Questa mattina, dopo essermi alzato, ho guardato fuori dalla finestra del mio alloggio. È una giornata limpida, senza nuvole. Il cielo è di un bell’azzurro intenso, c’è un gradevole tepore e l’aria è pregna dei profumi dell’erba fresca, dei fiori, dei pollini. La stagione sta cambiando, e ormai siamo decisamente entrati nella primavera.
Così ho deciso, mi sono vestito e sono andato a fare una camminata al parco. Le aiuole sono ricoperte dal verde tenero dell’erba nuova, e gli alberi hanno rimesso a nuovo le loro chiome dopo la pausa invernale. L’aria è piena dei richiami degli uccelli e dei brusii degli insetti.
Come mi aspettavo, ci sono bambini che giocano sulle altalene e sulle giostre sotto lo sguardo vigile dei nonni, e madri che spingono le carrozzine. Dopo aver camminato un po’, mi siedo su di una panchina e mi guardo intorno assaporando, quasi bevendo tanta serenità. Pare quasi una cosa impossibile dopo le esperienze atroci della guerra.
Dopo un poco, mi passa accanto un anziano che tiene per mano il nipotino. Vedo che il bambino lancia di sottecchi un’occhiata incuriosita alla decorazione che tengo come al solito appuntata sul petto del giubbotto.
Sento che chiede bisbigliando:
“Nonno, chi è quel signore?”
“È uno degli eroi che hanno salvato il nostro mondo”, sento che risponde l’anziano.
Scusate la vanità, ma udendo quelle parole, non posso fare a meno di provare un piacevole brivido di fierezza. Però subito dopo, ecco la stura a una lunga serie di ricordi di cose che preferirei poter dimenticare.
Vedete, prima che tutto cominciasse, non ci tenevo proprio a essere un eroe, non ci pensavo nemmeno. Le mie aspirazioni erano quelle di tutti quanti: finire gli studi, trovare un lavoro che mi appagasse e mi desse tranquillità economica, mettere su famiglia con la ragazza che amavo. Sembra passata un’enormità di tempo da allora, letteralmente un altro mondo.
Poi, quando nessuno se l’aspettava, successe. Successe quello che per decenni ci avevano assicurato che fosse diventato impossibile: un improvviso squilibrio, una rottura nelle relazioni internazionali sfuggì di mano. All’improvviso scoppiò la guerra, tutto il nostro mondo cambiò bruscamente per sempre, nulla sarebbe mai stato più la stessa cosa.
Fui richiamato alle armi, mi fu data una divisa. Dopo un mese di addestramento idiota a stare in riga, allineati e coperti, attenti-riposo, io e il mio gruppo fummo mandati al fronte a impiegare quelle armi di cui ci avevano sommariamente spiegato il funzionamento.
Eravamo nella fanteria d’assalto che operava in appoggio ai corazzati. Toccava a noi proteggerli ai fianchi e alle spalle dai cecchini con le armi anticarro, seguirli nelle loro punte offensive allargando gli sfondamenti, distruggere i nidi di mitragliatrici. Era un compito duro, ce ne rendemmo presto conto, man mano che molti di noi erano impietosamente falcidiati nei combattimenti.
Io però fui relativamente fortunato fino a quando non ci mandarono all’assalto di quel maledetto bunker che i cannoni dei nostri carri avevano danneggiato assai meno di quel che sembrava. Eravamo scattati in avanti per liquidare le ultime resistenze nemiche, o almeno così credevamo, quando fui centrato in pieno dalla granata di un obice ben mimetizzato.
Fu un lampo, un istante, feci in tempo a comprendere che per me era finita, la cosa fu così rapida che non ebbi nemmeno il tempo di provare dolore.
Stranamente, mi risvegliai alla coscienza, ma le sensazioni che percepivo erano tutte distorte, come se provenissero da qualcosa che non era il mio corpo. Impiegai del tempo a capire cosa fosse successo. Quel proiettile aveva spappolato il mio corpo, ma il cervello era rimasto intatto. Tempestivamente recuperato, ero stato inserito in un programma sperimentale per trasformare i soldati nelle mie condizioni, mutilati o peggio, in driver di corazzati o sistemi d’arma
Come lo compresi, maledissi quei dannati: prima mi avevano tolto la mia vita per la loro sporca politica, poi la mia umanità trasformandomi in una macchina, senza nemmeno lasciarmi il diritto di morire in pace.
Li maledissi, li odiai, ma poi finii per provare anche una sensazione di amaro piacere, quello di avere un corpo indistruttibile che se la rideva delle mitragliatici, sentire il terreno sotto i cingoli come sotto i piedi, di notte accendere gli infrarossi e vederci come di giorno. Sparare, caricare il potente cannone di cui ero dotato e seminare la distruzione, era semplicemente come sputare. Voglio essere sincero, nei momenti degli assalti finivo per provare una specie di ebbrezza selvaggia.
Poi successe di nuovo qualcosa che nessuno aveva previsto: era intervenuta una nuova forza a spazzare via con un pugno d’acciaio i combattenti dell’una e dell’altra parte. Fui catturato e riconvertito. In pratica mi furono cambiate le insegne e mi rimisi all’opera, tanto, a quel punto, una parte valeva l’altra.
La guerra giunse al termine con una rapidità sorprendente. Riebbi un corpo sintetico ma umano, e fui congedato, congedato CON ONORE.
Mi alzo dalla panchina e mi dirigo verso il bar. Da un lato c’è la fila dei ragazzini che acquistano gelati e dolciumi, dall’altro ci sono i tavolini della caffetteria. Vedo che a un tavolino è seduto il guardiano del parco. Non avendo in realtà molto da fare, è venuto anche lui a consumare qualcosa.
Lo saluto con un gesto della mano, siamo vecchi amici. Essendo entrambi dei cyborg, abbiamo subito solidarizzato.
“Se non l’hai già preso, ti offro un caffè”, dico.
Lui annuisce e mi ringrazia mentre vado a sedermi vicino a lui.
È anche lui un cyborg, ma con una storia molto diversa dalla mia, è un terminator, e anche di loro ne sono rimasti pochi, quelli che come lui sono stati riconvertiti come guardiani o simili, la maggior parte sono stati smantellati. Non essendoci più esseri umani, tranne che in questa riserva-memoriale del mondo scomparso, non essendoci più nessuno da terminare, erano diventati inutili.
Porto la tazzina alle labbra e assaporo il caffè lentamente.
Questo mio corpo sintetico è meraviglioso; ho quasi le stesse sensazioni gustative del mio vecchio corpo umano.
Skynet è stato generoso.
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