Fuga disperata (parte quarta)

Fuga disperata (parte quarta)

“L’Isola del Dottor Moreau” è il ben noto capolavoro di Herbert George Wells, di cui abbiamo già presentato…

L’Isola del Dottor Moreau” è il ben noto capolavoro di Herbert George Wells, di cui abbiamo già presentato due puntate, come si vede qui sopra. Il servizio è tratto da Liber Liber. che seleziona i romanzi, i libri e i racconti che non hanno più Copyright e li mette a disposizione dei lettori. Questo romanzo è stato pubblicato a Londra nel 1896 e la traduzione italiana è di Arturo Bagnoli. – Milano : Corticelli, [1926].

IX.
NELLA FORESTA.

Camminai traverso la boscaglia che rivestiva la sommità dietro la casa, non badando dove rivolgessi i passi. M’insinuai sotto l’ombra di un folto gruppo d’alberi a fusto diritto e dopo breve tempo mi trovai dall’altra parte della collina, lungo un torrentello che scorreva in un’angusta valle. Mi fermai mettendomi in ascolto. Il lungo tratto percorso e le masse folte del bosco spegnevano qualunque rumore che provenisse dal recinto. L’aria era quieta. Un coniglio saltò fuori strepitando e prese a fuggir via per il declivio dinnanzi a me. Esitai e mi posi a sedere sul margine dell’ombra.

Il luogo era piacevole. Il ruscelletto era nascosto dalla lussureggiante vegetazione della riva, salvo in un punto dove potevo vedere i riflessi delle sue acque brillanti. Più innanzi fra una nebbia azzurrastra vidi un groviglio di alberi e di rampicanti e sopra questi ancora l’azzurro luminoso del cielo. Qua e là una chiazza di bianco o di chermisino indicavano la fioritura di un muschio strisciante. Lasciai errare gli occhi per qualche tempo sopra questa scena, e poi cominciai di nuovo a rimuginare nella mente le strane particolarità del servo di Montgomery. Ma faceva troppo caldo, perché potessi pensare a lungo, e dopo un po’ caddi in un pacifico stato di torpore, fra la veglia e il sonno.

Ne fui tratto, non so quanto tempo dopo, da uno strepito fra le boscaglie, dall’altra parte del fiume. Per un momento non potei veder nulla tranne le sommità oscillanti delle felci e delle canne. Poi d’un tratto sulla riva apparve qualche cosa – non potei distinguere a tutta prima che fosse. Una testa si chinò sull’acqua e cominciò a bere. Allora vidi che si trattava di uomo che camminava sui quattro arti come una bestia.

Era vestito di stoffa turchina ed era di una tinta color rame, coi capelli neri: Pareva che la bruttezza grottesca fosse un carattere costante di questi isolani. Potevo udire il rumore delle sua labbra mentre beveva.

Mi piegai in avanti per vederlo meglio, e un pezzo di lava, che la mia mano staccò, precipitò con rumore giù per il pendio. Egli guardò in su sospettoso e i suoi occhi si incontrarono coi miei. Subitamente si rizzò in piedi, restando fermo a passarsi la mano sgraziata sulla bocca e a guardarmi. Le sue gambe non raggiungevano la metà della lunghezza del corpo. Così, fissandoci l’un l’altro pieni di turbamento, rimanemmo per forse un minuto. Poi si buttò fra i cespugli alla mia destra, arrestandosi una o due volte per guardare indietro. Udii il fruscìo delle fronde farsi sempre più debole in lontananza e spegnersi del tutto. La mia tranquillità sonnolenta era sparita.

Ad un rumore dietro di me diedi un sussulto e, voltandomi di scatto, scorsi la coda bianca di un coniglio che spariva su per il pendio. Balzai in piedi.

L’apparizione di quella grottesca e semibestiale creatura aveva d’un tratto popolata per me la quiete del pomeriggio. Mi sbirciai attorno un po’ nervosamente, rimpiangendo di essere senz’armi. Pensai che l’uomo veduto poco prima vestito di stoffa turchina, non era nudo come un selvaggio, e cercai di persuadermi del fatto che dopo tutto egli era probabilmente di carattere pacifico, e che la stupida ferocia del suo aspetto lo calunniava.

Pure quell’apparizione mi aveva grandemente perturbato. Mi avviai a sinistra lungo il declivio, volgendo attorno il capo e spiando fra i diritti tronchi degli alberi. Perché un uomo camminava sulle quattro estremità e beveva succhiando con le labbra? Dopo un po’ udii ancora il gemito di un animale e credendo fosse il puma mi volsi, e presi a camminare in direzione diametralmente opposta a quella donde proveniva quel suono. Arrivai così presso il fiumicello, che varcai spingendomi fra i cespugli del versante opposto.

Scorgendo sul terreno una gran chiazza rosso vivo ebbi un sussulto, ma, avvicinatomi, vidi che si trattava di un fungo ramificato e rugoso, simile a un lichene, che si scioglieva al tatto in una poltiglia. All’ombra di alcune felci rigogliose m’imbattei nel corpo di un coniglio morto, ricoperto di mosche brillanti, ma ancora caldo e col capo asportato. Mi arrestai spaventato alla vista del sangue sparso.

Sul suo corpo non vi erano altre tracce di violenza. Sembrava fosse stato pigliato e ucciso improvvisamente. Mentre fissavo quel piccolo corpo peloso, sorse nella mia mente la difficoltà di sapere in qual modo fosse stata compiuta l’uccisione. Il vago timore che si era impadronito di me dacché avevo visto il volto inumano dell’uomo presso il fiumicello si fece più distinto mentre stavo là. Cominciai ad accorgermi dell’audacia della mia spedizione fra questa gente sconosciuta. Il bosco attorno a me si modificava nella mia fantasia. Ogni ombra diveniva qualcosa più di un’ombra, diventava un’imboscata, ogni rumore diveniva una minaccia. Pareva che cose invisibili mi guardassero.

Decisi di far ritorno al recinto sulla spiaggia. Voltai la schiena a precipizio e mi cacciai con impeto traverso la boscaglia, ansioso di avere di nuovo intorno a me uno spazio libero.

Mi fermai sull’orlo di una radura fatta nella foresta da una frana. Al di là la massa fitta dei tronchi e viticci rampicanti formavano una nuova muraglia. Davanti a me, accosciati in gruppo sugli avanzi fungosi di un enorme albero abbattuto stavano tre grottesche figure umane. Una era evidentemente una femmina, le altre due erano uomini. Erano nudi, eccezion fatta per alcuni brandelli di panno scarlatto attorno alla cintola. Le loro epidermidi erano di un colore cupo tra il rossiccio e il nocciola, che non avevo mai veduto prima nei selvaggi. Avevano volti grassi pesanti senza mento, fronti sfuggenti, e scarsi capelli setolosi sul capo.

Stavano parlando o almeno uno degli uomini stava parlando agli altri due e tutti e tre erano troppo attenti alla loro conversazione per udire lo strepito del mio avvicinarsi. Scuotevano la testa e le spalle da destra a sinistra e viceversa. La voce di quello che parlava era grassa e gorgogliante e quantunque la potessi udire distintamente non potevo distinguere quello ch’egli diceva, perché parlava un gergo complicato e sconosciuto. Dopo un po’ la sua pronuncia si fece più stridente e allargando le mani si alzò in piedi.

Anche gli altri cantavano all’unisono, levandosi parimenti in piedi, allargando le mani e facendo oscillare i loro corpi seguendo il ritmo del loro canto. Notai allora la brevità anormale delle loro gambe e i loro esili piedi tozzi. Tutti e tre cominciarono pian piano a muoversi in giro, sollevando i piedi e battendoli al suolo e agitando le braccia; una specie di armonia spirava nella loro declamazione ritmica e un ritornello vi faceva capolino – simile al suono di «aloola» o «baloola». I loro occhi cominciarono a scintillare e le loro brutte faccie a risplendere di un’espressione di strano piacere; dalle loro bocche senza labbra cadevano filamenti di saliva.

A un tratto, mentre stavo osservando i loro gesti grotteschi e inspiegabili, percepii distintamente per la prima volta la ragione che aveva suscitato in me le due impressioni incompatibili e discordanti della loro completa singolarità e pure della loro più strana famigliarità.

Le tre creature occupate in quel rito misterioso erano umane nella forma, ma avevano una strana somiglianza con qualche animale comune. Ognuno di questi esseri, malgrado l’aspetto, lo straccio di vestito, e la rozza umanità delle forme corporali, aveva implicata in sé, nei suoi movimenti, nella espressione del suo viso, in tutta la sua esteriorità, qualche cosa che faceva pensare a un maiale.

Restai lì sopraffatto da questa sorprendente constatazione e allora nella mia mente vennero affollandosi le più orribili domande, le bestie cominciarono a saltare con schiamazzi e grugniti. Poi uno scivolò e per un istante stette sui quattro arti, per rimettersi poi subitamente nella posizione eretta. Ma quel barlume passeggero della vera animalità di quei mostri mi bastò.

Voltai le spalle col minor rumore possibile e fermandomi immobile a quando a quando per tema di essere scoperto per lo scricchiolio di un ramoscello o il fruscio delle foglie, mi ricacciai nella boscaglia. Ci volle molto tempo prima che mi facessi più ardito e osassi di muovermi liberamente.

Per il momento la mia unica idea era quella di allontanarmi da quegli esseri sordidi. Seguivo senza accorgermene un sentiero appena segnato frammezzo gli alberi. Allora, traversando improvvisamente una piccola radura, vidi con sgradevole sorpresa due gambe tozze fra gli alberi, che camminavano a passi silenziosi parallelamente a me, e alla distanza forse di trenta metri. La testa e la parte superiore del corpo erano celati da un groviglio di piante rampicanti. Mi arrestai di scatto, nella speranza che quella creatura non mi vedesse. Alla mia fermata i piedi pure si fermarono. Ero così nervoso che non riuscii che colla più grande difficoltà a dominare l’impulso di una fuga all’impazzata.

Allora, guardando bene, distinsi fra la rete aggrovigliata dei rami la testa e il corpo dell’animale che avevo veduto bere. Mosse il capo e mi guardò di sotto l’ombra degli alberi. I suoi occhi ebbero un lampeggiamento di un colore semi brillante, che sparì quand’egli voltò via di nuovo il capo. Rimase immobile per un istante e poi con passo silenzioso prese la corsa traverso quel groviglio verde. Un istante dopo era scomparso dietro alcuni cespugli. Io non potevo vederlo, ma sentivo che si era fermato e che stava guardandomi ancora.

Che diamine poteva essere? Uomo o bestia? Che voleva egli da me? Io non avevo armi, nemmeno un bastone. Fuggire sarebbe stato follia. Ad ogni modo quella cosa, checché si fosse, non aveva il coraggio di assalirmi. Stringendo con forza i denti camminai diffilato su di lui. Ero ansioso di non dar a vedere il timore che mi agghiacciava la spina dorsale. Mi spinsi traverso un groviglio di alti cespugli di fiori bianchi, e lo vidi a venti metri di distanza, strisciare verso di me e stare esitante. Feci un passo o due innanzi fissandolo fermamente negli occhi.

— Chi siete? – gridai. Egli cercò di sostenere il mio sguardo.

— No! – disse poi bruscamente e, girando su se stesso, si allontanò a balzi traverso la boscaglia. Poi si voltò e mi fissò di nuovo. I suoi occhi brillavano di una luce fulgida nella penombra degli alberi.

Tremavo dalla paura, ma sentivo che l’unica mia probabilità di salvezza era di far fronte al pericolo. Mossi risolutamente alla sua volta. Egli voltò di nuovo le spalle e sparì nella penombra. Una volta ancora credetti di vedere il lampeggiamento dei suoi occhi e fu tutto.

Solo allora mi accorsi quanto l’ora avanzata potesse essermi dannosa. Il sole era tramontato da qualche minuto, il rapido crepuscolo dei tropici stava già svanendo nel cielo e una delle prime tignuole svolazzava silenziosamente sopra il mio capo. A meno di voler passare la notte fra i pericoli ignoti della foresta misteriosa, dovevo affrettarmi a ritornare al recinto.

Il pensiero di un ritorno a quel ricovero dominato dal dolore, mi ripugnava, ma ancora più mi spaventava l’idea di essere sorpreso all’aperto dall’oscurità e da tutto quel che poteva celare l’oscurità. Diedi un’altra occhiata nelle ombre azzurre che avevano ingoiato quella strana creatura, indi rifeci il cammino scendendo il declivio verso la corrente, marciando, a mio giudizio, nella direzione donde ero venuto.

Camminavo di buona lena, perplesso per tutte quelle cose e dopo un po’ mi trovai in un luogo piano fra alberi radi. Quella chiarezza incolore che segue il rosso del tramonto andava oscurandosi. Il cielo azzurro si faceva di momento in momento più scuro e ad una ad una le piccole stelle foravano la luce diminuita; gli intervalli fra gli alberi, i vuoti nella vegetazione lontana, che nella luce del giorno erano stati di un azzurro intenso, si facevano scuri e misteriosi.

Seguitavo ad andare innanzi. Il colore sparì dal mondo, le cime degli alberi si elevarono contro l’azzurro luminoso del cielo come figure d’inchiostro e tutto al di sotto di quel contorno si fuse in tenebre senza forma. Dopo breve tempo, gli alberi si fecero più sottili, e i cespugli della boscaglia bassa più abbondanti. Quindi non ci fu che uno spazio deserto coperto di sabbia bianca e un’altra distesa di cespugli aggrovigliati.

Alla mia destra un lieve frusciare m’inquietava. Credetti a uno scherzo della mia fantasia, perché ogni volta che mi fermavo, si faceva un silenzio, solo rotto dal rumore del vento serotino fra le vette degli alberi. Quando mi rimettevo in moto v’era un’eco ai miei passi.

Mi allontanai dal fitto della boscaglia, tenendomi sul terreno più scoperto, e tentando a quando a quando con improvviso voltafaccia di sorprendere, dato ci fosse, la causa del rumore. Non vidi nulla e pur nondimeno in me non faceva che aumentare l’impressione della presenza di un altro. Accelerai il passo e dopo poco tempo giunsi ad una lieve elevazione di terreno. La varcai e mi volsi rapido a guardarla fissamente da lontano. Spiccava nera e a contorni netti contro il cielo che si andava oscurando.

Una massa informe si elevò per un momento contro la linea del cielo e sparve di nuovo. Ora ero certo che il mio antagonista camminava sempre dietro di me. A questa si aggiunse subito un’altra sgradevole constatazione: avevo smarrito la via.

Per qualche tempo camminai innanzi in fretta in una perplessità disperata, esasperato da quell’inseguimento furtivo. Checché si fosse quella creatura non aveva il coraggio di assalirmi o attendeva per cogliermi in un momento d’inferiorità. Mi tenevo con somma cura all’aperto. Talvolta mi voltavo, tendevo l’orecchio e mi persuadevo che il mio inseguitore aveva rinunziato alla caccia, o che tutto non era che il parto della mia eccitata fantasia. Udii il rumore del mare.

Accelerai il passo fin quasi a correre e immediatamente sentii dietro le mie spalle che qualcuno incespicava.

Mi voltai di scatto cercando di vedere tra il folto degli alberi. Tesi l’orecchio e non udii nulla tranne l’affluirmi del sangue nelle orecchie. Credetti a un effetto di rilassatezza di nervi, mi pensai zimbello della mia immaginazione, e rivolsi risoluto i passi verso il rumore del mare.

Dopo un minuto o press’a poco, gli alberi divennero più sottili ed io uscii sopra una punta di terra bassa e nuda protendentesi entro l’acqua cupa. La notte era calma e chiara e i riflessi della moltitudine sempre crescente delle stelle tremolavano sul tranquillo ondeggiare del mare. Un po’ al largo, su un irregolare banco di scogliere, la schiuma risplendeva di una pallida luce tutta propria. Verso occidente scorsi la luce zodiacale mischiarsi collo splendore giallo delle stelle della sera. La costa spariva bruscamente verso oriente, e verso ponente era nascosta dal dorso del promontorio. Allora mi ricordai che il recinto di Moreau era situato a occidente.

Un ramoscello schiantò dietro di me e udii un fruscìo. Mi voltai fermandomi di fronte agli alberi tenebrosi. Non potevo vedere nulla; o meglio vedevo troppo. Ogni forma oscura nella tenebra aveva il suo lato minaccioso, faceva pensare ad un nemico in agguato. Rimasi così per circa un minuto, indi, sempre coll’occhio sugli alberi, mi volsi verso ponente per traversare la punta di terra. E mentre mi voltavo, una delle ombre appiattate si mosse anche essa per seguirmi.

Il mio cuore prese a battere a gran colpi. Il largo specchio di una baja stendentesi ad occidente divenne visibile ed io mi arrestai di nuovo. L’ombra silenziosa si fermò a dodici metri da me. Un piccolo punto luminoso brillava all’estremità della curva e la grigia spianata della riva sabbiosa si stendeva appena visibile sotto la luce stellare. Il punto luminoso distava forse due miglia. Per raggiungere la spiaggia dovevo attraversare gli alberi dove le ombre mi spiavano, indi discendere un declivio irto di cespugli. Ora potevo vedere un po’ più distintamente il mio inseguitore. Non era un animale poiché stava ritto. Aprii la bocca per parlare, ma la voce mi si strozzò in gola. Tentai di nuovo e gridai: «Chi è là»? Non vi fu risposta. Avanzai di un passo. La cosa non si mosse: soltanto si raccolse su se stessa. Urtai col piede in un sasso.

Ciò mi fece nascere un’idea. Senza distogliere gli sguardi da quella forma nera dinanzi a me, mi chinai e raccolsi quel pezzo di roccia. Ma al mio atto, la cosa fece un brusco voltafaccia e fuggì in linea obliqua entro l’oscurità più remota. Allora mi sovvenni di un espediente usato dagli scolari contro i cani: avvolsi il sasso in un capo del fazzoletto e legai l’altro attorno al polso. Udii del movimento fra le ombre, come se la cosa battesse in ritirata. Improvvisamente i miei nervi si distesero, mi sentii invadere da un copioso sudore e caddi tremante.

Occorse qualche tempo prima che potessi risolvermi a scendere traverso gli alberi e i cespugli sul fianco del promontorio verso la riva. Finalmente mi decisi a farlo di corsa e mentre usciva dal fitto sulla sabbia udii un altro corpo venire con strepito dietro di me.

Perdetti completamente la testa per la paura e presi a correre sul terreno sabbioso. Udii un rapido scalpiccio di piedi alle mie spalle. Emisi un urlo feroce e raddoppiai il passo. Mentre passavo, alcuni oggetti neri confusi, d’una grossezza di tre o quattro volte quella dei conigli, si precipitarono correndo o saltando dalla riva verso i cespugli. Finché vivrò non mi scorderò il terrore di quella caccia. Correvo lungo il margine dell’acqua e di tratto in tratto udivo il tonfo dei piedi che guadagnavano vantaggio su di me. Lungi lungi, a una distanza disperata, brillava la luce gialla. Tutta la notte attorno era nera e silenziosa. Plac, plac, i piedi persecutori si facevano sempre più vicini. Sentii mancarmi il fiato, ero privo di allenamento; respiravo rumorosamente e sentivo un dolore acuto ad un fianco. Intuii che l’inseguitore mi avrebbe raggiunto molto tempo prima di arrivare al recinto e, disperato, trattenendo a fatica il respiro, girai su me stesso e l’affrontai. Mentre si avventava su di me vibrai il colpo con tutta la forza di cui disponevo: il sasso uscì dalla fionda fatta col fazzoletto.

Mentre mi voltavo, la cosa, che correva sui quattro arti, s’era levata in piedi e il proiettile le era piombato giusto giusto sulla tempia sinistra. Il cranio emise un rumore e l’uomo-animale balzò su di me, mi spinse indietro colle mani e mi oltrepassò barcollante andando a cadere lungo disteso sulla sabbia col volto nell’acqua. E qui giacque immobile.

Non ebbi coraggio di avvicinarmi a quella massa nera. L’abbandonai sotto le stelle silenziose, e seguitai il mio cammino verso il bagliore giallo. Dopo breve tempo, udii, con un vero senso di sollievo, il gemito pietoso del puma. Quantunque fossi debole e stanco, raccolsi tutta la mia energia e presi di nuovo a correre verso la luce. Mi pareva che una voce mi chiamasse.

X.
LE GRIDA DELL’UOMO.

Giunto presso la casa vidi che quella luce usciva dall’uscio aperto della mia camera; indi udii, proveniente dalle tenebre a lato di quel rettangolo luminoso, la voce di Montgomery gridare «Prendick».

Continuai la corsa. Dopo un po’ lo riudii. Risposi debolmente e un momento dopo mi avvicinavo a lui barcollando.

— Dove siete stato? – chiese, trattenendomi col braccio disteso, cosicché la luce che usciva dall’uscio mi cadeva sul volto. – Eravamo così occupati che ci siamo scordati di voi fino a mezz’ora fa.

Mi condusse nella stanza e mi fece sedere nella poltrona. Per un po’ di tempo fui accecato dalla luce.

— Non credevamo che vi sareste messo ad esplorare questa nostra isola senza preavvisarci. – E poi avevo paura… ma cosa avete?…

Quel po’ di forza che mi era rimasta mi sfuggiva e il capo mi cadde in avanti sul petto. Credo ch’egli provasse una certa soddisfazione nel somministrarmi dell’acquavite.

— Per amor di Dio, – dissi, – chiudete quell’uscio.

— Vi siete imbattuto in qualcuna delle nostre curiosità, eh? – Chiuse l’uscio a chiave e si volse nuovamente verso di me. Non mi fece domande, ma mi diede ancora acquavite ed acqua e mi spinse a mangiare. Ero in uno stato di completo abbattimento. Mi fece qualche vaga scusa per essersi dimenticato di avvisarmi e mi chiese in poche parole di quanto mi ero allontanato da casa e che cosa aveva veduto. Gli risposi altrettanto concisamente a frasi frammentarie.

— Ed ora spiegatemi che significa tutto ciò, – dissi in uno stato che rasentava il furore.

— Nulla di spaventoso, – rispose – ma credo che ne abbiate avuto abbastanza per un giorno.

Improvvisamente il puma emise un urlo acutissimo di dolore. Al che egli diede in una bestemmia tra i denti. – Che sia maledetto, – esclamò – se questo luogo non è orribile come il laboratorio a Londra… con quei gatti…

— Montgomery – chiesi più calmo – che era quella cosa che mi ha inseguito, una bestia o un uomo?

— Se non dormirete stanotte, domani sarete impazzito – mi rispose.

Mi levai diritto di fronte a lui e:

— Che era quella cosa che mi ha inseguito? – insistetti.

Mi guardò fisso negli occhi, torse la bocca. I suoi occhi che un momento prima parevano animati si offuscarono.

— Da quel che mi avete detto, credo che fosse uno spettro.

Sentii improvvisamente in me un impeto di interna irritazione. Ma passò rapido come sorse. Mi buttai di nuovo nella poltrona premendomi le mani sulla fronte. Il puma ricominciò a urlare.

Montgomery mi venne dietro e mi posò la mano su una spalla.

— Guardate, Prendick, – disse, – non era mia intenzione lasciarvi uscire e vagare per questa idiota isola nostra. Ma non è poi tanto brutta. Come vi sentite, amico? I vostri nervi sono ridotti a cenci. Lasciate che vi dia qualcosa che vi farà dormire. Quello… continuerà ancora per delle ore. Voi dovete dormire, altrimenti non garantisco nulla.

Io non risposi. Mi piegai in avanti e mi coprii il volto colle mani. Un istante dopo egli ritornò con un piccolo recipiente contenente un liquore scuro. Me lo diede. Lo presi senza opporre resistenza, ed egli mi aiutò a salire nell’amaca.

Allorchè mi destai era giorno alto. Restai per lungo tempo immobile e disteso guardando il soffitto finchè il bisogno di mangiare m’indusse a scendere dall’amaca che, con somma cortesia, girò su se stessa scaricandomi sul pavimento.

Mi levai e sedetti a tavola. Sentivo la testa pesarmi e non avevo che una vaga memoria delle cose accadute durante la notte. Il vento mattutino entrava piacevolmente attraverso la finestra senza vetri e questo insieme al cibo contribuì a darmi un senso di benessere.

Dietro di me, l’uscio interno verso il cortile del recinto si aprì. Mi volsi e scorsi Montgomery.

— Come state? – domandò. – Sono terribilmente occupato.

Tirò l’uscio dietro di sè e solo in seguito mi accorsi che si era scordato di rinchiuderlo a chiave.

La sua presenza risvegliò in me il ricordo della serata precedente e tutte le sensazioni provate. La paura mi riprese di nuovo e nello stesso tempo un grido si udì nell’interno. Ma questa volta non era il grido del puma.

Deposi la forchetta che avevo in mano e tesi l’orecchio. Silenzio. Solo s’udiva il sussurro della brezza mattutina. Dubitai che i sensi mi avessero ingannato.

Dopo una pausa ripresi il pasto ma con le orecchie sempre vigilanti. Ben presto un altro rumore si fece udire ma molto fioco. Rimasi pietrificato. Sebbene debole e sordo l’ultimo rumore udito mi commosse profondamente, più di tutti gli altri che avevo intesi precedentemente.

Stavolta non vi era da ingannarsi sulla qualità di quei suoni rotti e cupi, nessun dubbio sulla loro origine; erano gemiti, rotti da sospiri e da aneliti di dolore. Questa volta non era un animale, era un essere umano torturato.

Mi alzai e in tre passi attraversai la stanza, afferrai la maniglia dell’uscio che conduceva nel cortile e lo spalancai di colpo.

— Prendick! Fermatevi! – gridò Montgomery intervenendo.

Vidi in una cunetta del sangue, sangue bruno rossastro e sentii l’odore speciale dell’acido fenico. Attraverso un uscio semi aperto, dall’altro lato della corte, nella penombra, scorsi qualcosa legato su una specie di telaio, un essere pieno di cicatrici, rosso, fasciato. Coprendo col suo corpo questo spettacolo terrificante, apparve il vecchio Moreau pallido e terribile.

Con una mossa rapida mi afferrò per una spalla con la mano insanguinata, mi fece girare su me stesso e con uno spintone mi scaraventò lungo e disteso nella mia stanza.

Mi aveva sollevato come fossi stato un bimbo. L’uscio si rinchiuse con fracasso nascondendomi l’espressione d’ira intensa del suo volto. Udii la chiave girare nella serratura e la voce di Montgomery che si discolpava.

— Rovinare il lavoro di una intera esistenza, – gridava Moreau.

— Egli non capisce – replicava Montgomery. Poi aggiunse dell’altro che non riuscii ad afferrare.

— Non ho più tempo da perdere – disse ancora Moreau.

Il resto della disputa non giunse fino a me.

Mi sollevai, rimasi ritto e tremante con un caos di orribili sospetti che mi turbinavano nel cervello.

— Che la vivisezione degli uomini sia una cosa possibile? – mi chiesi.

Questa domanda fu come un lampo in un cielo tempestoso. E improvvisamente nella mia mente si precisò, in una netta visione, il pericolo che correvo.

Copertina tratta da Comic Vine.

 

Herbert George Wells
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nacque a Bromley il 21 settembre 1866, morto a Londra, 13 agosto 1946, è stato uno scrittore britannico tra i più popolari della sua epoca. Autore di alcune delle opere fondamentali della fantascienza, è ricordato come uno degli iniziatori di tale genere narrativo, grazie alle sue opere, Wells è stato definito come un "padre della fantascienza", insieme a Jules Verne e Hugo Gernsback.