La Principessa di Marte è alla terza puntata su Nuove Vie. Si tratta del famoso Ciclo di Barsoom (John Carter di Marte). Opera di Edgar Rice Burroughs, forse più noto per l’altro suo ciclo, Tarzan delle scimmie.

Pubblicheremo poco per volta l’intero romanzo tradotto apposta per questa presentazione. Tutte le puntate sono facilmente rintracciabili cercando il TagJohn Carter,” ma ecco un elenco aggiornato dei capitoli pubblicati:

  1. Sulle Colline dell’Arizona
  2. Un cadavere in fuga
  3. Su Marte

 

Aprii gli occhi su un paesaggio strano e inquietante. Sapevo di trovarmi su Marte; non mi sfiorò mai un dubbio circa la mia sanità mentale, né sul fatto che forse stessi sognando. Infatti, non dovetti nemmeno pizzicarmi; la mia coscienza profonda mi diceva di essere su Marte, con la stessa sicurezza per cui voi sapete sempre di trovarvi sulla Terra. Non lo si mette mai in discussione. E io non lo misi in discussione.

Mi ritrovai disteso a faccia in giù su uno strato di vegetazione giallastra simile al muschio, che si estendeva attorno a me per interminabili miglia in ogni direzione. Mi parve di essere al centro di una profonda conca circolare, ai cui margini potevo distinguere l’irregolare profilo di colline basse.

Era mezzogiorno. Il sole splendeva in pieno su di me e il suo calore sul mio corpo nudo era decisamente intenso, ma non più di quanto lo sarebbe stato in condizioni simili nel deserto dell’Arizona. Qua e là affioravano rocce contenenti quarzo che scintillavano alla luce del giorno; e poco più a sinistra, forse a un centinaio di metri, si scorgeva un basso edificio circondato da un muro alto circa un metro e venti. Non c’era acqua, né altra vegetazione visibile se non quel muschio e, sentendo io il bisogno di dissetarmi, decisi di esplorare un po’ i dintorni.

Balzai in piedi ed ebbi la mia prima sorpresa marziana: lo slancio che sulla Terra mi avrebbe fatto semplicemente sollevare un poco, lì mi proiettò in aria fino a quasi tre metri. Comunque, atterrai dolcemente, senza urti né scosse.

Cominciai così una serie di evoluzioni che subito mi sembrarono estremamente ridicole. Dovetti imparare a camminare di bel nuovo, poiché lo sforzo muscolare che sulla Terra mi permetteva di spostarmi con facilità e sicurezza, su Marte produceva effetti strani e inattesi.

Invece di avanzare in maniera sobria e dignitosa, i miei tentativi di camminare si traducevano in una serie di balzi che mi sollevavano mezzo metro da terra a ogni passo, facendomi atterrare puntualmente bocconi o sulla schiena dopo due o tre passi. I miei muscoli, perfettamente allenati alla gravità terrestre, si ribellavano alla nuova realtà marziana con gravità ridotta e pressione atmosferica bassa.

Ero però determinato a esplorare quella bassa costruzione, l’unico indizio visibile di una possibile presenza di vita, così adottai un piano piuttosto singolare: tornare ai principi basilari della locomozione, cioè mi misi a strisciare. Me la cavai piuttosto bene e, in poco tempo, raggiunsi il muro che circondava l’edificio.

Non vidi né porte né finestre dalla mia parte, ma poiché il muro era alto solo un metro e venti, mi sollevai cautamente in piedi e sbirciai al di là, scoprendo lo spettacolo più strano che avessi mai visto.

Il tetto dell’edificio era fatto di vetro spesso dieci o più centimetri e al di sotto vidi diverse centinaia di grandi uova, perfettamente rotonde e bianchissime. Le uova, di circa ottanta centimetri di diametro erano quasi tutte identiche.

Cinque o sei si erano già schiuse e da quelle erano uscite delle grottesche caricature che ora stavano sedute a occhi socchiusi, così strane da far vacillare la mia mente. Erano più testa che corpo, che per altro era estremamente magro, collo lungo e possedevano sei arti – o, come appresi più tardi, due gambe e due braccia e un terzo paio di arti che potevano fungere all’occorrenza sia da braccia che da gambe.

Gli occhi erano posizionati ai lati estremi della testa, leggermente al di sopra del centro e sporgevano in modo da potersi muovere indipendentemente l’uno dall’altro, consentendo così a queste creature di guardare in qualsiasi direzione, o anche in due direzioni diverse allo stesso momento, senza dover girare la testa.

Le orecchie, erano vicine agli occhi o leggermente sopra e si presentavano come piccole antenne a forma di coppa che, su questi esemplari giovani, sporgevano per appena un paio di centimetri. I nasi erano fessure verticali in mezzo al viso, tra bocca e orecchie.

Gli esseri non avevano peli sul corpo che era di colore giallo-verde, molto chiaro. Negli adulti, come avrei presto scoperto, questa tonalità si trasformava in verde oliva, più scuro nei maschi, più chiaro nelle femmine. Inoltre, nelle creature adulte la testa non era sproporzionata rispetto al corpo come si vedeva nei piccoli.

L’iride degli occhi era rosso sangue, come per gli albini, mentre la pupilla era scura. Il bulbo oculare era di un bianco intenso, così come i denti. Questi ultimi contribuivano a conferire un aspetto ancora più feroce a un volto già spaventoso, poiché le zanne inferiori si curvavano verso l’alto fino a quella che sarebbe stata l’altezza degli occhi in un volto umano, Il bianco dei denti non era quello dell’avorio, ma quello della porcellana più pura e lucente. Sullo sfondo scuro della pelle verde oliva, le zanne spiccavano con forza, rendendole visivamente ancora più temibili.

La maggior parte di questi dettagli li osservai in seguito, perché ebbi ben poco tempo per riflettere sulle meraviglie della mia scoperta. Avevo notato che le uova si stavano schiudendo e, mentre osservavo quelle orribili creaturine emergere dai gusci, non mi accorsi dell’avvicinarsi di una ventina di marziani adulti alle mie spalle.

Provenendo com’erano da quel tappeto di muschio soffice e silenzioso – che copre quasi tutta la superficie di Marte, tranne le zone polari ghiacciate e le aree coltivate – avrebbero potuto facilmente sorprendermi, ma le loro intenzioni erano ben più sinistre. Fu solo il tintinnio dell’equipaggiamento del guerriero in testa al gruppo che mi salvò.

La mia vita dipese da un dettaglio così insignificante che ancora oggi mi sorprendo di essere sfuggito alla morte. Se il fucile del capo non avesse urtato il calcio della sua enorme lancia ferrata, non avrei mai saputo della loro presenza. Eppure, quel piccolo rumore mi fece voltare e mi ritrovai a pochi metri dalla punta di una lancia gigantesca, lunga dodici metri, scintillante, puntata direttamente al mio petto, brandita da una versione adulta dei piccoli mostri che stavo osservando.

Ma i piccoli ora sembravano insignificanti e innocui al confronto di questa terrificante incarnazione di odio, vendetta e morte. L’essere – perché tale potevo chiamarlo – era alto più di quattro metri e, sulla Terra, sarebbe pesato almeno centottanta chili. Cavalcava una creatura come noi cavalchiamo i cavalli, stringendone il corpo con le gambe inferiori, mentre con le due braccia destre impugnava la lancia, tenendola bassa accanto alla cavalcatura; le due braccia sinistre erano distese lateralmente per mantenere l’equilibrio, poiché l’animale non aveva redini né briglie di nessun tipo.

E la cavalcatura! Come descriverla con parole terrestri? Era alta più di tre metri al garrese, con quattro zampe per lato, una coda piatta e larga che si allargava all’estremità, tenuta tesa all’indietro durante la corsa; la bocca spalancata si apriva da un lato all’altro della testa, fino al lungo collo muscoloso.

Come il suo cavaliere, era completamente priva di peli, ma di colore grigio ardesia molto scuro, liscio e lucido. Il ventre era bianco e le zampe sfumavano dal grigio delle spalle e delle anche a un giallo brillante in prossimità dei piedi. Questi ultimi erano molto morbidi e privi di unghie – caratteristica che contribuiva all’approccio silenzioso – e, come la moltitudine di arti, erano tipici della fauna marziana. Solo l’uomo, il tipo più evoluto e un altro animale (l’unico mammifero esistente su Marte) hanno unghie ben sviluppate. Non esistono animali con zoccoli su Marte.

Dietro questo primo demone a cavallo ne seguirono altri diciannove, simili in tutto e per tutto, sebbene – come scoprii in seguito – ciascuno avesse tratti individuali distintivi, proprio come un essere umano in cui nessuno è uguale a un altro, sebbene tutti siamo forgiati su uno stampo simile. Questa scena – o meglio, questo incubo materializzato – mi colpì con una violenza improvvisa e assoluta mentre mi voltavo per affrontarla.

Disarmato e nudo com’ero, la prima legge di natura si manifestò nell’unica possibile soluzione al mio problema immediato: allontanarmi dalla traiettoria della lancia in arrivo. Di conseguenza, feci un balzo molto terrestre e, al tempo stesso, sovrumano per raggiungere la sommità dell’incubatrice marziana, poiché avevo ormai deciso che di questo si trattava.

Il mio sforzo fu coronato da un successo che mi spaventò non meno di quanto sembrasse sorprendere i guerrieri marziani, poiché mi sollevò di almeno dieci metri in aria e mi fece atterrare a più di trenta metri dai miei inseguitori, sul lato opposto della costruzione.

Ricaddi dolcemente sul muschio soffice, senza danni, e, voltandomi, vidi i miei nemici allineati lungo il muro più lontano. Alcuni mi osservavano con un’espressione che in seguito avrei imparato a riconoscere come segno di estrema meraviglia, mentre gli altri si accertavano evidentemente che non avessi molestato i loro piccoli.

Parlavano tra loro a bassa voce, gesticolando e facendo segno verso di me. Il fatto che avessero scoperto che non avevo fatto del male ai piccoli marziani, e che ero disarmato, dovette indurli a guardarmi con minore ferocia; ma, come avrei appreso più tardi, ciò che giocò maggiormente a mio favore fu la mia dimostrazione di agilità nel salto.

Sebbene i Marziani siano imponenti, le loro ossa sono molto grandi e i muscoli sono proporzionati alla gravità che devono contrastare. Il risultato è che sono infinitamente meno agili e meno forti, rispetto a un uomo della Terra e dubito che uno di loro, trasportato improvvisamente sul nostro pianeta, sarebbe in grado di sollevare il proprio peso; in effetti, sono convinto che gli sarebbe impossibile.

La mia impresa, dunque, su Marte era apparsa straordinaria quanto lo sarebbe stata sulla Terra, sicché ora non avevano più intenzione di distruggermi e all’improvviso mi videro come una scoperta meravigliosa da catturare ed esibire ai loro simili.

La tregua che la mia inattesa agilità mi aveva guadagnato mi permise di elaborare un piano per l’immediato futuro e di osservare più da vicino questi guerrieri che, nella mia mente, non riuscivo a separare da quei guerrieri che mi avevano inseguito solo il giorno prima.

Notai che ciascuno di loro era armato con armi diverse oltre alla gigantesca lancia che ho già descritto. L’arma che mi fece desistere da qualsiasi tentativo di fuga fu una specie di fucile e avevo il presentimento che la loro abilità nel maneggiarlo fosse tanta.

Questi fucili sono fatti di metallo bianco con un calcio di legno, che in seguito appresi essere derivato da una pianta molto leggera e durissima, molto apprezzata su Marte e del tutto sconosciuta sulla Terra. Il metallo della canna è una lega composta principalmente di alluminio e acciaio, che i Marziani sanno temperare fino a una durezza di gran lunga superiore al nostro acciaio. Il peso di questi fucili è relativamente contenuto e, grazie al piccolo calibro, ai proiettili esplosivi al radio e alla notevole lunghezza della canna, risultano estremamente letali, anche a distanze che sulla Terra sarebbero impensabili.

Il raggio d’azione teorico di tali fucili è di cinquecento chilometri, ma il massimo risultato in servizio effettivo, equipaggiati di mirini e rilevatori a onde magnetiche, non supera i trecento chilometri.

Questa portata era già più che sufficiente a incutermi un grande rispetto per le armi da fuoco marziane e una qualche forza telepatica dovette mettermi in guardia contro ogni tentativo di fuga in pieno giorno, sotto la minaccia di venti di queste armi micidiali.

Dopo essersi consultati tra loro, i Marziani si voltarono allontanandosi nella direzione da cui erano venuti e presso l’edificio rimase solo uno di loro. Percorsi circa duecento metri, gli uomini si fermarono, voltarono le cavalcature nella nostra direzione osservando il guerriero che era rimasto lì.

Era il marziano la cui lancia mi aveva quasi trafitto se non fossi saltato ed evidentemente era il capo, poiché avevo visto che tutti si muovevano secondo le sue direttive. Quando il gruppo fu alla giusta distanza, il capo smontò da cavallo, gettò a terra la lancia e le altre armi, girò attorno all’incubatrice e venne verso di me, disarmato e nudo come ero io, fatti salvi gli ornamenti che aveva legati in testa, sugli arti e sul petto.

Quando fu a circa quindici metri da me, si sganciò un enorme bracciale metallico e, tenendolo nella mano aperta, me lo porse mentre faceva un bel discorso con voce chiara e sonora, ma in una lingua che, ovviamente, non capivo. Poi si fermò, come in attesa di una mia risposta, drizzando le orecchie simili ad antenne e inclinando verso di me i suoi strani occhi.

Poiché il silenzio cominciava a diventare imbarazzante, decisi di tentare una mia conversazione, immaginando che l’altro avesse fatto offerte di pace. Il gesto di deporre le armi e far allontanare i suoi uomini prima di avvicinarsi a me, ovunque sulla Terra sarebbe stato segno di pace, quindi perché non su Marte?

Mi portai la mano al cuore, feci un profondo inchino al marziano e dissi che, pur non comprendendo la sua lingua, i suoi gesti parlavano di pace e amicizia, che in quel momento era quanto di più caro avessi nel cuore. Naturalmente, il mio discorso per lui forse non era altro che un ruscello gorgogliante, ma capì il gesto che seguì alle mie parole.

Allungai una mano verso di lui, presi il bracciale dal palmo aperto e me lo allacciai al braccio sopra il gomito. Gli sorrisi e restai in attesa. La sua ampia bocca si aprì in un sorriso di risposta e, agganciando uno dei suoi arti intermedi al mio, ci voltammo tornando verso la sua cavalcatura. Contemporaneamente, fece segno ai suoi compagni di venire avanti.

Questi si lanciarono verso di noi al galoppo, ma furono fermati da un cenno del capo. Evidentemente temeva che, se mi fossi davvero spaventato, avrei potuto fare un gran salto magari fuori dall’intera nazione.

Scambiò alcune parole coi suoi uomini, mi fece segno di montare dietro uno di loro, quindi salì sul suo animale. Il compagno designato allungò due o tre mani sollevandomi sul dorso lucido della sua cavalcatura, dove mi tenni aggrappato come potei alle cinghie e alle fibbie che reggevano le armi e gli ornamenti del marziano.

L’intero gruppo si voltò e galoppò in direzione di una lontana catena di colline.

Traduzione a cura di Franco Giambalvo © 2025
L’immagine di copertina è stata ricavata tramite IA Microsoft

 

Edgar Rice Burroughs
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(Chicago, 1º settembre 1875 – Encino, 19 marzo 1950) è stato uno scrittore statunitense, autore, fra l'altro, del ciclo di romanzi incentrati sulla figura di Tarzan, il personaggio della giungla allevato dalle scimmie che ha alimentato la fantasia dei lettori e degli appassionati di cinema di più di una generazione.