Il nostro patrimonio folclorico è ricco di esseri fantastici: elfi, folletti, nani, gnomi, orchi, draghi, troll, banshee, lepecauni, korrigan. Cosa c’è di vero?

Fiabe, favole, saghe, leggende, miti sono stati studiati da antropologi e psicologi da diversi punti di vista, pensiamo ad esempio al fondamentale lavoro dal punto di vista psicanalitico, che è stato compiuto da Bruno Bettelheim sulla fiaba. Si è spesso discusso dell’utilità educativa di fiabe e favole per i bambini, soprattutto quando contengono elementi terrificanti. Dal punto di vista del folclore, della storia della cultura popolare, è stato più volte messo in evidenza che questo patrimonio, in particolare per quanto riguarda gli esseri fantastici in Europa deriva soprattutto dall’immaginario celtico, mentre i miti classici di origine greco-latina sono oggetto tuttalpiù di un interesse erudito, Naturalmente, altre aree del mondo hanno le loro tradizioni che possono avere storie diverse.

Tuttavia, raramente ci si è posti il problema della misura nella quale queste entità possono corrispondere al ricordo deformato attraverso la tradizione orale, di creature ed eventi reali.

La parola greca “mythos” da cui deriva il nostro “mito”, significa “racconto”, “fiaba” e “favola” vengono dal latino “fari”, “dire”, “parlare”, “raccontare”; lo stesso significato ha “saga” che viene dal germanico “sagen”, “dire”, “narrare”. Tutti questi termini non significano “narrazione fantastica”, ma “narrazione” e basta. In altre parole, bisogna riconoscere che narrare o ascoltare una storia che si sa essere inventata, non vera, per null’altro che il piacere della narrazione, è un atteggiamento tipicamente moderno, sconosciuto ai nostri antenati che, al contrario, credevano alla veridicità dei racconti trasmessi da una generazione all’altra.

Da qui viene un dubbio perlomeno legittimo: erano tutti dei visionari, o queste narrazioni un qualche genere di fondamento ce l’avevano?

Parliamo ad esempio di nani e giganti: nella specie umana ci sono variazioni di statura considerevoli, e queste differenze vi possono essere fra le popolazioni come fra gli individui. Immaginiamo che in un’epoca remota due popolazioni di differente altezza media siano venute a contatto. Non occorre pensare a differenze estreme, basterebbe una ventina di centimetri, tanto poi ci penserebbero le esagerazioni e le deformazioni della trasmissione orale a fare il resto, per creare in una delle due un corpus di leggende su un popolo di nani, e nell’altra su di un popolo di giganti; mettiamo poi che le due popolazioni si mescolino; ne nascerebbe un popolo che potrebbe conservare il folclore di entrambe, senza più sospettare che i personaggi favolosi delle leggende erano in realtà i loro antenati.

Parlando di nani o gnomi come ce li descrivono le leggende europee, però, c’è senz’altro qualcosa di diverso. John R. R. Tolkien ha raccontato che, quando era intento alla stesura del suo grande ciclo letterario comprendente Il Slimarillion, Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli, era stato tentato di chiamare “gnomi” i Noldor, gli Alti Elfi per assonanza con il termine greco “gnomos”, “saggio”, ma vi ha rinunciato perché, sebbene secondo la sua concezione gli elfi sarebbero progressivamente diminuiti di statura dopo la Guerra dell’Anello, le figure dell’elfo e dello gnomo sono troppo diverse nella tradizione del folclore europeo. Di fatto, in tutta l’opera tolkieniana si parla di nani ma mai di gnomi.

Il nano o gnomo delle leggende europee non è caratterizzato solo dalla bassa statura, è una figura molto ben connotata fisicamente e psicologicamente. Basta vedere anche i nani di Biancaneve, che hanno alle spalle una lunga elaborazione mitologica della figura di questi personaggi.

Che all’origine ci debbano essere dei modelli reali, su questo si potrebbero avanzare pochi dubbi, perché dal punto di vista fisico presentano tutte le caratteristiche del nanismo acondroplastico. Tolkien e Walt Disney poi concordano, ma appoggiandosi entrambi su una tradizione fiabesca radicatissima, nel descriverci i nani come indefessi minatori.

Pensiamoci un attimo. Soprattutto in epoche passate, per muoversi agevolmente e lavorare nell’ambiente angusto dei corridoi delle miniere, occorrevano persone di bassa statura. Perso che tutti noi ricordiamo a questo proposito storie atroci e purtroppo per nulla leggendarie di sfruttamento del lavoro minorile, nelle miniere di carbone britanniche nel XIX secolo e nelle miniere di zolfo siciliane fino alla metà del secolo scorso, e quasi nessuno avrà dimenticato la terribile, dolorosissima novella di Giovanni Verga, Rosso Malpelo, che rifletteva situazioni assolutamente reali. I bambini inglesi che lavoravano nelle miniere nel XIX secolo erano spesso alcolisti nel tentativo di rallentare la crescita, il che forse rendeva loro la vita più sopportabile, ma certamente non contribuiva ad allungargliela.

È chiaro che dei nani si sarebbero trovati avvantaggiati a lavorare nelle miniere, ma questo non è tutto. Le società del passato tendevano a essere società di caste, dove i lavori e i ruoli sociali si tramandavano di padre in figlio, e in questo caso, ciò sarebbe stato agevolato anche dalla trasmissione ereditaria dei caratteri fisici.

Gruppi dediti a mestieri molto specializzati tendevano a formare entità molto chiuse verso l’esterno ed endogame, a sviluppare un linguaggio, costumi, rituali diversi da quelli della popolazione circostante. Mircea Eliade ha analizzato questa situazione riguardo ai fabbri e ai fonditori, ipotizzando anche che i loro rituali e le loro tradizioni siano stati all’origine dell’alchimia. Un fenomeno analogo si sarebbe potuto produrre per una casta di nani minatori. Individui dall’aspetto inconsueto, che fanno parte di un gruppo rigorosamente endogamo, che hanno una loro lingua e i loro costumi diversi da quelli degli altri, che svolgono un’attività misteriosa in un ambiente misterioso come il sottosuolo, sarebbero stati facilmente percepiti come qualcosa che non rientra nella comune umanità.

Parliamo di personaggi molto più inquietanti dei nani, come possono essere vampiri e licantropi. Secondo quanto ci viene raccontato da una consolidata tradizione, chi è morso da un vampiro, diventa a sua volta vampiro, e chi è azzannato da un lupo mannaro è a sua volta destinato alla licantropia.

Da un punto di vista etologico ed ecologico, sembrebbe la cosa più assurda che possiamo immaginare: un predatore che, invece di nutrirsi semplicemente della sua vittima, la arruola tra le proprie file. A meno che … A meno che non si tratti affatto di un rapporto di predazione, ma della trasmissione di un contagio, qualcosa sul tipo della rabbia o idrofobia.

Recentemente mi è capitato di sentire in un documentario (dei molti di argomento scientifico che elargisce Sky) un ricercatore spiegare che occorre particolare prudenza e attenzione a evitare morsicature quando si maneggiano pipistrelli, perché i chirotteri sono facilmente portatori della rabbia. Adesso immaginate: i pipistrelli sono di per sé creature inquietanti: di aspetto che i più non ritengono esteticamente gradevole, di abitudini notturne, usi a orientarsi al buio; alcuni, i pipistrelli vampiri, effettivamente portati a nutrirsi di sangue, dotati di caratteristiche che il popolino ritiene diaboliche (il diavolo è spesso rappresentato con ali di pipistrello). Casi di persone contagiate dall’idrofobia in seguito a morsi di chirotteri potrebbero facilmente essere all’origine delle leggende sul vampirismo, così come persone morse da cani o lupi rabidi avrebbero potuto generare quelle sulla licantropia.

Creatura ancor più inquietante di queste, un essere dalle caratteristiche ben lontane dall’umanità, simbolo per eccellenza della mostruosità e del pericolo, e presente nel folclore di aree vastissime, dall’Europa all’Estremo Oriente, è il drago. Quali sono le origini di questa terrificante e per nulla antropomorfa figura mitologica?

Esseri con caratteristiche simili a quelle dei draghi delle leggende sono effettivamente vissuti su questo pianeta, ne hanno costituito la forma di vita dominante per centinaia di milioni di anni, ne hanno riempito tutte le nicchie ecologiche evolvendosi in una miriade di specie diverse, hanno popolato la terra, le acque, i cieli: i dinosauri. C’è solo un piccolo particolare: sono scomparsi improvvisamente 65 milioni di anni fa – molto prima della comparsa dell’uomo – in seguito a una catastrofe provocata probabilmente dall’impatto con il nostro pianeta di un meteorite di dimensioni gigantesche.

Tuttavia …

Tuttavia è necessario capire cosa significhi “improvvisamente” in questo caso. Migliaia, decine, perfino centinaia di migliaia di anni sono un periodo estremamente breve considerando la scala dei tempi geologici, ma sono un lasso di tempo enorme rapportati alla scala dell’arco vitale di un essere vivente. È  probabile che i tempi della scomparsa “improvvisa” dei dinosauri siano stati questi, e non si può escludere che gli ultimi “draghi” e i più antichi primati abbiano potuto incontrarsi; anzi la cosa appare verosimile e probabile.

Le leggende sui draghi potrebbero nascere da una riminiscenza ancestrale di simili incontri rimasta nel nostro inconscio? Quanto meno, questa tesi è stata sostenuta con grande forza di convinzione e dovizia di particolari dal noto divulgatore scientifico Carl Sagan in un libro che s’intitola (ma guarda un po’!) I draghi dell’eden.

“I più recenti fossili di dinosauri risalgono a circa sessanta milioni di anni fa. La famiglia dell’uomo (non però il genere Homo) ha qualche decina di milioni di anni. Forse allora creature simili all’uomo hanno potuto incontrare il Tyrannosaurus rex? Nel tardo Cretaceo ci sono stati dinosauri sfuggiti all’estinzione? I sogni diffusi e le comuni paure dei mostri che i bambini sviluppano a poco a poco, dopo aver imparato a parlare, possono essere vestigia evolutive delle risposte adattive?”[i]

Occasionalmente, queste leggende potrebbero essere state rafforzate dal ritrovamento di grandi ossa fossili. Ad esempio, il simbolo di Lubiana, la città oggi capitale – un tempo capoluogo – della Slovenia, è il drago, a motivo di un teschio fossile “di drago” che fu ritrovato in età medievale. Un cranio che studiato in epoca moderna con i metodi dell’odierna paleontologia, è poi risultato essere quello di un rinoceronte lanoso.

Tuttavia, se l’estinzione dei dinosauri è stata in effetti una rarefazione abbastanza “improvvisa” da permettere l’evoluzione dei mammiferi, ma non proprio così improvvisa come la scomparsa di una luce quando si chiude un interruttore, un dubbio che ci può venire, è se qualche discendente sempre più raro degli antichi dominatori del nostro pianeta possa magari essere sopravvissuto fino all’età storica o essere addirittura giunto fino a noi. Che dire dell’esistenza di Nessie e dei suoi “fratelli” meno noti come l’africano Mukele M’Bembe o l’americano Ogopogo? Io non giurerei certo sulla loro esistenza, ma non mi sentirei nemmeno di escluderla del tutto.

Continuiamo a parlare di riminiscenze ancestrali come possibile base delle figure di esseri fantastici che popolano in maniera ubiquitaria gli universi della mitologia, del folclore, delle fiabe. Gran parte di queste creature: elfi, folletti, gnomi, troll, orchi sono comunque di tipo umanoide.

Noi oggi sappiamo che la nostra specie, homo sapiens, è la sola specie umana che popola questo pianeta (o almeno presumiamo di sapere, perché, come vedremo, anche su questo si possono avanzare dubbi, poiché a quanto pare conserviamo almeno la traccia genetica di altre umanità) , ma sappiamo anche che non è sempre stato così, e la riminiscenza ancestrale di altre umanità potrebbe essere alla base della creazione di queste figure fantastiche.

Qualcuno ha paragonato la nostra specie all’unico rametto sopravvissuto di quello che un tempo era un lussureggiante cespuglio.

Gli ominidi non umani più recenti, gli australopitechi Robustus e Boisei, si sarebbero estinti attorno a un milione di anni fa, mentre il più antico fossile noto riconosciuto come homo (homo abilis) il famoso cranio “1470” rinvenuto da Richard Leakey sulle sponde del lago Turkana, risalirebbe a un milione e otto-novecentomila anni. Australopitechi ed esseri umani arcaici avrebbero dunque convissuto per centinaia di migliaia di anni.

Anche in questo caso, ci si può porre il dubbio se l’estinzione di questi nostri lontani cugini rimasti a metà del guado che separa la scimmia antropomorfa dall’essere umano, sia stata così completa e definitiva, o se qualche rada popolazione non possa essere sopravvissuta in luoghi appartati e scarsamente accessibili. Se questo fosse vero, potrebbe essere all’origine della leggenda dello yeti. Anche in questo caso, è meglio essere cauti, la risposta migliore da dare, probabilmente, è che non si può escludere.

Al contrario, quella che mi sembra dotata di ben poca credibilità, è la leggenda americana del Bigfoot, che sembra inventata apposta per fare concorrenza allo yeti del Vecchio Mondo, e questo per un motivo molto semplice, perché nelle Americhe fino all’arrivo e alla colonizzazione di esseri umani anatomicamente moderni simili a noi, non sono mai vissuti né scimmie antropomorfe né ominidi.

A questo livello siamo ancora lontani da ciò che si può definire umanità, ma la nostra specie ha sicuramente convissuto con “altre” umanità la cui storia evolutiva si separata dalla nostra in tempi molto più recenti, ed è qui, con maggiore probabilità, che dobbiamo cercare i modelli originali di folletti, elfi, orchi e troll.

homo sapiens neanderthalensis

Dall’homo erectus, la prima specie umana ampiamente diffusa in tutto il Vecchio Mondo, si è differenziata la nostra specie, homo sapiens, ma non è stata la sola a farlo, se ne è distaccata almeno un’altra specie o sottospecie (prescindiamo adesso da ciò, e se debba essere classificata come homo neanderthalensis o come homo sapiens neanderthalensis, cosa tuttora oggetto di dibattiti fra i paleoantropologi), l’uomo di Neanderthal che avrebbe dominato l’Europa da 130.000 a 30.000 anni fa.

30.000 anni fa sarebbe apparso in Europa l’uomo di Cro Magnon, il primo homo sapiens sapiens appartenente alla nostra stessa specie umana moderna, e sarebbe iniziato il declino dell’uomo di Neanderthal, che però avrebbe impiegato migliaia di anni a compiersi, millenni nei quali i neanderthaliani e i nostri antenati avrebbero convissuto; un tempo sufficiente perché la riminiscenza dell’uomo di Neanderthal dalle pesanti arcate sopraccigliari, dalla fronte e dal mento sfuggenti, basso, tarchiato, molto robusto e villoso, sia potuta diventare il prototipo di orchi e troll.

Per lungo tempo, i paleoantropologi hanno sostenuto che o non fossero mai avvenuti incroci fra sapiens e neanderthaliani o che, se sono avvenuti, dovessero essere sterili; recentemente le analisi del DNA ricavato da ossa neanderthaliane confrontato con quello di uomini moderni, ha invece portato alla conclusione opposta, e si ritiene che gli Europei odierni avrebbero una proporzione variabile fra il 2 e il 4 per cento di geni di neanderthal, ma una traccia del genoma di questi nostri antichi cugini (e forse antenati) si ritroverebbe un po’ dappertutto, tranne che fra le popolazioni di origine africana, non a caso, poiché si ritiene che l’Africa sia stata la culla ancestrale dell’homo sapiens sapiens.

Anche l’estinzione dell’uomo di neanderthal, sia sicuri che sia stata veramente totale e completa? Alcuni non sono di quest’idea. Qualche anno fa (5.10.2007), sul sito della Arianna Editrice è apparso un articolo di Roberto Fondi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Siena, che ci racconta una storia davvero strana. Negli anni ’60, un militare americano uccise nella giungla del Vietnam uno strano individuo villoso. Il cadavere fu acquistato e contrabbandato clandestinamente negli Stati Uniti da Frank D. Hansen, un capitano prossimo al congedo, che lo fece congelare e cominciò a esibirlo nelle fiere di paese una volta lasciata l’uniforme.

Nel 1968 Hansen fece esaminare il cadavere nel ghiaccio da due zoologi, Ivan T. Sanderson e Bernard Heuvelmans, che lo esaminarono, lo fotografarono e conclusero che, ci dice Fondi: “L’essere aveva le medesime caratteristiche craniali e corporee dell’”Homo neanderthalensis”.

Purtroppo, questo prezioso reperto scomparve in circostanze poco chiare nel 1969. Tutto quello che ci rimane sono le dichiarazioni, e le foto dei due zoologi alla creatura nel ghiaccio, che non sono il massimo della chiarezza.

Non è finita qui, perché nel 2008 dall’analisi del DNA dei resti umani rinvenuti nella caverna di Denisova nell’Altai, è stata identificata una terza specie umana evolutasi dall’Erectus parallelamente al Sapiens e al Neanderthal. Anche questa specie si sarebbe incrociata con la nostra; sempre le analisi del DNA avrebbero evidenziato la presenza di una percentuale di geni “denisoviani” tra il 4 e il 6 per cento nelle popolazioni asiatiche e aborigene australiane. Secondo alcuni, sarebbe proprio questa eredità “denisoviana” a conferire agli aborigeni australiani il loro aspetto arcaico, ma al momento è difficile pronunciarsi, perché quel che se ne sa è veramente poco.

La scoperta più singolare, tuttavia è avvenuta nel 2003 in Indonesia nell’isola di Flores, dove in una caverna sono stati rinvenuti i resti di un piccolo ominide vissuto fino a 13.000 anni fa (quindi ben dopo l’estinzione – o almeno l’estinzione “ufficiale” – dell’uomo di neanderthal) che per le sue piccole dimensioni (poco più di un metro), è stato soprannominato “hobbit”. Si tratterebbe non di un sapiens sia pure nano, ma di un piccolo discendente dell’Homo Erectus che, protetto dall’isolamento, sarebbe sopravvissuto ben più a lungo degli altri Erectus, fin quasi all’età storica, sarebbe anche il primo vero esempio conosciuto fra esseri umani di nanismo insulare, ossia della tendenza dei mammiferi a ridursi di dimensioni quando si trovano a vivere stabilmente confinati su piccole isole.

Il termine “hobbit” è stato coniato da John R. R. Tolkien, ma Tolkien nel dare vita ai personaggi del suo ciclo narrativo si è ampiamente basato su una tradizione favolistica di cui aveva una profonda conoscenza, e se, come stiamo ipotizzando, nei personaggi fantastici delle favole e dei miti si perpetua una riminiscenza di quando la nostra specie si confrontava con “altre umanità”, allora la parola “hobbit” riferita ai piccoli uomini di Flores è qualcosa di più di una metafora.

Vorrei proporre in conclusione un’ipotesi ardita. Come vi sarete resi conto, una domanda per cui non abbiamo nemmeno abbozzato una possibile risposta, è chi o che cosa erano gli elfi?

Facciamo un passo indietro: se sono avvenuti incroci tra Cro Magnon e Neanderthal potrebbero essersi formate delle comunità di origine mista, e non è nemmeno detto che la componente neanderthaliana fosse inizialmente così marginale come potremmo pensare, perché la selezione naturale avrebbe favorito coloro che avevano una più alta percentuale di geni sapiens, fino al punto che l’apporto genetico neanderthaliano si sarebbe ridotto al 2-4% attuale, ma gli eventuali apporti culturali conferiti dai neanderthaliani a simili comunità sarebbero rimasti invariati. Ora ripensate all’esempio su nani e giganti che vi ho fatto in apertura dell’articolo. In che modo un sapiens sapiens sarebbe apparso agli occhi di un Neanderthal? Alto, slanciato, forse bello in una maniera insopportabile. Nelle comunità di sapiens, grazie all’elevata socialità, gli anziani dovevano avere un tasso di sopravvivenza, un’attesa di vita nettamente maggiore, e questo potrebbe aver ispirato l’idea della longevità attribuita agli elfi.

E, ad esempio, la mira infallibile?

Questo ci consente di aprire un capitolo molto interessante. Lo studio delle ossa degli uomini Erectus e neanderthaliani ha rivelato la presenza di una quantità sorprendente di fratture. Le lame di selce acheuleane (Erectus) o musteriane (Neanderthal) potevano essere immanicate per creare asce o giavellotti che potevano anche essere piuttosto lunghi, ma che venivano imbracciati per colpire prede accerchiate che erano uccise in furiosi corpo a corpo (e un erbivoro di grosse dimensioni come un cavallo o un bovino può procurare parecchi danni a un uomo in simili condizioni, anche ucciderlo). Queste fratture in tale quantità non compaiono più sulle ossa dei Cro Magnon, il che ha portato a concludere che costoro avessero perfezionato il giavellotto trasformandolo in una vera arma da lancio, una lancia, appunto, e questa capacità di colpire le prede a distanza deve avere certo notevolmente impressionato i “cugini” neanderthaliani.

Volete vedere un elfo? Guardatevi allo specchio, forse ne state vedendo uno quasi puro, al 96-98 per cento!

La maggior parte della storia della nostra specie è avvolta nel buio della preistoria, nel silenzio dell’assenza di documenti scritti, ma pian piano stiamo gettando sempre maggiore luce su di essa. E man mano che procediamo in questa ricerca, ci accorgiamo che nelle favole e nei miti c’è probabilmente molta più verità di quel che avevamo pensato.

[i] Carl Sagan: I draghi dell’Eden ( The Dragons of Eden), Bompiani, Milano 1979, pag. 142-143