Il racconto costituisce la riduzione, direi quasi il distillato, di una storia più lunga, Rosso di sera, finalista al Premio Tolkien 1989 e pubblicato su Urania Millemondi Inverno 1994; questo “riassunto” venne realizzato per partecipare a un concorso per racconti brevi ed è stato pubblicato sull’antologia che riuniva i racconti finalisti di quella manifestazione.
(Pensieri d’autore, Editrice Ibiskos, Empoli 2005)
Dieci giorni dopo la fine del mondo, Stefano Renzi stava viaggiando sulla Milano-Bologna in direzione nord.
Grosse nubi coprivano la luna. Mentre l’auto traforava la notte buia e fonda come velluto, appena interrotta dalle luci lontane di altre auto, gli parve che il fascio dei suoi fari avesse perso d’intensità. Ma forse era solo una impressione.
Probabilmente era l’ultimo viaggio per quella sua vecchia Citroën. Sapeva che era un grosso rischio viaggiare di notte, ma era disposto a tutto pur di rientrare a casa e riunirsi alla sua famiglia.
Dieci giorni prima, alle 17.04 (ora di Greenwich) di un luminoso pomeriggio di aprile, come se una mano gigantesca avesse girato uno smisurato interruttore, in una frazione di secondo l’energia elettrica era scomparsa dall’intero pianeta. E non era più tornata; semplicemente, non si riusciva più a produrla. Anche quella che si cercava di generare usando mezzi che non richiedevano l’impiego di altra energia elettrica o comunque artificiale, come i bacini idroelettrici o i generatori eolici, spariva all’istante; non era possibile immagazzinarla né trasportarla. E, a dimostrazione del fatto che si trattava di un fenomeno che non aveva nulla a che fare con la scienza o la tecnologia, ma di un intervento soprannaturale, divino o diabolico a seconda dei punti di vista, per qualche arcano motivo la sola energia elettrica rimasta sulla Terra era quella già prodotta e immagazzinata in precedenza: quella delle pile, degli accumulatori, delle batterie, comprese quelle delle automobili. Le uniche cose che funzionavano ancora erano radioline, torce elettriche, rasoi, qualunque elettrodomestico che andasse a batteria… e le auto. Per ora. Ma era un conto alla rovescia; prima o poi, anzi prestissimo, le scorte di batterie si sarebbero esaurite. E non sarebbe stato possibile ricaricarle, né costruirne di nuove.
Logicamente, il mondo era piombato nel caos. Non che si sapesse gran che di quanto avveniva negli altri Paesi; molte cose si potevano soltanto immaginare. La complessa rete di comunicazioni che avvolgeva il pianeta, infatti, era andata in tilt. Senza corrente, niente radio, né televisione, né Internet. La posta viaggiava avventurosamente in ambiti assai limitati. Anche i telefoni erano fuori uso, compresi i cellulari, con le batterie ormai a secco e privi dell’appoggio dei ponti radio.
C’era una possibile spiegazione per quel cataclisma che non fosse esclusivamente di tipo magico o religioso? Sua figlia anni prima, all’epoca in cui si era laureata in letteratura straniera con una tesi su una scrittrice cherokee, gli aveva spiegato che per i nativi americani la natura, il mondo, insomma la Terra (sia con la maiuscola che con la minuscola) e tutti gli oggetti che la componevano costituivano un solo, unico essere vivente che soffriva e sanguinava ogni volta che l’Uomo lo feriva, lo violentava, lo sconvolgeva.
Che la Terra/terra avesse deciso di stancarsi, improvvisamente e definitivamente, di essere brutalizzata da quelle formiche arroganti e insaziabili che la percorrevano punzecchiandola senza sosta?
Adesso, era evidente che la luce dei suoi fari si era abbassata. Il fascio luminoso rischiarava un tratto assai più esiguo della strada deserta, ed era diventato giallastro. La sua batteria cominciava a dare segni di stanchezza; e pensare che da tempo si era ripromesso di cambiarla! Se solo lo avesse fatto quindici giorni prima… Adesso, le batterie rimaste non avevano prezzo; semplicemente, non era possibile farsene consegnare.
La luce dei fari si abbassò ancora, il motore cominciò a tossire, a dare colpi irregolari. Ma all’improvviso arrivò qualcosa ad inquietarlo ancora di più. La strada si era messa a vibrare e a sussultare sotto le ruote. Il sudore cominciò a colargli copioso lungo il volto mentre si sforzava di guardare fuori, di perforare il buio della notte. Non c’erano colline nella zona, non dovevano esserci, eppure la strada saliva e scendeva, si avvolgeva su se stessa… cioè, non solo la strada. D’improvviso la luna fece capolino fra le nubi delineando una visione da incubo. Il paesaggio variava e oscillava, si incurvava senza sosta, colli e monti nascevano e si infossavano in un moto continuo e forsennato.
Adesso capiva. Quella che avevano scambiata per la fine del mondo non lo era stata. Non era neppure l’inizio della fine. Al più, un preavviso. Quello, quello era il vero inizio.
L’auto proseguiva lentamente a scatti e sobbalzi, la luce dei fari ormai era un vago chiarore. Stefano guardava con una nuova, strana calma il paesaggio impazzito sotto la luna. Si sentiva rassegnato adesso, come solo si può essere davanti all’ineluttabile. Non c’era nulla da fare, nulla che nessuno al mondo potesse fare. Il paesaggio continuava a cangiare, adesso la strada saliva curvando, verso una galleria. Non c’era mai stata una galleria in quel tratto di autostrada, ne era sicuro. Rimase a fissare, affascinato, i neri bordi dell’imboccatura mentre l’auto, ormai completamente al buio, rotolava stancamente in avanti. Sembra… sembra quasi una bocca, pensò mentre scivolava all’interno, in quel suo ultimo, interminabile istante.