La Principessa di Marte: la Nursery è la settima puntata del famoso ciclo John Carter di Marte scritto da Edgar Rice Burroughs come pure, Tarzan delle scimmie, già presentato in questo sito.
Pubblicheremo poco per volta l’intero romanzo tradotto apposta per questa occasione.
Tutte le puntate sono facilmente rintracciabili cercando “John Carter,” ma ecco un elenco aggiornato dei capitoli pubblicati:
Capitolo VII
Come si allevano i figli su Marte
Dopo una colazione che era la copia esatta del pasto del giorno precedente – e, praticamente, un esempio di ogni altro pasto che mi sarebbe stato servito durante la mia permanenza presso gli uomini verdi di Marte – Sola mi accompagnò alla piazza, dove trovai l’intera comunità impegnata a osservare o ad aiutare nell’attacco di enormi animali mastodontici a grandi carri a tre ruote. C’erano circa duecentocinquanta carri, ciascuno trainato da un solo animale, ognuno dei quali, a giudicare dall’aspetto, avrebbe potuto con facilità trainare l’intero convoglio anche a pieno carico.
I carri erano grandi, capienti e splendidamente decorati. In ognuno sedeva una femmina marziana carica di ornamenti di metallo, gioielli, sete e pellicce, e sul dorso di ciascuna delle bestie che li trainavano era appollaiato un giovane conducente marziano. Come per le cavalcature dei guerrieri, anche gli animali da tiro più pesanti non portavano né morso né briglie, ma venivano guidati unicamente per mezzo della telepatia.
Questa facoltà è meravigliosamente sviluppata in tutti i marziani, e spiega in gran parte la semplicità della loro lingua e il numero relativamente esiguo di parole pronunciate anche nelle conversazioni più lunghe. È la lingua universale di Marte, grazie alla quale gli esseri superiori e inferiori di questo mondo di paradossi sono in grado di comunicare in diversa misura, a seconda della sfera intellettuale della specie e dello sviluppo del singolo individuo.
Quando la carovana si mise in marcia in fila indiana, Sola mi trascinò su un carro vuoto e proseguimmo con il corteo verso il punto da cui il giorno prima ero entrato in città. In testa alla carovana cavalcavano circa duecento guerrieri, cinque per fila, e un numero equivalente chiudeva la retroguardia, mentre venticinque o trenta cavalieri di scorta fiancheggiavano i due lati.
Tutti tranne me – uomini, donne e bambini – erano pesantemente armati, e alla coda di ogni carro trottava un segugio marziano; il mio fedele animale seguiva da vicino il nostro carro. In realtà, quella creatura fedele non mi abbandonò mai di sua volontà durante tutti i dieci anni che trascorsi su Marte.
Il nostro cammino ci portò fuori attraverso la piccola valle davanti alla città, tra le colline e giù fino al fondo del mare secco che avevo attraversato nel mio viaggio dall’incubatrice alla piazza. Si rivelò che proprio l’incubatrice era il punto terminale del nostro viaggio e, non appena raggiungemmo la distesa piatta del fondale marino, l’intera carovana si lanciò in una folle galoppata, così che presto fummo in vista della nostra meta.
Una volta arrivati, i carri vennero disposti con precisione militare sui quattro lati del recinto e una decina di guerrieri, guidati dall’enorme capo e comprendenti Tars Tarkas e altri capi di rango inferiore, smontarono avvicinandosi. Vidi Tars Tarkas spiegare qualcosa al capo principale, il cui nome – provando a renderlo nella nostra lingua – era Lorquas Ptomel, Jed; jed era il suo titolo.
Fui presto messo al corrente dell’argomento della loro conversazione quando, chiamando Sola, Tars Tarkas le fece cenno di mandarmi da lui. A quel punto avevo ormai imparato a padroneggiare le difficoltà del camminare nelle condizioni marziane e, rispondendo prontamente al suo comando, mi portai dal lato dell’incubatrice dove si trovavano i guerrieri.
Appena giunto accanto a loro, mi bastò uno sguardo per vedere che, salvo pochissime eccezioni, tutte le uova si erano schiuse: l’incubatrice pullulava di quei diavoletti piccoli e ripugnanti. Erano alti tra i novanta centimetri e il metro e venti, e si muovevano irrequieti in giro per il recinto, come se cercassero cibo.
Quando mi fermai davanti a Tars Tarkas, costui indicò oltre l’incubatrice e disse: «Sak». Compresi che voleva che ripetessi la mia esibizione del giorno precedente, per il divertimento di Lorquas Ptomel e di tutti. Devo ammettere che la mia abilità mi dava non poca soddisfazione, così mi prestai volentieri: con un balzo superai in un colpo i carri parcheggiati dall’altra parte dell’incubatrice. Al mio ritorno, Lorquas Ptomel grugnì qualcosa verso di me, poi, volgendosi ai guerrieri, diede degli ordini a proposito dell’incubatrice. Non mi prestarono più attenzione, e così mi fu concesso di restare vicino per osservare le loro operazioni, che consistevano nell’aprire un varco nel muro del recinto, ampio abbastanza per permettere l’uscita dei giovani marziani.
Ai due lati dell’apertura, le donne e i marziani più giovani –maschi e femmine – formarono due file compatte che si estendevano tra i carri e proseguivano fino oltre alla pianura. In mezzo a queste due pareti umane, i piccoli marziani si precipitarono, selvatici come cervi; potevano correre per tutta la lunghezza del corridoio, al termine del quale venivano catturati tutti dalle donne e dai ragazzi più grandi. L’ultima della fila da un lato prendeva il primo piccolo che raggiungeva il fondo del corridoio, la sua opposta nell’altra fila afferrava il secondo, e così via, finché tutti i piccoli che avevano lasciato il recinto fossero assegnati a qualche giovane o femmina. Quando una donna catturava un piccolo, usciva dalla fila e tornava al proprio carro, mentre i piccoli finiti nelle mani dei giovani maschi venivano in subito dopo affidati a una delle donne.
Vidi che la cerimonia – se così la si poteva chiamare – era terminata; cercando Sola, la trovai sul nostro carro con in braccio una piccola mostruosa creatura stretta a sé.
Il compito di crescere i giovani marziani verdi consiste unicamente nell’insegnare loro a parlare e a usare le armi da guerra, alle quali vengono abituati fin dal primo anno di vita. Uscendo da uova in cui sono rimasti per cinque anni – il periodo di incubazione – essi entrano nel mondo perfettamente formati, tranne che per le dimensioni. Completamente sconosciuti alle proprie madri, che a loro volta avrebbero difficoltà a indicare con certezza i padri, sono figli dell’intera comunità e la responsabilità della loro educazione ricade sulle femmine che hanno la fortuna di catturarli all’uscita dall’incubatrice.
Le madri adottive possono anche non aver deposto alcun uovo nell’incubatrice, come era stato per Sola, che non aveva ancora iniziato a deporre eppure, meno di un anno dopo, era diventata madre della prole di un’altra femmina. Ma questo conta poco tra i marziani verdi, poiché l’amore paterno e quello filiale sono loro sconosciuti, anche se per noi sono sentimenti comuni. Credo che questo orribile sistema, in vigore da secoli, sia la causa diretta della scomparsa di ogni sentimento più elevato e di ogni istinto umanitario tra queste sventurate creature.
Fin dalla nascita non conoscono né l’amore di un padre né quello di una madre, ignorano il significato stesso della parola “casa”; vengono educati a sapere che è loro concesso vivere solo finché dimostrano, con il fisico e con la ferocia, di meritare la vita. Se risultano deformi o difettosi in qualsiasi modo, vengono immediatamente giustiziati, e nessuno versa una lacrima per le molte crudeltà cui sono sottoposti fin dall’infanzia.
Non intendo dire che i marziani adulti siano inutilmente o intenzionalmente crudeli verso i giovani, ma la loro è una dura e spietata lotta per l’esistenza su un pianeta morente, le cui risorse naturali si sono ridotte al punto che il sostentamento di ogni nuova vita rappresenta un ulteriore peso per la comunità in cui essa viene gettata.
Con un’accurata selezione allevano solo gli esemplari più robusti di ogni specie e, con una lungimiranza quasi soprannaturale, regolano il tasso di natalità in modo da compensare soltanto le perdite dovute alla morte.
Ogni femmina marziana adulta depone circa tredici uova all’anno, e quelle che superano le prove di dimensioni, peso e consistenza vengono nascoste nelle cavità di qualche cripta sotterranea, dove la temperatura è troppo bassa per l’incubazione. Ogni anno, queste uova vengono accuratamente esaminate da un consiglio di venti capi e tutte, tranne un centinaio delle più perfette, vengono distrutte da ogni raccolto. Alla fine di cinque anni, dalle migliaia di uova deposte, ne risultano selezionate circa cinquecento quasi perfette, che vengono poi collocate in incubatrici quasi ermetiche, per schiudersi ai raggi del sole dopo un ulteriore periodo di cinque anni. La schiusa cui avevamo assistito quel giorno era un evento abbastanza rappresentativo della specie: tutte le uova, tranne circa l’uno per cento, si erano schiuse nei due giorni. Del destino delle uova superstiti non si sapeva nulla. Non erano desiderate, poiché la loro prole avrebbe potuto ereditare e trasmettere la tendenza a un’incubazione troppo prolungata, compromettendo così un sistema in vigore da secoli che permetteva ai marziani adulti di calcolare quasi al minuto il momento esatto in cui tornare all’incubatrice.
Le incubatrici vengono costruite in luoghi remoti e inaccessibili, dove c’è poca o nessuna possibilità che vengano scoperte da altre tribù. Il risultato di una simile catastrofe significherebbe l’assenza di bambini nella comunità per altri cinque anni. In seguito, mi sarebbe capitato di assistere personalmente alle conseguenze della scoperta di un’incubatrice straniera.
La comunità dei marziani verdi con cui mi trovai a vivere era composta da circa trentamila anime. Essi vagavano su un’enorme estensione di terre aride e semi-aride, tra i quaranta e gli ottanta gradi di latitudine sud, delimitata a est e a ovest da due vaste zone fertili. Il loro quartier generale si trovava nell’angolo sud-occidentale di questo territorio, vicino all’incrocio di due dei cosiddetti canali marziani.
Poiché l’incubatrice era stata collocata molto a nord rispetto al loro territorio, in una zona che si presumeva disabitata e raramente frequentata, ci attendeva un viaggio lunghissimo, del quale, naturalmente, io non sapevo nulla.
Dopo il nostro ritorno nella città morta trascorsi diversi giorni in relativa inattività. Il giorno seguente, tutti i guerrieri erano partiti di buon mattino e non erano tornati fino a poco prima del calar della sera. Come appresi in seguito, si erano recati alle cripte sotterranee in cui erano custodite le uova, le avevano trasportate all’incubatrice, che poi avevano murato per altri cinque anni, e che, con ogni probabilità, non sarebbe stata visitata altre volte in quel periodo.
Le cripte che nascondevano le uova prima di metterle nell’incubatrice si trovavano a molte miglia a sud di quest’ultima, e venivano visitate ogni anno dal consiglio dei venti. Perché non avessero scelto di costruire le loro cripte e le loro incubatrici più vicino a casa è sempre rimasto per me un mistero e, come molte altre questioni marziane, secondo la logica e le consuetudini terrestri insoluto e insolubile.
I compiti di Sola raddoppiarono, poiché doveva occuparsi sia del giovane marziano sia di me, ma nessuno dei due richiedeva molta attenzione. Dato che eravamo entrambi a un livello di istruzione marziana pressoché identico, Sola si prese l’incarico di istruirci insieme.
Il suo “bambino” era un maschio alto circa un metro e venti, molto forte e fisicamente perfetto; inoltre, apprendeva rapidamente, e tra noi nacque una vivace rivalità che mi divertiva molto. La lingua marziana, come ho già detto, è estremamente semplice, e in una settimana potevo esprimere tutti i miei bisogni e capire quasi tutto ciò che mi veniva detto. Allo stesso modo, sotto la guida di Sola, sviluppai le mie facoltà telepatiche fino a poter percepire quasi tutto ciò che mi accadeva attorno.
Ciò che più sorprendeva Sola era che, mentre io potevo ricevere con facilità messaggi telepatici – spesso anche quando non erano destinati a me – nessuno, in nessuna circostanza, riusciva a leggere un pensiero dalla mia mente. In un primo momento questo mi disturbava, ma in seguito ne fui lieto, poiché mi dava un indubbio vantaggio sui marziani.
Traduzione a cura di Franco Giambalvo (© 2025)
L’immagine di copertina è una interpretazione dell’AI Designer di Microsoft.
(Chicago, 1º settembre 1875 – Encino, 19 marzo 1950) è stato uno scrittore statunitense, autore, fra l'altro, del ciclo di romanzi incentrati sulla figura di Tarzan, il personaggio della giungla allevato dalle scimmie che ha alimentato la fantasia dei lettori e degli appassionati di cinema di più di una generazione.