Giuseppe LIppi, un amico
Io credo che nessuno fra quanti hanno conosciuto Giuseppe Lippi, possa fare a meno di riconoscergli una grande, innata cordialità e generosità, un carattere signorile, una disponibilità verso chiunque.
Oltre a ciò, le persone che si sono occupate in Italia di fantascienza a vario titolo, amatoriale e professionale, nell’arco di molti anni hanno potuto apprezzare la sua grande competenza e professionalità, una conoscenza del genere fantascientifico e dei generi fantastici da fare invidia e dalla quale c’era sempre da apprendere, frutto di serio studio e letture diuturne e appassionate.
Ugualmente, si possono ricordare i suoi numerosi interventi critici condotti sempre con professionalità e senso della misura, oltre che con competenza a tutta prova.
Ho recentemente avuto da Fabio Pagan la confidenza che negli ultimi anni i suoi rapporti con l’editore e la redazione di “Urania” non sono stati idilliaci, ma, a parte ciò, di cui nulla pubblicamente è trasparito, credo che in un ambiente pure alquanto litigioso e fumantino come è quello della fantascienza italiana, nel corso non breve della sua attività, sia riuscito a non avere conflitti con nessuno, a non lasciare, in chi ha avuto rapporti con lui, altro che un’impressione di simpatia e di stima.
Bene, però tutto questo è quel che vi può dire chiunque.
Da Fabio Calabrese certamente vi aspettate di più.
Infatti, Giuseppe e io non siamo stati solo sodali nel dare vita insieme a “Il re in giallo”, una delle più apprezzate fanzine degli anni ’70, ma posso dire che è stata una delle persone che hanno avuto maggiore influenza sulla mia vita “iniziandomi” alla fantascienza e al fantastico e incoraggiando la mia vocazione alla narrativa (del che, però, lascio decidere a voi se dovete essergliene grati o rimproverarglielo).
Ho conosciuto Giuseppe Lippi al liceo: eravamo entrambi allievi del liceo classico “Francesco Petrarca” di Trieste.
Non eravamo compagni di classe, ma capitava di incontrarci durante gli intervalli e, dopo aver fatto amicizia, capitava frequentemente che facessimo la strada assieme al termine delle lezioni.
Io adesso non ricordo la dinamica esatta, ma so che a farci incontrare e legare subito, fu il comune interesse fantascientifico, anche se mi accorsi presto di essere un novellino in confronto a Giuseppe, sebbene lui fosse più giovane di me (io sono del 1952, lui era del ’53).
Io mi chiedevo, e mi chiedo ancora adesso, sapendo di vivere in un mondo di rapide trasformazioni, come faccia la maggior parte della gente a non porsi interrogativi su di un futuro che quanto meno sappiamo sarà diverso dall’oggi non meno di quanto l’oggi sia diverso dal passato, e la fantascienza è certamente un modo di dare delle risposte almeno con la fantasia.
Bisogna anche tenere presente il contesto dell’epoca.
L’impresa lunare che aveva posto termine alla corsa allo spazio con la vittoria degli Americani sui Sovietici, era avvenuta nel 1969, e a quei tempi la prospettiva di essere effettivamente all’inizio dell’era spaziale, dell’avventura umana nel Cosmo appariva decisamente più concreta di oggi.
Tutto ciò l’avevo inserito in modo affatto naturale nei miei primi ingenui tentativi letterari, avendo iniziato a scrivere per scommessa, come vi dirò più avanti, e probabilmente in questo differisco dalla maggior parte dei miei “colleghi”, sono stato prima un autore che un lettore di fantascienza.
Con tutto ciò, fino all’incontro con Giuseppe, la mia conoscenza del genere fantascientifico e degli altri generi fantastici era assolutamente rudimentale.
Ho tuttora un ricordo molto vivido delle nostre camminate da via Rossetti dove era ed è ubicata la scuola, fino a corso Italia dove abitava Giuseppe, attraverso il viale XX settembre e piazza Goldoni (luoghi che chi è di Trieste conosce bene).
Parlavamo di fantascienza, ma anche di molte altre cose: di letteratura, di filosofia, di politica.
Presto cominciammo a scambiarci le rispettive prove narrative, e qui vorrei rivelarvi qualcosa che, se non è proprio un segreto, mi pare che pochi ne siano al corrente: Giuseppe nel corso degli anni si è cimentato soprattutto nel lavoro di critico, traduttore e curatore, e della sua narrativa non sono apparsi che pochi esempi.
Mi pare abbia preferito sacrificarla per dare spazio agli altri autori italiani, ma per quanto posso giudicare io, quelle prove giovanili rivelavano una predisposizione eccellente.
Non so quanto più tardi abbia continuato, né che fine abbiano fatto quei racconti di allora, ma nel caso fossero andati dispersi, sarebbe veramente un peccato, e l’omaggio di una bella antologia – purtroppo postuma – Giuseppe la meriterebbe proprio.
Vi dirò che in un certo senso un po’ lo invidiavo: avevo l’impressione che la sua narrativa nascesse con grande spontaneità. Che i suoi racconti fossero una specie di frammenti di un flusso di immaginazione fantastica nel quale sembrava immergersi con grande facilità. Laddove i miei nascevano da un faticoso processo di alchimia mentale.
Fra i racconti di Giuseppe, ricordo in particolare uno che mi colpì molto, perché era una perfetta sintesi di spirito filosofico ed ironia, con un tratto, oserei dire, di genialità.
Si parla di viaggi nel tempo.
Un professore spiega che tornare indietro nel tempo, viaggiare nel passato non è possibile.
Noi tendiamo a immaginarci il passato come qualcosa in certo modo ancora esistente, ma il passato è ciò che non esiste più, non-essere.
Non c’è verità nei libri di storia, ci parlano di qualcosa che non è, quindi viaggiare a ritroso nel tempo è impossibile.
Il professore ha appena pronunciato queste parole, che esse scivolano nel passato, diventando false.
Giuseppe, posso dire, mi introdusse nel “giro” fantascientifico facendomi conoscere i vari appassionati triestini con cui era in contatto.
Innanzi tutto quelli che erano forse i suoi amici più stretti, Francesco Faccanoni e Gianni Ursini.
Gianni Ursini in particolare doveva rivelarsi un critico cinematografico di buona qualità, che ha diffuso le sue collaborazioni un po’ dappertutto, da “Ciak” a “L’Unità”, passando ovviamente per svariate pubblicazioni fantascientifiche.
Poi Fabio Pagan, redattore scientifico (e fantascientifico) de “Il Piccolo”, Lorenzo Codelli e il gruppo della Cappella Underground, e ancora due veterani delle prime fanzine triestine, Gianfranco Sherwood e Livio Horrakh.
Con Gianfranco Sherwood contrassi una buona amicizia.
Conservo una copia de Il Silmarillion di Tolkien che mi regalò in occasione del mio compleanno, e in seguito partecipò all’altra nostra avventura fanta-triestina, quella della webzine “Continuum”.
Livio Horrakh si era messo in vista nel 1972 vincendo il premio letterario indetto per la prima edizione dell’Eurocon, la convention europea di fantascienza che si tenne proprio a Trieste quell’anno, con il racconto Dove muore l’astragalo. Era forse all’epoca l’unico di noi ad avere una risonanza non solo locale.
Ricordo di aver raccolto una sua confidenza circa il fastidio che gli dava il fatto che il suo cognome, di origine mitteleuropea (non so se slava o ungherese), venisse regolarmente storpiato con la grafia anglosassone, diventando Horrack.
Insomma, grazie a Giuseppe, potrei rendermi conto che a Trieste, grazie senza dubbio anche al fatto che la città ospitava il Festival Internazionale del Film di Fantascienza – oggi rinato dopo un’assenza ventennale come SciencePlusFiction – c’era un ambiente fantascientifico ricco e vivace.
Nel 1975 la fanzine padovana “The Time Machine” indisse la prima edizione del premio Mary Shelley per racconti di fantascienza.
Io partecipai con il racconto Sheila, Lippi con Antropologia fantastica e fummo entrambi finalisti (curiosamente, tutti e due i nostri racconti finirono tre anni dopo nell’antologia Universo e dintorni della Garzanti, curata da Inisero Cremaschi).
Non lo sapevamo, ma fra i finalisti c’era anche un altro triestino, Roberto Eletto, che conoscemmo a Padova.
Se non erro, Giuseppe e io, al momento della partenza per Padova per partecipare alla premiazione, ci incontrammo in stazione e facemmo insieme il viaggio di andata e poi quello di ritorno.
Un problema che sembra essere più insolubile della dimostrazione del teorema di Fermat, è quello dei collegamenti ferroviari diretti fra Trieste e il resto d’Italia.
Nonostante la vicinanza con l’area veneta, non c’era allora come credo non ci sia neppure oggi, una linea diretta senza il cambio nella stazione di Mestre.
Per uno dei soliti ritardi, sulla via del ritorno perdemmo la coincidenza, e ci toccò passare un paio d’ore di attesa nella sala d’aspetto della stazione mestrina, e naturalmente occupammo l’attesa chiacchierando.
Giuseppe mi fece notare che allora eravamo in un periodo in cui stava rinascendo un interesse per la fantascienza e compariva tutta una serie di nuove pubblicazioni.
Eravamo giusto alle spalle del famoso “buco nero” tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 in cui erano sparite tutte le fanzine, e delle pubblicazioni professionali era rimasta solo “Urania.” La quale non era una rivista, tranne che nelle pagine di appendice, ma piuttosto una collana libraria.
Giuseppe, osservò che non c’era nulla di dedicato al fantastico non fantascientifico (fantasy e horror), e mi lanciò l’idea di creare noi una fanzine del fantastico!
Ci demmo subito da fare: qualche giorno dopo, nella vecchia sede della Cappella Underground che allora si trovava in via Franca, si riunì il primo nucleo di quella che sarebbe stata la redazione de “Il re in giallo”.
Eravamo Giuseppe, io, Gianni Ursini, Francesco Faccanoni, Roberto Eletto, prontamente ricontattato e un amico di quest’ultimo che aveva portato con sé, Piero Cavalieri.
Quest’ultimo non ci diede un contributo diretto, ma il padre di questi, un dentista con l’hobby della pittura, disegnò per noi quella che sarebbe stata la prima copertina della nuova pubblicazione.
Il primo compito che ci incombeva, era la scelta del nome della testata della nuova pubblicazione.
Ci dedicammo a una seduta di brainstorming nel corso della quale emersero le cose più strane e improponibili, finché io, reduce da non molto tempo della lettura del libro di Robert Chambers, dissi: “The King in yellow”.
“No”, disse Lippi. In inglese sarebbe stato troppo ermetico, ma in italiano “Il re in giallo” andava bene, considerando anche il fatto che l’invenzione di Chambers è stata un po’ il capostipite di tutti gli pseudobilia della narrativa fantastica. E così “Il re in giallo” fu.
Fabio Pagan, essendo un giornalista professionista, si rese subito disponibile a farci da direttore responsabile.
Poi al gruppo iniziale si aggiunsero altri collaboratori: Bruno Micovilovich, un compagno di università che era un bravo illustratore il quale aveva sviluppato una particolare tecnica puntinata e a cui letteralmente strappai di mano la prima delle sue illustrazioni fantastiche pubblicate da “Il re in giallo”.
Poi Edoardo Triscoli, altro illustratore bravissimo, quindi Giancarlo Pellegrin e Tullio Tamanini.
Devo dire che Giuseppe si buttò subito sulla preparazione del numero due della pubblicazione, quello che poi sarebbe stato “lo speciale”: la monografia dedicata a H. P, Lovecraft che è poi diventata un ambito pezzo per i collezionisti.
Il fascicolo contiene, tra l’altro, un inedito di HPL, L’essere nella caverna (The Beast in the Cave), mai prima comparso in Italia e da lui tradotto per l’occasione.
Anche se devo dire che ebbi l’impressione che quel che stava preparando sarebbe stato più adatto a uscire come libro, che a essere pubblicato come numero di rivista.
Mi lasciò libero di assemblare il primo numero a mio talento e gusto, e devo dire che, essendo un assoluto neofita nel lavoro di curatore, non mi pare di essermela cavata poi tanto male.
Mi concessi anche un piccolo nepotismo, infatti fra i racconti c’è Il generale Marlowe di Massimo Calabrese, mio fratello.
Prescindendo dal fatto che non l’avrei pubblicato comunque senza la convinzione che si trattava di un buon racconto, devo dire che esso è legato in modo affatto particolare alla mia storia personale e familiare, a come molti anni fa iniziò la mia attività di scrittore.
All’epoca ero uno studente squattrinato, e girando per le librerie che assorbivano gran parte della paghetta che mi davano i miei, vidi un’edizione dei Racconti neri di Ambrose Bierce nella collana “pesanervi” della Bompiani.
Come illustrazione ha un dipinto di Diego Ribera dove campeggia una morte con un abito e un vistoso cappello bianco.
Acquistai il libro, e mio fratello che è quasi mio coetaneo, di 18 mesi più giovane, lo leggemmo e ne rimanemmo entusiasti, come era prevedibile.
Annidato da qualche parte nella mente di ogni maschio adolescente sano ci deve essere un piccolo Jonathan Brewster (il cattivo di Arsenico e vecchi merletti).
Ci sfidammo a scrivere delle storie che ricalcassero lo stile e le tematiche di Bierce e, devo dire la verità, Massimo scrisse due racconti di cui il secondo, appunto Il generale Marlowe, mi sembrò assai migliore di quelli che scrissi io.
Solo che lui si fermò a due, mentre io ho proseguito finora.
Questo racconto l’ho poi riscritto in forma più matura intitolandolo Il funerale del grand’uomo. Lo potete trovare in rete con entrambe le nostre firme.
Se aggiungete a un simile precedente l’incontro con Giuseppe Lippi, capite che il mio destino era già segnato.
Nel 1976, Lippi fu chiamato a Milano a lavorare presso l’editore Armenia, alla rivista “Robot” di cui fu anche direttore per un breve periodo dopo le dimissioni di Vittorio Curtoni.
Poi passò alla Mondadori, a “Urania” di cui è stato direttore per molti anni.
Giuseppe Lippi è stato uno dei pochi, forse l’unico vero professionista della fantascienza italiana, che ha tratto da essa i mezzi per vivere.
Ora, al riguardo, vorrei esprimermi con franchezza: è stata certamente una grande fortuna per la fantascienza italiana che l’entusiasmo e la competenza di Lippi non rimanessero confinati in un ambito ristretto come era l’ambiente triestino.
Ma, per quanto riguarda noi de “Il re in giallo” il suo improvviso allontanamento proprio quando il numero 2, il ponderoso “speciale Lovecraft” era in corso di stampa, ci lasciò in serie difficoltà.
Far continuare la pubblicazione, in pratica, era un compito che ricadeva sulle mie spalle, e che mi sono accollato come ho potuto, facendo uscire fino al 1980 altri cinque numeri.
Più la “coda” dell’unico numero di “Terzo pianeta”, destinato però forse a rimanere nella storia della fantascienza italiana perché contiene E loro impazziranno, il racconto d’esordio di Donato Altomare, autore fra i più interessanti emersi negli anni ’80 e che oggi ha riempito il vuoto lasciato da Ernesto Vegetti come presidente della World SF Italia.
A questo materiale, Giuseppe non ha, ovviamente, messo mano, tranne che per il n. 5, il secondo “speciale Lovecraft” in parte assemblato con del materiale non utilizzato per il n. 2.
Ora però non mi ripeterò raccontandovi la storia successiva del “Re in giallo”, quella parte che non ha a che vedere con Giuseppe Lippi e che ho già ampiamente raccontato altrove.
Bisogna piuttosto dire che con il suo trasferimento, i contatti di Lippi con l’ambiente triestino e con il sottoscritto, non sono certo cessati.
Giuseppe non era tipo da dimenticarsi dei vecchi amici.
Negli anni successivi tornò spesso a Trieste, credo tutte le volte che gli era possibile, e soprattutto in occasione dei Festival del Film di Fantascienza prima, degli SciencePlusFiction poi.
Ci fece conoscere alle persone dell’ambiente fantascientifico nazionale che venivano a seguire i Festival: Vittorio Curtoni, Giovanni Mongini e altri. Io legai soprattutto con il gruppo dei veneziani: Gian Paolo Cossato, Gustavo Gasparini, Renato Pestriniero.
Di Gustavo Gasparini che era un grande appassionato di esoterismo, ricordo una conversazione a proposito di Meyrink, l’autore del Golem. “Era anche lui un Gustav”, concluse con compiacimento.
Sandro Sandrelli, giornalista scientifico del “Gazzettino” era un po’ il Fabio Pagan veneziano, una persona molto amabile e cordiale. Una volta andai a trovarlo a casa sua a Mestre, e trascorremmo un pomeriggio gradevolissimo parlando di scienza e fantascienza.
Di questo gruppo però forse la personalità più notevole era Renato Pestriniero.
È un eccellente autore, un veneziano DOC innamorato della sua città, davvero un gentiluomo di vecchio stampo, di quelli che oggi è molto difficile incontrare.
Una volta si prestò a fare da guida turistica a me e mia moglie facendoci visitare gli angoli occulti di Venezia, ricchi di leggende “stregate”, quelli che di solito i turisti non vedono.
Io le convention fantascientifiche, le varie Italcon, non sono riuscito a frequentarle spesso e il motivo è che per un insegnante riuscire a ottenere ferie nell’arco dell’anno scolastico tra settembre e giugno, è un’impresa irta di difficoltà. Avremmo diritto a un massimo di sei giorni, e per ogni singola ora di lezione, dobbiamo trovare un collega che ci sostituisca.
Nel 1991 l’Italcon si teneva a San Marino, e io ero stato invitato a ritirare un premio (la solita targa, non pensate…) in quanto finalista del concorso letterario sammarinese.
Per l’occasione, avevo deciso di portarmi dietro la famiglia, cioè mia moglie e le nostre due figlie, Paola che allora aveva sette anni, e Alessandra di quattro, per far loro visitare quel bellissimo ambiente medioevale che è la città del Titano.
Proprio allora si verificò un episodio riguardante Giuseppe Lippi che mi mise parecchio in imbarazzo.
All’epoca, nella scuola dove insegnavo, avevo un preside piuttosto autoritario.
Alla fine, mi concesse il congedo che mi serviva per recarmi all’Italcon, dopo che mi ero procurato tutte le sostituzioni orarie, ma mi fece penare parecchio tenendomi sulla corda fino all’ultimo.
Poco prima di partire, mi ero sfogato coi miei, lamentandomi del suo atteggiamento.
A San Marino incontrammo tra gli altri Lippi e andammo a salutarlo.
Non so cosa fosse scattato in quel momento nella testa di Alessandra che le avesse fatto identificare Giuseppe con il mio preside, ma con tutto il candore di una bambina di quattro anni, gli chiese: “Tu sei quello cattivo?”
Giuseppe rispose con un largo sorriso bonario, e mia moglie e io, imbarazzatissimi, ci affrettammo a spiegare ad Alessandra che no, non si trattava di lui.
Povero Giuseppe, era l’ultima persona al mondo che si sarebbe potuta definire cattiva!
Un altro fatto che invece ricordo con divertimento.
Da quando esistono i computer, la rete, Facebook, i Photoshop, lo ammetto, io sono uno a cui piace pasticciare con queste cose.
Anni fa avevo postato su Facebook un mio collage sui Giuseppe nella storia d’Italia, dove avevo messo insieme Mazzini, Garibaldi, Verdi e Lippi.
Il risultato fu che ricevetti un messaggio di Silvio Sosio che mi diffidava dal compiere un’operazione dello stesso genere coi Silvio, è palese a quale altro Silvio temeva di essere accostato.
In questi anni, gli anni della gestione Lippi, ho pubblicato alcune cose su “Urania”, due racconti e cinque articoli.
Certamente l’amicizia di Giuseppe avrà avuto una parte in ciò, ma spero che abbiano anche un valore intrinseco.
Il mio racconto Starlight apparso nell’antologia Strani giorni del 1998, colpì molto un giovane appassionato triestino, Roberto Furlani che, vedendo che l’autore era suo concittadino, pensò bene di contattarmi, e da quell’incontro nacque poi la webzine “Continuum”.
Non si tratta però della mia collaborazione con “Urania” che mi ha procurato la maggiore soddisfazione.
Nel 2005 la rivista mondadoriana ha celebrato il suo 1500 numero con un’antologia davvero speciale, Tutta un’altra cosa, che contiene racconti di tutti i curatori che si sono avvicendati alla sua guida nel corso degli anni, da Mario Monicelli a Giuseppe Lippi, passando per Fruttero e Lucentini e Gianni Montanari.
Nella parte saggistica ci sono anch’io con l’articolo La fantascienza e le stranezze dell’Homo sapiens.
Essere affiancato agli storici collaboratori di “Urania” in un numero prestigioso, destinato probabilmente a diventare un ambito pezzo da collezione, è veramente tutta un’altra cosa, come essere fregiati di una medaglia.
Potrei anche menzionare il fatto che il mio romanzo L’orizzonte di cristallo giunse tra i primi cinque finalisti al Premio Urania 2015, e mi è stato riferito da terzi che Giuseppe Lippi lo giudicò “molto buono”.
Purtroppo però Mondadori pubblica soltanto i vincitori del Premio. Per chi ne avesse curiosità, esso è stato poi pubblicato dalle Edizioni Scudo nel 2016.
Uno degli ultimi ricordi che ho di Giuseppe, è un nostro incontro avvenuto in occasione di uno SciencePlusFiction di qualche anno fa. In quel momento ero piuttosto giù di morale.
Gli spiegai la mia insoddisfazione: in tutti questi anni ero riuscito, pensavo, a diventare una firma di una certa importanza nel panorama fantascientifico italiano, magari mi ero guadagnato anche un certo numero di lettori affezionati, ma non si poteva dire che avessi mai veramente sfondato.
La mia situazione – mi rispose – era senz’altro preferibile a quella di molte meteore hanno un momento eclatante e poi nessuno sente più parlare di loro.
“Il vero successo”, mi disse, “È durare”.
Ripenso alle sue parole con amarezza, perché il destino cinico e baro non gli ha permesso di durare molto, ce lo ha tolto quando, ne sono certo, aveva ancora tanto da dare e da ricevere.