brian Aldiss che in Un miliardo di anni, la sua storia della fantascienza, diede tanto spazio agli antenati nobili ed ai precursori del genere da finire di non occuparsi di fantascienza che negli ultimi capitoli del volume.
Questo lento avvicinamento alle tematiche della fantascienza, significativamente, comincia a dare qualche risultato che vada un po’ oltre l’episodio di Astolfo che va sulla luna a cavallo dell’ippogrifo, nel XVIII secolo, quando i mutamenti che la rivoluzione scientifica e la rivoluzione industriale si apprestano ad introdurre nel mondo umano sono già in qualche modo nell’aria.
Fra gli autori dell’epoca che si possono in qualche modo considerare degli antenati della fantascienza, si potrebbe ricordare Jonathan Swift, forse non tanto per I viaggi di Gulliver, quanto per quella Modesta proposta che sarà poi ricalcata da tanta fantascienza “catastrofica” dedicata al tema della sovrappopolazione. O anche per la circostanza per cui, in un suo racconto, scoprì i satelliti di Marte con grande anticipo rispetto all’astronomia ufficiale. Questi furono poi chiamati Phobos e Deimos, “paura” e “terrore” proprio perché gli scopritori rimasero sconcertati dalla somiglianza dei loro dati, dimensioni e distanza dal pianeta rosso, con quelli indicati da Swift. O ancora Voltaire che con Micromegas e Zadig ha fatto scoprire i primi alieni venuti dagli spazi per pronunciare giudizi impietosi e sarcastici sull’umanità.
Ben altra cosa è ovviamente l’ottocento, secolo animato dalla fede nel progresso e dalla fiducia positivistica nella scienza che tutto renderà possibile.
Compreso resuscitare i morti, come spiega Edgar Allan Poe nel sarcastico Quattro chiacchiere con una mummia, perché qualche eretico dubbio rispetto al clima di ottimismo positivistico non cessa di insinuarsi negli spiriti più avvertiti.
Dopo Mary Shelley, e a parte le sporadiche incursioni nella fantascienza di Poe (ma il grande ed allucinato autore americano diede fondo alla componente razionale della sua fervida immaginazione soprattutto nei racconti polizieschi, e per il resto fu soprattutto un autore di horror), a plasmare l’ancora innominato genere fantascientifico sono stati soprattutto Jules Verne ed Herbert George Wells.
E tuttavia sarebbe ingiusto dimenticare il nostro Emilio Salgari che abbandonò per una volta le giungle della Malesia e i Caraibi del Corsaro Nero per andare ad esplorare il futuro con Le meraviglie del duemila e non è possibile scordarsi neppure di sir Arthur Conan Doyle che ogni tanto mandava in vacanza Sherlock Holmes facendo entrare in campo al suo posto un indagatore dei misteri della natura invece che delle aberrazioni umane, il professor Challenger.
L’avventura più nota del professor Challenger avvenne nel Mondo perduto, quel frammento sopravvissuto di preistoria popolato da dinosauri e cavernicoli che doveva poi ispirare tanta fantascienza successiva, da Edgar Rice Burroughs a Michael Crichton
Forse, più di Verne, è stato Herbert George Wells a plasmare la nascente fantascienza alla quale ha dato parecchi contributi rilevanti, non solo la fusione del viaggio extraterrestre con la descrizione di un’utopia ne I primi uomini sulla luna, l’invasione aliena de La guerra dei mondi, ma anche tematiche del tutto nuove come il viaggio nel tempo, appunto ne La macchina del tempo, e addirittura la manipolazione artificiale degli esseri viventi ne L’isola del dottor Moreau (a quel tempo non c’era l’ingegneria genetica, e Wells dovette accontentarsi della chirurgia).
A Wells capitò di avere in sorte una lunga esistenza, di essere un sopravvissuto alla propria epoca e di spegnersi nel 1946 dopo aver attraversato l’esperienza di due guerre mondiali.
Si può ricordare che egli fu sempre di sentimenti umanitari e pacifisti e nel 1914, assieme a Bertrand Russell e pochissimi altri, fu fra gli intellettuali britannici che si opposero all’intervento inglese nel conflitto.
Il suo ultimo romanzo, scritto durante la seconda guerra mondiale, Things to come (“Cose a venire”) da cui poi Cameron Menzies trasse un film (nell’edizione italiana Nel duemila guerra o pace?), è una sorta di testamento spirituale. Dopo una guerra che ha causato una distruzione quasi universale, comincia la ricostruzione di una civiltà umana nuova, pacifica e prospera, guidata dalla ragione e dalla scienza, un messaggio di speranza a un’umanità sconvolta nel lasso di una generazione dai due conflitti più distruttivi della storia.
Nata negli Stati Uniti come genere codificato, la fantascienza tornò in Europa come fenomeno d’importazione, eppure non ci si dovrebbe dimenticare che essa fu forgiata in primo luogo dagli autori europei del XIX secolo: Mary Shelley, Jules Verne, Herbert G. Wells, Conan Doyle ed anche Emilio Salgari.
Fu un lussemburghese a fondare la prima rivista di fantascienza e gli autori che hanno “fatto” la fantascienza negli Stati Uniti, sono stati in rilevantissima percentuale o immigrati (Isaac Asimov, nato in Russia) o figli di immigrati di prima generazione (Clifford Simak di origine ceca, Fritz Leiber e Robert Heinlein di origine tedesca, Poul Anderson di origine scandinava, Alfred E. Van Vogt, canadese di origine olandese).
Anche dopo la “magica” data del 1926, anno di nascita delle riviste di fantascienza americane, sono venuti contributi tutt’altro che irrilevanti allo sviluppo del genere fantascientifico da autori che non hanno mai abbandonato il Vecchio Continente: l’inglese James G. Ballard, il cecoslovacco Karel Capec (che ha reso popolare la parola robot dal termine ceco che significa “lavoratore”), il polacco Stanislaw Lem.
Forse sarà provocatorio dirlo, ma di certo non infondato: se si vanno a considerare i “grandi nomi” della fantascienza internazionale, quelli che scarseggiano sono proprio gli yankee purosangue.
“Amazing stories”, fondata da Hugo Gernsback, il cui primo numero uscì nell’aprile 1926, andava a inserirsi in un filone preesistente, quello dei cosiddetti “pulp”, le riviste popolari a basso prezzo dedicate ai generi del racconto di avventura, giallo, sentimentale e via dicendo.
Il termine derivava dalla carta grossolana (di polpa di legno) su cui erano stampate. “Amazing stories” era stata preceduta da un’altra rivista “pulp” che presentò al pubblico una gran quantità di racconti e di autori fantastici dove non mancavano le tematiche fantascientifiche, “Weird Tales”.
Il termine “weird” designava il tipo di storie che comparivano sulle sue pagine e mal si presta ad essere tradotto in italiano: “misterioso”, “arcano” è forse la traduzione migliore.
In mezzo a una congerie di riviste pulp che nascevano e scomparivano dopo pochi numeri, le due testate ebbero una notevole longevità. “Weird Tales” durò dagli anni ’20 agli anni ’50 e fu oggetto di una provvisoria resurrezione a metà degli anni ’70. “Amazing Stories”, passata attraverso varie trasformazioni editoriali è divenuta “Analog,” che esiste ancora oggi.
L’autore più importante che si mise in luce sulle pagine di “Weird Tales” fu Howard Phillips Lovecraft, che rinnovò radicalmente la narrativa di horror inserendovi elementi prettamente fantascientifici.
Infatti, gli orrori e gli abomini che compaiono nelle sue storie hanno ben poco o nulla a che fare con l’horror tradizionale a base di streghe, fantasmi, vampiri e licantropi, invece si tratta di creature e divinità extraterrestri, di razze aliene che hanno creato grandi civiltà sul nostro pianeta in epoche remotissime, di improvvise intrusioni da altre dimensioni dove vigono leggi naturali completamente diverse da quelle del nostro spazio – tempo.
La popolarità di H. P. Lovecraft non ha fatto che crescere dopo la sua morte avvenuta nel 1937, e ancora oggi si tratta di un autore diffusamente ristampato, letto e imitato, considerato da molti il miglior autore di horror del XX secolo. Eppure si tratta di un horror strettamente imparentato con la fantascienza.
La nascita di “Amazing Stories” nel 1926 fu un punto di arrivo ma anche un punto di partenza. Negli stati Uniti la fantascienza si affermò e si diffuse sulle pagine delle riviste, e s’instaurò una prassi mantenutasi sostanzialmente fino a tempi molto vicini a noi: i lavori fantascientifici di maggior successo, in genere hanno seguito la seguente trafila: pubblicazione in rivista come racconti o romanzi a puntate, pubblicazione in volume rilegato come romanzi o antologie, pubblicazione in brossura a grande tiratura.
Un altro fenomeno che ha caratterizzato la fantascienza fin da allora, è il fenomeno del fandom (fan domain, “ambiente di appassionati”).
I direttori delle riviste promossero fin dall’inizio un contatto molto stretto con il pubblico dei lettori, anche perché fu presto chiaro che la fantascienza stava catturando un settore minoritario ma stabile del pubblico.
John W. Campbell, ad esempio si vantava di rispondere sulle pagine della pubblicazione, o privatamente a tutte le lettere che riceveva “Astounding Science Fiction”.
Si formò un ambiente di appassionati che prese a organizzarsi in club, molti dei quali si misero ad editare fanzine, ossia rivistine amatoriali “fatte in casa”, talvolta in poche decine di copie dattiloscritte che giravano tra amici e conoscenti.
Sulle fanzine si fecero le ossa autori destinati ad arrivare al professionismo, e a fornire alla fantascienza un costante ricambio generazionale. È una tradizione che non si è mai interrotta, e che si è espansa dagli Stati Uniti al resto del mondo occidentale insieme alla fantascienza.
La rivista più importante degli anni ’30 e ’40 fu “Astounding Science Fiction” diretta da John W. Campbell.
Questo periodo è ricordato come “l’era di Campbell” ed è considerato dagli appassionati l’età d’oro della fantascienza.
Campbell pretendeva dai collaboratori attendibilità scientifica, un linguaggio non approssimativo e cura nella psicologia dei personaggi.
“Se delle cose strane accadono a gente strana”, soleva dire, “c’è una stranezza di troppo”.
I quattro autori scoperti da Campbell e destinati a diventare le quattro colonne di “Astounding” e di tutta un’era della fantascienza sono stati: Isaac Asimov, il cui nome è diventato per i profani sinonimo stesso di fantascienza, Clifford Simak, Robert Heinlein, Alfred Elton Van Vogt.
Queste “colonne” sarebbero potuto essere cinque se un giovane autore che aveva dato delle prove assai promettenti, Stanley Weinbaum, non fosse stato prematuramente stroncato da una devastante forma di cancro.
Nello stesso periodo, fuori dalle pagine di “Astounding” si mise in luce un altro autore che aveva esordito su “Weird Tales” come discepolo di H. P. Lovecraft passando poi alla fantascienza, Ray Bradbury.
Campbell fu anche autore lui stesso, non solo, ma in più di un’occasione ispirò ai suoi collaboratori le trame delle loro storie.
C’è un aneddoto piuttosto noto: una domenica Campbell si fece accompagnare a messa da Asimov (cosa insolita, perché Asimov era ebreo). Durante la predica, il pastore fece una citazione di Emerson: “Se gli uomini vedessero le stelle una volta ogni mille anni, crederebbero ed adorerebbero il Signore”.
Dopo la funzione, Campbell chiese ad Asimov:
“Secondo te, cosa succederebbe se gli uomini vedessero le stelle una volta ogni mille anni?”
“Impazzirebbero, naturalmente”, rispose questi.
“Bene”, replicò Campbell, “Corri a casa e scrivi il racconto”.
In questo modo nacque Notturno, uno dei più noti ed apprezzati racconti di Asimov.