Questo racconto deve essere completato: è solamente uno spunto! Chiunque può aggiungere una prosecuzione, utilizzando i commenti. Provate a cimentarvi. Più informazioni qui.

[singlepic id=72 w=200 h=143 float=right]Mi era successo di stringere amicizia con quel grande e indiscusso pittore, ma anche inventore, ma anche genio e scienziato e scrittore e idraulico che tutti conoscono come Leonardo da Vinci, un giorno, passando da i fratelli De Predis, nella parrocchia di San Vincenzo in Prato a Porta Ticinese. La prima volta che ebbi la occasione per parlargli, fu tuttavia quando egli venne a Castello, ove io opero e, siccome ivi faccio servizio, pure vi abito, benché in una stanza di scarsissima qualità e quasi senza finestra. Non ho intenzione di descrivere la pena di questo alloggio, per cui passerò ultra! In quella occasione fu solo buon giorno e buona sera e fu solo più avanti, quando mi successe di dovergli consegnare qualche oggetto dalla biblioteca che il Duca mi aveva ordinato di portare, che sbocciò l’amicizia nostra. La casa ove egli abita è bella grande, benché decisamente fuori dalla città, ma di un ambiente allegro e probabilmente molto stimolante. Quella volta Leonardo da Vinci prese i libri belli che io gli portavo e li osservò a lungo, poi mi parlò di sé e delle cose sue come fossi un amico di sempre e questo molto mi fece piacere. Fu allora che lo sentii come amico e, per ragioni a me affatto sconosciute, anche lui mi degnò di grande affetto.

[singlepic id=73 w=200 h=259 float=right]Il nome mio è Arnaldo da Gavirate, ma nulla di nobile si nasconde dietro questo nome, ché semplicemente dichiara la mia origine, per non lo mi confondere con altro Arnaldo proveniente da Assago e che fa lo stalliere. Invece io sono dedicato a lo spolvero e a la manutenzione de la libreria immensa de il Signore di Milano, Ludovico Sforza. Tra le molte cose che avrei da dire, voglio confessare che incontro il mio Signore ben di rado e le poche volte quasi sempre perché mi succede di essere alla compagnia di Leonardo, che il Signore chiama invece a la sua presenza con grande naturalezza, mandando spesso una carrozza alla abitazione in periferia dove egli alloggia, di modo che il pittore possa agevolmente raggiungere il Castello.

Ho io la età medesima del grande amico mio, se non che sono di un paio di mesi più giovine e farò gli anni suoi stessi, esattamente il giorno 20 di giugno 1493, che mi dicono essere un giovedì, più o meno in cuspide tra i Gemelli e il Canchero.

Il Grande Artista viene invece di Toscana ed egli parla in maniera strana per noi che siamo di Lombardia, ma pure lo si capisce bene, tanto è il suo eloquio di grande affabilità ed enorme bellezza. Forse qualche leggente noterà come io mi sforzi di scrivere con il linguaggio di questo mio grande amico e, oserei dire, maestro, poiché la lingua sua mi ha conquistato ben più del Varesino che mi hanno insegnato fin dalla culla.

Esaurite le necessarie descrizioni, vorrei passare al conto di questo episodio che dovrebbe essere, io ne sono convinto, del tutto ignoto alle genti e ai cronisti, perché il mio amico Leonardo da Vinci ben si è guardato da lo divulgare, in quanto a suo stesso dire, ha provato: “una de le vergogne le più capitali che si potessero sperimentare.”

Torniamo all’indietro di un mese scarso, cioè al 15 di aprile, di questo anno 1493. Mi è facile ricordare la data, poiché, come forse qualche d’uno saprà, è il giorno in cui Leonardo ha compiuto quaranta anni e uno. Era un lunedì.

L’Artista quasi mai esce di sua volontà da la residenza dei fratelli De Predis, per cui fui costretto a domandare un cavallo al cavallaio, mio buon conoscente e quasi omonimo, come ho già detto, perché era mia intenzione di recarmi a far visita al mio amico proprio con quella occasione.

[singlepic id=74 w=300 h=225 float=left]In quel 15 di aprile, cavalcai fino alla periferia della parrocchia di San Vincenzo in Prato con in mano un bellissimo libro di preghiere che avevo rilegato io stesso, con i fogli dei frati di San Celso, presso il Macello. L’Abate era ed è mio grande amico e avevo dunque domandato il favore di far miniare cento bellissime preghiere, come regalo per il mio illustre amico. Il lavoro era risultato di grande qualità, dipinto sulla migliore pergamena nuova e io avevo pagato i frati in natura, con un bel po’ di rifornimenti in vino per le loro cantine. Del resto il vino mi era stato regalato da una madama molto graziosa, di cui mi piacerà raccontare, avendo ella avuto una non piccola parte alla fine di questa vicenda.

Fu dunque a questa maniera che, praticamente senza nulla sborsare, avevo messo assieme un volume bellissimo, che certamente sarebbe molto piaciuto a Sor Leonardo da Vinci, il più illustre degli amici miei.

La giornata era piacevolmente fresca e soleggiata. I canali artificiali erano pieni di barconi che portavano materiale per l’interminabile costruzione della Cattedrale: il cavallo lo feci avanzare con grande attenzione per le strade affollate della città, che erano strette. Molta gente aveva già cominciato a lavorare fuori bottega, rendendo anche di più arduo l’incedere.

[singlepic id=75 w=300 h=207 float=left]Finalmente fui alla Vetera e poco dopo in vista del Ticinese. La casa de i fratelli pittori Evangelista e Giovanni Ambrogio De Predis era ben visibile, per la sua grandezza e per il laboratorio a piano terra. Leonardo era lì sulla strada, ma era chiaro che non stava dipingendo. Aveva invece in mano una squadra e un compasso che però non sembrava utilizzare, invece poggiandosi su di un tavolo, tracciava ogni tanto un po’ di scrittura e faceva qualche schizzo su una pergamena appena grattata. Si diceva che il suo modo di scrivere fosse unico al mondo e incomprensibile. Io non saprei, ché solo riesco a leggere il Pater Noster e il Veni Creator Spiritus, ma poco altro, se non le lettere iniziali sul dorso dei miei libri quando ho da rimetterli a posto.

Scesi dunque di cavallo proprio in fronte alla casa e la bestia si rilassò defecando abbondantemente. Dissi: “Maestro Leonardo, vi trovo bene molto.”

L’umore suo si mostrò subito pessimo, ché grugnì appena.

Notai, solo dopo essermi avvicinato, che sopra la tavola era stata posata una scacchiera di pietra venata di marrone e di panna, molto bella, con ogni pezzo di avorio se bianco e di ebano se nero. Dall’altra parte del tavolo era in piedi, ma quasi invisibile per quanto era piccolo, un omino con una barba straordinariamente notevole e una specie di turbante verde, che si allargava in falde fin sopra alle spalle.

“Immagino già il motivo per cui siete qui, messere Arnaldo,” brontolò un po’ sgarbatamente Leonardo da Vinci. “Per via del mio deplorabile compleanno, ché oramai sono molte le primavere mie e non mi fa piacere ricordarle tutte. Ad ogni modo non è colpa vostra, per cui vi perdono e al contempo ve ne ringrazio!”

Restai qualche momento senza parole: un po’ per la stranezza della scena e la curiosità dell’omo piccolo con il turbante, un po’ per la straordinaria lettura del mio pensiero che aveva fatto Sor Leonardo. Capivo che non era difficile immaginare perché io fossi venuto, ma comunque mi parve brillante.

Per tanto dopo poco profferii: “Vi siete, io capisco, svegliato con grande malumore, Sor Leonardo mio! Male si attaglia uno stato di animo tale, per una festa come il giorno presente.”

“Forse,” egli rispose. “Tuttavia sappiate che il genetliaco non è il motivo del malumore mio! Invece vi faccio noto che non toccherò mai più un pennello. E sono dunque, probabilmente da oggi, senza alcuna casa. Ho seriamente leticato con i fratelli De Predis e non mi stupirebbe che quegli mi cacciassero senza altra parola!”

“Che è successo dunque?” io domandai con qualche preoccupazione.

“Niente di rilevante, a mio vedere,” spiegò Leonardo. “Semplicemente delle tre pale d’altare che mi avevano chiesto per una certa Chiesa, ne ho fatta solo una e dovrà bastare.”

[singlepic id=66 w=200 h=308 float=right]Venni così a sapere che si trattava di una disputa circa l’opera di pittura sull’altare della cappella della Confraternita nella chiesa di San Francesco Grande, il quadro che qualcuno chiamava Vergine delle Rocce e che non avrebbe dovuto essere l’unica opera, ma il mio geniale amico si era del tutto stufato e non intendeva farne altre.

C’erano poi i frati Domenicani di Santa Maria delle Grazie che avevano messo a disposizione il loro Cenacolo per un’opera che il mio autore definiva molto grande e che dopo averla sentita raccontare, sapevo che poteva diventare assai illustre, oltre tutto perorata dal suo stesso patrono, il Duca di Milano. Anche di quella, la voglia di portarla a compimento non pareva esserci. “Ma dovrò farla!” disse dopo una certa pausa. “Ché altrimenti non si mangia. Come vedete messere, la mia ferrea decisione di non toccare più un pennello è già infranta dopo solo poche battute tra voi e me. La vecchiezza fa questi scherzi, mio giovane amico. Non si è mai più sicuri delle decisioni proprie.”

Davanti a tutti questi stimoli, io ben sapevo che Leonardo soffriva di noia e di malumore come certe altre volte e per questo era un bel po’ di giorni che non lo si vedeva in biblioteca, pur sapendo che il Duca lo aveva chiamato ripetutamente. Se non fossi andato personalmente alla casa che lo ospitava in Porta Ticinese, era possibile che l’uomo lasciasse passare l’estate senza farsi più vedere. Come era già successo altre volte.

Dissi poi per motivare il mio viaggio: “Ho avuto l’ardire di recarvi un piccolo dono con questo libro di preghiere, che a dire il vero ho composto io medesimo. L’opera di scrittura naturalmente è dei frati di San Celso, presso il Macello. Ne potete ammirare il cesello molto fine e, credo io, degno dei vostri scaffali.”

Leonardo mi osservò soddisfatto, raccolse tra le mani il bel volume e l’osservò parecchio. Disse alla fine: “Un bel dono e vi prego di perdonare la mala educazione con cui vi ho accolto. Vedo questa preghiera poco conosciuta, che apre il volume e proviene da un Santo a cui sono molto affezionato. Una bell’opera messere Arnaldo, davvero bella. Con questo mi piace dire che non solo avete avuto una encomiabile bella idea a me lo donare, ma vedo che i miei discorsi di arte hanno inciso profondamente sul vostro impareggiabile sentimento!”

“Vero,” dissi contento. “Del resto riporre libri e li conoscere è il mio mestiere, come il vostro è quello di sapere ogni cosa del mondo e della pittura e, credo, di ogni altra arte.”

Leonardo sospirò, in modo tale da far malinconia al solo sentirlo. “Eh, messere! Purtroppo sono quasi senza casa, come vi ho spiegato e poi vi devo confessare che fare quadri e disegni è molto noioso nel mio mestiere. Se proprio devo essere sincero, io dipingo solo per guadagno, ché, se potessi scegliere, preferirei fare l’inventore e l’idraulico. Pur troppo, non esiste guadagno nell’inventare macchine, come questa che vedete qui di fronte a me in questo momento e che ho fatto solo per divertire una signora, che tuttavia, al momento buono, non ha voluto accettarla. Questo mi rafforza nel non aver fiducia alcuna nelle signore! Ultimamente provo più gioia ad educare i giovani ragazzi, ché meglio mi comprendono.”

Sapevo del disprezzo del maestro per le dame in genere e del suo opposto piacere per i giovani ragazzi, il che non fu per me motivo di turbamento. Quello che piuttosto mi tormentava, era che non vedevo alcuna macchina. Dunque gli domandai: “Di quale macchina parlate? Io non vedo che una scacchiera e un minuscolo omo a voi di fronte.”

Leonardo gettò uno sguardo al piccolo orientale, forse Indiano, poi a me e infine rise di gusto: “Ah dunque! Non ve ne siete accorto per nulla?”

“Non so di che stiate parlando mio Signore.”

[singlepic id=78 w=150 h=204 float=right]Indicò l’omo con il turbante e disse: “Egli è la macchina. Non avrete creduto che fosse omo vero, eh? È alto un soldo di cacio. Non è altro che un involucro di pelle di vitello ben conciata e morbida, opportunamente sbiancata, ma il colore è un poco rimasto scuro e questo è uno, con molti altri, tra i motivi per il suo aspetto da indiano. Dentro di esso ho sistemato rotelle di varia dimensione, guidate da meccanismi semplici… Ma via! Non è che un giuoco. E poco serio, vorrei dire!”

Confesso di essere rimasto senza fiato: tale era la perfezione di quella piccola macchina che mai avrei detto non essere un nano, o un bambino travestito! “E come fa a muoversi?” domandai ancora.

Leonardo si strinse nelle spalle: “Non si muove, se non per piccolissime espressioni della faccia e de li occhi, poi con le mani per prendere gli scacchi e per giocarli. Se ben guardate non ha piedi, né gambe. Il vestito lungo non è che un trucco per nascondere la più cospicua parte degli ingranaggi. Direi che ha il cervello nelle braghe e invece in testa non ha quasi niente.” Rise in modo alquanto sguaiato, il che per lui era piuttosto consueto.

[singlepic id=68 w=300 h=169 float=left]“Devo dire,” aggiunsi incerto, “che mi era parso di sentire un sottile odore di legno bruciato qui attorno. Quasi giurerei che venga da dentro questo indiano!”

“Eh sì!” confermò Leonardo. “Non volevo tediarvi con inutili particolari della fisica: dentro c’è una pentola piena di acqua che bolle per un effetto ben bilanciato di braci. Il vapore che ne esce è incanalato dentro una serie di tubi e di sacche che alla fine forniscono i movimenti semplici che sono necessari. Niente di straordinario, credetemi, solo un modo astuto, questo sì. Parrebbe magia, ma non è altro che semplice riscaldamento. Carbone di legna, nulla più”

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nato nel 1944, non ha tempo di sentire i brividi degli ultimi fuochi della grande guerra. Ma di lì a poco, all'età di otto anni sarà "La Guerra dei Mondi" di Byron Haskin che nel 1953 lo conquisterà per sempre alla fantascienza. Subito dopo e fino a oggi, ha scritto il romanzo "Nuove Vie per le Indie" e moltissimi racconti.