La giovinezza di Tarzan tra le scimmie” capitoli VIII e IX, in cui il giovane Tarzan scopre il dolore per la morte e affronta per la prima volta un altro uomo.

La giovinezza di Tarzan tra le scimmie: Capitolo I

Questa strana storia me la raccontò un tale che non aveva alcun interesse…

La giungla di Tarzan: Capitolo II

Mentre Clayton saliva sopra coperta per la quotidiana passeggiata, sentì il cupo rimbombo di un colpo di rivoltella…

Tarzan: una piccola creatura umana: Capitolo III

Erano già da qualche tempo svegli quando l’alba colorava con le sue pallide luci…

Tarzan tra le scimmie; Capitolo IV

Kerciak, il vecchio bertuccione, era preso da un violento…

Tarzan combatte: capitoli V e VI

Quando ella parlava del suo piccino alle femmine anziane, queste si meravigliavano…

Tarzan legge e combatte

Non era ancora trascorso un mese che aveva già riacquistato il suo pieno vigore…

Capitolo VIII.

Il mattino seguente la tribù pigramente attraversava la foresta dirigendosi verso il mare.

Il corpo di Tublat era stato abbandonato sul terreno della lotta perché i sudditi di Kerciak non mangiavano la carne dei loro compagni. Ogni tanto si fermavano in cerca di cibo, specialmente quando incontravano foglie di palma cavolo, prugne grigie, pisane, e scitamina, qualche volta anche piccoli mammiferi, uccelletti, uova, rettili e insetti.

Le noci le schiacciavano sotto la forza delle potenti mascelle, oppure fra due pietre quando erano troppo dure.

Sabor, la grossa leonessa, una volta si arrischiò ad attraversare il loro sentiero e, sebbene gli scimmioni riuniti in gruppo non temessero le sue zanne, tuttavia si rifugiarono sugli alberi finché la belva disparve.

La belva maestosa e agile passò proprio sotto al ramo su cui era seduto Tarzan. Il ragazzo-scimmia colse un ananasso e lo scagliò sulla testa del nemico della sua tribù. La fiera si fermò di scatto e alzò la resta guatando Tarzan. La coda si agitava rabbiosa nell’aria, le labbra si arricciavano denudando le grosse zanne gialle, il muso si corrugava attorno agli occhi feroci che mandavano lampi di odio e di rabbia.

Sabor fissò lungamente Tarzan delle scimmie, poi mandò un ruggito potente e il ragazzo-scimmia dal suo sicuro rifugio rispose col poderoso urlo della sua tribù.

La grossa belva riprese la sua strada e disparve nel folto della foresta. Ma nella mente di Tarzan maturava un grande progetto. Egli che era riuscito ad uccidere Tublat era certamente un grande cacciatore; quindi, poteva affrontare senza timore anche Sabor.

Tarzan sentiva istintivamente la necessità di ricoprire il suo corpicino, egli da buon inglese aveva appreso dai libri trovati nella capanna che tutti gli uomini si coprivano, mentre tutti gli altri animali andavano ignudi.

Desiderava dunque la pelle di Sabor per coprirsi e, mentre la tribù riprendeva la sua strada attraverso la foresta, Tarzan mulinava nella sua mente di uccidere il grande nemico. In quei giorni avvenne uno strano fenomeno. In piena jungla e in pieno giorno il cielo si oscurò come a mezzanotte. Da lontano si udiva un muggito profondo, il vento passava fischiando e ululando tra le cime degli alberi e una luce viva, abbagliante attraversò il cielo scuro. Una pioggia torrenziale tiepida e fitta si rovesciò sulla jungla.

Le grandi scimmie si rifugiarono intorno ai tronchi degli alberi, terrorizzate dai bagliori del fulmine. Per parecchie ore la bufera infuriò senza soste svellendo alberi giganteschi, trasportando come festuche i rami spezzati.

Improvvisamente, come si era iniziata, la furia degli elementi cessò, il sole tornò a risplendere facendo scintillare i fili d’erba cosparsi di gocce di rugiada che brillavano come gemme. Soffiava dalle colline vicine un leggero venticello che faceva ondeggiare le cime degli alberi e la natura pareva si aprisse ad un sorriso incitando la vita a cancellare le tracce del passato flagello.

Ma nella mente di Tarzan si era fatta strada l’idea, cioè si spiegava il motivo per cui gli uomini si ricoprivano di abiti.

Per parecchi mesi la tribù andò gironzolando nelle vicinanze della capanna del padre di Tarzan e questi occupava la maggior parte delle sue ore nello studio, mentre le ore libere le dedicava a percorrere la foresta con la fune alla mano, nell’attesa che Sabor si prestasse al suo giuoco. Intanto il ragazzo-scimmia si esercitava sulle altre bestie e molti animaletti furono vittime del colpo sicuro, infallibile del suo laccio. Tarzan aveva imparato a sue spese quali erano le belve che poteva affrontare e quali i pregi della sua strana arma. Infatti, tentando di afferrare Horta il cinghiale, questi con un poderoso strappo ruppe la fune e avrebbe anche massacrato Tarzan se questi, con un balzo agile, non fosse riuscito ad afferrarsi ai rami di un albero vicino.

Impiegò parecchi giorni a costruire una corda nuova e quando la ebbe finita si recò a nascondersi sui bassi rami che circondavano la fonte ove sì recavano a bere le belve che abitavano la jungla.

Finalmente, dopo una paziente attesa, Sabor apparve sul sentiero. Accovacciato sul ramo Tarzan non faceva un movimento per timore che il minimo fruscìo lo tradisse. Mentre la belva avanzava pigramente posando le grandi zampe vellutate sullo stretto sentiero, Tarzan ravvolse attorno alla sua mano destra la fune pronta per il lancio.

Sabor passò ignara del pericolo, ma non fece in tempo a percorrere una diecina di metri, che la corda solcò l’aria, rimase un breve istante allargata sopra la sua testa per cadere attorno al collo morbido di pelliccia della leonessa. Tarzan con un colpo preciso e netto tirò la fune e si tenne stretto al suo ramo con le mani. Sabor con un balzo poderoso tentò di fuggire attraverso la jungla, ma Tarzan aveva assicurato l’altra estremità della corda saldamente all’albero e nel mezzo del suo balzo la leonessa frenata dalla fune di Tarzan cadde pesantemente al suolo.

Egli allora tentò di tirare la belva fin sotto l’albero e di appenderla ad un ramo più alto, ma non era impresa facile ed era certamente superiore alle sue forze.

Non poteva da solo sollevare l’enorme peso, poi avrebbe dovuto vincere la resistenza che la belva opponeva. Intanto Sabor dava degli strattoni coi muscoli poderosi, lacerava l’aria con le zanne e si era talmente impuntata che nemmeno Tantor, l’elefante, avrebbe potuto rimuoverla.

Ad un certo punto la leonessa scorse il suo nemico. Fece per lanciarsi su di esso, spiccò un gran salto e certamente avrebbe raggiunto Tarzan se questi con un balzo non fosse stato pronto ad afferrare un altro ramo più alto. Sabor rimase afferrata ai rami di un albero e sogguardava mugolando Tarzan che la scherniva con smorfie grottesche.

Ma la belva non poteva certamente resistere in quella incomoda posizione ed esausta per lo sforzo e per la rabbia si lasciò cadere pesantemente al suolo. Rialzatasi prontamente riuscì a capire qual’era il motivo che la teneva legata all’albero e visto che era una cosa sottile con una zannata riuscì a romperla prima che Tarzan la riafferrasse nuovamente.

Tarzan si indispettì. Tutto il suo piano che per lungo tempo aveva studiato ed elaborato falliva così miseramente. Arrabbiatissimo incominciò a vomitare ingiurie e a far smorfie all’animale che inferocito ancora più di Tarzan ruggiva ai piedi dell’albero.

Sabor gironzolò per molte ore ai piedi dell’albero dove Tarzan si era rifugiato; molte volte tentò con un balzo di raggiungere il ragazzo-scimmia ma inutilmente perché le sue forze non gli permettevano di raggiungere gli alti rami sui quali stava appollaiato Tarzan.

Tarzan stanco di attendere e di urlare le sue insolenze alla belva e dopo essersi abbastanza divertito a quell’insolito giuoco, lanciò un grosso frutto fradicio che aveva raccolto in una biforcazione dell’albero, e colse la belva proprio sul muso mentre digrignava i denti, imbrattandola.

Di ramo in ramo si lanciò ancora tra gli alberi sulla traccia dei suoi compagni che raggiunse dopo circa una mezz’ora.

Raccontò loro i più minuti particolari della sua strana avventura e nel racconto gonfiava il petto pavoneggiandosi.

I nemici più acerrimi di Tarzan furono anche loro impressionati dal racconto, mentre Kala orgogliosa e allegra si mise a danzare grottescamente.

Capitolo IX.

Trascorsero diversi anni senza alcuna novità e la vita di Tarzan era monotona e quasi triste; ma egli dedicava la maggior parte delle ore, quando la tribù era nelle vicinanze della capanna, allo studio, e dai libri apprendeva sempre nuove nozioni su quel mondo strano che doveva esistere lontano oltre le foreste verdi.

Tuttavia, rompeva le ore monotone dedicandosi alla caccia e alla pesca e la stessa vita pericolosa che lo obbligava ad essere molto cauto quando attraversava la foresta, gli dava un gusto eccitante del pericolo.

Molle volte i carnivori gli diedero la caccia, ma più ancora era lui che andava a stuzzicarli, ma gli artigli delle belve non erano mai riusciti a penetrare nella sua pelle morbida. Qualche volta però solo la rara agilità di Tarzan aveva evitato il pericolo imminente. Sobor la leonessa era veloce, così pure Numa e Scita; ma Tarzan delle scimmie era più veloce ancora.

Tarzan si era fatto amico di Tantor l’elefante e tutti nella jungla sapevano che sovente nelle notti di luna il ragazzo-scimmia e Tantor l’elefante andavano insieme e quando la via era ingombra Tarzan si faceva posare dalla proboscide dell’elefante sull’enorme dorso e così si faceva portare.

Le belve che abitavano la jungla lo odiavano tutte, mentre i suoi compagni avevano per lui una viva simpatia. In quei lunghi anni passò molte giornate accanto alle insepolte ossa dei suoi genitori e del figlio di Kala. Frutto dei suoi lunghi studi era una penetrazione sicura del significato delle diverse parole, perché oramai aveva appreso a leggere con relativa facilità e sapeva anche scrivere, imitando il carattere stampatello dei libri con una certa sicurezza. Tuttavia, il manoscritto che aveva trovato nella capanna era per lui ancora indecifrabile, tranne qualche parola che aveva trovato sui quaderni lasciati da suo padre.

Così a diciotto anni scriveva e leggeva inglese senza parlarlo e senza aver avuto alcun maestro. Nessun essere umano viveva in quella zona circondata per tre lati da catene montuose e per l’altro dal mare.

Mentre un giorno Tarzan leggeva un libro trovato nella capanna, scorse verso oriente una lunga fila di guerrieri negri armati di scuri sottili di legno e di lunghi archi con frecce avvelenate, che recavano sulle spalle scudi di forma ovale. Erano bizzarramente camuffati con grossi anelli al naso, ciuffi di penne policrome che si drizzavano attorno alle teste ricciute, sulla fronte tre linee colorate parallele che li rendevano grotteschi, mentre i seni erano dipinti con tre cerchi di vario colore.

Le grosse labbra sporgenti rendevano l’aspetto di quegli uomini selvaggio e bestiale e quando ridevano mostravano i denti gialli limati a punta. L’avanguardia era seguita dalle donne e dai bambini, in ultimo un centinaio di guerrieri chiudeva il gruppo. Era una formazione per difendersi da eventuali assalti. Si trattava di una tribù di negri che si avanzava nell’interno risospinta dai soldati bianchi incettatori di caucciù e di avorio. E il motivo della loro fuga era una ribellione in cui avevano osato uccidere e trucidare un ufficiale bianco con un piccolo gruppo di soldati indigeni.

Coi miseri resti delle vittime avevano banchettato per parecchi giorni, ma ben presto le truppe vendicatrici arrivarono a sloggiare i negri. La piccola tribù si addentrò per tre giorni nella foresta sconosciuta e al mattino del quarto arrivò sulle sponde di un piccolo fiume dove la vegetazione sembrava diradarsi. Era quanto i negri desideravano e in pochi giorni, liberato un vasto appezzamento di terreno dagli alberi e dai cespugli, si misero all’opera per costruire un nuovo villaggio, lontano dai bianchi che si erano dimostrati crudeli e feroci, pur di avere del caucciù e dell’avorio. Con una palizzata circondarono le capanne e seminarono nei dintorni mais e tuberi.

Passarono alcune lune prima che i negri si fossero sistemati e osassero arrischiarsi ad esplorare i dintorni, perché alcuni erano divenuti facile preda di Sabor e delle altre belve che infestavano la foresta.

Un giorno Kulonga, figlio del vecchio re Mbonga, si allontanò nel groviglio della foresta verso occidente.

Procedeva lentamente, cauto, con la scure sempre sollevata e il lungo scudo ovale che gli proteggeva il corpo agile e robusto. Portava sulle spalle un arco e ad esso era attaccata una faretra con molti dardi lunghi e sottili con la punta bagnata di un potente veleno che avrebbe reso mortale anche la più piccola scalfittura.

Le tenebre calavano sulla foresta quando Kulonga oramai lontano dal villaggio procedeva ancora verso ponente. Nella notte (era impossibile camminare) si arrampicò su un albero e improvvisò una piattaforma in una biforcazione dei rami per dormire.

Poco lontano a circa tre miglia era il dominio della tribù di Kerciak. Alle prime luci del giorno le grandi scimmie si erano già sparse nei dintorni in cerca di una abbondante colazione. Tarzan, com’era sua abitudine, s’avviava verso la capanna e mentre camminava si cibava di frutti freschi e maturi, cosicché, quando giunse alla capanna era già sazio. Le scimmie invece a piccoli gruppi si erano sparse per la foresta, ma non osavano allontanarsi troppo perché in caso di allarme il loro richiamo avrebbe avvertito le compagne del pericolo.

Kala pigramente camminava per un sentiero di elefanti smuovendo con le grosse mani i tronchi fradici per cercare lombrichi e scarafaggi. Improvvisamente le sembrò di udire uno strano fruscìo e rizzò subito le orecchie per ascoltare da dove e da chi proveniva.

Sul sentiero che si apriva diritto innanzi a lei vide avanzare cautamente guardando rapidamente a destra e a sinistra innanzi a sé un essere che la scimmia non aveva mai visto.

Era Kulonga.

Kala rimase stupita e guardò fissamente per un istante quella creatura strana, poi si voltò e fuggì velocemente lungo il sentiero.

Ella cercava di non farsi vedere e Kulonga, scorta una probabile preda, la inseguiva correndo.

C’era da saziarsi per un po’ di giorni con le carni di Kala e affrettava il passo alzando la scure pronto a colpire.

Ad una svolta del sentiero scorse Kala fuggire trotterellando. Era momento opportuno.

Protese il braccio che reggeva la scure, lo portò all’altezza della testa, i muscoli si gonfiarono sotto la pelle nera e con uno scatto lanciò l’arma verso la grande scimmia.

Ma non aveva esattamente misurato la distanza e la scure intaccò appena scalfendolo un fianco dell’antropoide. Kala lanciò un grido di rabbia e di dolore e si volse per assalire il suo avversario.

Richiamati dall’urlo accorsero schiantando rami e spezzando arbusti tutti i componenti la tribù di Kerciak.

Kala stava per precipitarsi su Kulonga, quando il negro con una rapidità impressionante tolse l’arco dalla spalla, vi mise una freccia e scoccò il dardo che colpì la scimmia spezzandole il cuore. La povera Kala mandò un urlo, e fu l’ultimo. Caduta a terra si irrigidì nella morte.

Le grandi scimmie che avevano visto la fulminea scena si scagliarono sul negro che fuggiva velocemente come un’antilope spaventata. Conosceva la terribile ferocia di quei grossi uomini rivestiti di pelo e cercava di allontanarsi il più possibile per non finire sotto alle loro potenti zanne.

Per lungo tratto lo seguirono gli scimmioni balzando di ramo in ramo, ma poi vista che quella corsa era inutile, desistettero.

Le scimmie dopo essersi calmate un poco si chiedevano incuriosite chi poteva essere quella strana creatura mai vista prima d’ora nella foresta e che, per la struttura e il corpo, somigliava stranamente a Tarzan.

Il ragazzo-scimmia che si trovava nei pressi della capanna, quando udì le urla delle scimmie e comprese il pericolo che correvano le sue compagne, accorse rapidamente.

Quando raggiunse la tribù la trovò raccolta mestamente e silenziosa attorno al cadavere della sua madre adottiva. Tarzan sorpreso e reso feroce dal dolore e dalla rabbia, battendosi il petto col pugno chiuso, lanciò parecchie volte l’urlo di sfida contro l’invisibile nemico, poi si abbatté sul corpo di Kala piangendo.

Con la morte di Kala era rimasto solo al mondo. L’unico essere a cui si era affezionato e da cui era amato, era finito così tragicamente ed ora provava una sofferenza atroce. Per Tarzan quella scimmia era la madre ed era stata buona ed anche bella. L’aveva amata con tutta la forza dell’affetto che può avere un fanciullo inglese per sua madre.

Calmato un po’ il dolore, Tarzan si asciugò le lagrime col dorso della mano, poi si rivolse ai compagni che erano stati presenti all’uccisione di Kala per sapere chi era stato ad ucciderla. Quando apprese che era stata una orribile scimmia nera senza peli, che portava sulla testa delle penne, balzò su un ramo e si lanciò per la foresta per inseguire il negro che era fuggito con la velocità di Bara, l’antilope, verso il sole nascente.

Conoscendo molto bene il sentiero degli elefanti su cui era avanzato l’uccisore, balzando di ramo in ramo, evitava le lunghe curve e queste scorciatoie gli permettevano di guadagnare terreno sul fuggitivo.

Tarzan portava con sé appeso a un fianco il coltello trovato nella capanna e sulle spalle la fune intrecciata coi fili d’erba. Dopo circa un’ora ritornò sul sentiero che osservò attentamente. Nel fango di un ruscello scorse delle impronte di un piede che quasi si adattavano al suo.

Il cuore gli diede un balzo. Era forse quella la traccia di un uomo della sua razza?

Vi erano due orme che segnavano direzioni opposte e Tarzan comprese che la creatura a cui dava la caccia aveva già attraversato il ruscello, ma da alcuni particolari che rilevò con rapida intuizione comprese che il passaggio era recente.

Riprese silenzioso e cauto la via degli alberi, ma questa volta camminava in margine al sentiero.

Non aveva ancora percorso un miglio quando il ragazzo-scimmia scorse il negro fermo in una piccola radura pronto a scoccare un dardo dal suo arco. Di fronte al guerriero, sulla parte opposta della radura, Horta, il cinghiale, era pronto a balzare su di lui.

Tarzan sorpreso e meravigliato guardava ed osservava quello strano animale che aveva una così evidente rassomiglianza con lui. Ma com’era diverso il colore della pelle! Nei libri trovati nella capanna, in una illustrazione, aveva visto raffigurato un negro che però non rassomigliava gran che a Kulonga.

Mentre osservava attentamente ricordò che nel sillabario illustrato vi era una figura umana che tendeva l’arco e si ricordò che la vignetta era commentata con un verso:

A è l’arciere.

Tarzan, non riuscendo a frenare la sua commozione, per poco non tradì la sua presenza.

Intanto il braccio muscoloso del negro aveva scoccato la freccia e veloce come il pensiero questa si piantò nel collo setoloso del cinghiale proprio nell’istante in cui la grossa bestia stava per lanciarsi sull’avversario.

Ma Horta continuò la carica e stava per investire Kulonga quando il negro, con un preciso balzo, sorpassò la belva inferocita e voltosi di netto, dopo aver piantato il secondo dardo nella schiena del cinghiale, si affrettò ad arrampicarsi sull’albero vicino.

Horta volle inseguire il nemico, ma, dopo aver caracollato per una diecina di passi, si fermò e cadde su un fianco nelle contrazioni della morte. Quando l’animale giacque inerte Kulonga discese dall’albero.

Dopo aver ammucchiato della legna e averla accesa, il negro tagliò rapidamente alcuni pezzi della sua vittima e dopo averli arrostiti ne mangiò a sazietà.

Tarzan osservava con vivo interessamento tutti gli atti del negro. Voleva eseguire la sua vendetta, ma lo tratteneva il vivo desiderio di apprendere, incuriosito da tutte quelle novità.

Decise di seguire quella strana creatura per sapere da dove proveniva. Avrebbe rimandato la sua vendetta a più tardi, quando avrebbe rimesso in ispalla l’arco e le frecce avvelenate.

Kulonga terminato il suo abbondante pasto riprese la strada per tornare al villaggio e Tarzan sceso a terra, tagliò alcune fette di cinghiale che mangiò crude e seguì le tracce del suo nemico. Una cosa che aveva destato la sua grande meraviglia era il fuoco. Fino allora egli non aveva visto che quello di Ara, il fulmine, quando durante le tempeste colpiva i grossi alberi. Tarzan non riusciva assolutamente a capire come mai il negro avesse rosolata quella carne e credeva fosse il negro amico di Ara e che con Ara avesse diviso il suo cibo.

Ad ogni modo Tarzan non avrebbe sciupato il suo cibo in quel modo; seppellì alcune fette che si riprometteva di mangiare al ritorno.

Lontano, a Londra, un altro Lord Greystoke rifiutava le cotolette che il cuoco del circolo aveva preparato perché non erano ben cotte, e terminata la colazione immergeva le dita in una bacinella di acqua tiepida e odorosa e le asciugava in un tovagliolo damascato, mentre Tarzan figlio di Lord Greystoke, si puliva le mani sporche, imbrattate di sangue, sui fianchi nudi.

Tarzan seguì Kulonga per tutto il giorno tenendosi sempre celato fra i rami degli alberi. Così lo vide, senza essere scorto, puntare le sue frecce avvelenate, una volta contro Dango la iena, e un’altra contro Manu la bertuccia. La morte dei due animali era stata quasi istantanea perché il veleno di Kulonga era potente e micidiale.

Questo modo di uccidere impensieriva Tarzan, che ad ogni buon conto si teneva a una discreta lontananza dal negro, sempre però inseguendolo di ramo in ramo. Lo impensieriva il fatto che quella semplice puntura poteva uccidere un animale, mentre aveva rilevato molte volte lottando con i suoi nemici, che questi, benché lacerati e graffiati orrendamente non soccombevano.

Certamente qualche influsso misterioso dovevano avere quei lunghi bastoncini di legno e Tarzan si propose di studiare attentamente per sciogliere l’enigma.

Sopraggiunta la notte Kulonga improvvisò un giaciglio nella biforcazione di un albero. Più in alto Tarzan si appollaiò tra due rami dello stesso albero.

Alle prime luci dell’alba, quando Kulonga si risvegliò, dovette constatare con rabbia e disappunto che le sue frecce erano scomparse. Ma la paura era più forte dell’ira. E per quanto cercasse non trovò alcuna traccia né delle armi né del ladro.

La scure l’aveva lanciata a Kala e non l’aveva potuta ricuperare, le frecce e l’arco gli erano state sottratte, per difesa non gli rimaneva che il coltello; decise quindi di raggiungere al più presto il villaggio di Mbonga.

Sapeva di non essere lontano e si avviò a buon passo per il sentiero.

Tarzan sbucato dal fogliame lo seguiva a brevi passi di distanza. L’arco di Kualonga, Tarzan lo aveva strettamente legato ad un albero, ai piedi del quale aveva messo un ramo spezzato ed aveva tolto un pezzo di corteccia, com’era sua abitudine per segnare la via e i suoi nascondigli.

Mentre Kulonga affrettava il passo Tarzan gli si avvicinava sempre più ed oramai era a pochi passi dal negro. Nella mano destra reggeva la fune, ma indugiava a lanciarla perché prima voleva conoscere le intenzioni del negro.

E ben presto lo seppe, perché vide apparire in una vasta radura molte capanne di forma strana: era il villaggio di Mbonga.

Tarzan in quell’istante si trovava su di un ramo proprio sopra a Kulonga.

Pensò che era il momento opportuno per agire perché la foresta terminava e si apriva il terreno seminato, sgombro di alberi.

E così mentre Kulonga stava per uscire dal folto degli alberi, un nodo scorsoio sottile volò da uno dei bassi rami di un grosso albero sul margine dei campi, sostò un momento nell’aria, poi cadde attorno al collo del negro.

Con un colpo netto e preciso Tarzan tirò la fune e strozzò nella gola della vittima il grido che stava per uscire.

L’uomo-scimmia tirò lentamente a sé la fune finché il negro rimase sospeso nell’aria. Tarzan salì più in alto, sull’albero continuando a tirare la corda finché il negro, che ancora si dibatteva, rimase nascosto nel fogliame. Terzan legò la fune saldamente ad un ranno, poi discese e con un colpo preciso spaccò col coltello il cuore dell’uccisore di Kala.

La madre adottiva era vendicata.

Tarzan sostò davanti alla sua vittima osservandola attentamente, perché non aveva mai visto altri esseri umani. Prese il coltellaccio del negro che aveva fermato la sua attenzione. Un cerchio di rami che cingeva le caviglie del negro lo mise alle sue e osservò attentamente e con ammirazione i tatuaggi sulla fronte e sul petto e i denti limati a punta. Prese l’ornamento di penne, se lo mise in capo e s’incamminò sulla via del ritorno perché aveva fame.

Ma la sua fame non era stimolata dalla carne della sua vittima, sebbene le consuetudini della jungla non gli vietassero di mangiarla. Dopo tutto era un animale ucciso da lui; ma non possiamo giudicare i suoi pensieri, non sappiamo quali criteri adottare per questo scimmione che aveva il cuore, la mente e il corpo di un signore inglese, ma era stato allevato dalle scimmie ed aveva contratto le loro abitudini.

Anche le carni di Tublat, l’odiato Tublat, che egli aveva ucciso in combattimento, non lo avevano stimolato. Sarebbe stata per lui una cosa ripugnante cibarsi di quelle carni, come è per noi l’antropofagia.

Per quale motivo egli non mangiò Kulonga, come mangiava Horta, il cinghiale, e Bara, l’antilope? Non era forse uno dei tanti esseri della jungla che si combattono per saziare la fame?

Ma un improvviso dubbio era sorto nella sua mente.

Dai libri aveva appreso che egli era un uomo. Anche l’arciere era un uomo. Egli forse aveva mangiato degli uomini? E gli uomini mangiano gli altri uomini?

Un senso di disgusto, di ripugnanza gli impedì di mangiare le carni di Kulonga; ed egli stesso non sapeva, non capiva il motivo di quell’avversione. Sentiva solamente che non poteva assolutamente cibarsi delle carni del negro.

Per puro istinto, per un senso congenito non violò una legge universale, di cui non conosceva l’esistenza. Quell’istinto suppliva una educazione che Tarzan non aveva mai avuto.

Lasciò calare a terra il cadavere del negro, poi discese, aperse il nodo scorsoio, prese la sua fune e ritornò sull’albero.

TITOLO: La giovinezza di Tarzan tra le scimmie
AUTORE: Burroughs, Edgar Rice
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
CODICE ISBN E-BOOK: n. d.
DIRITTI D’AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

Edgar Rice Burroughs
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(Chicago, 1º settembre 1875 – Encino, 19 marzo 1950) è stato uno scrittore statunitense, autore, fra l'altro, del ciclo di romanzi incentrati sulla figura di Tarzan, il personaggio della giungla allevato dalle scimmie che ha alimentato la fantasia dei lettori e degli appassionati di cinema di più di una generazione.