Questo articolo ha una storia un po’ particolare: il primo input a stenderlo ebbi da uno scritto di Giuseppe Lippi del – credo – 2008, comparso su Uraniasat, versione on line della celebre rivista mondadoriana, in cui commentando la nostra esperienza giovanile quando demmo vita alla fanzine Il re in giallo, diceva:
“Per raccontare la storia del “Re in giallo” con un minimo di completezza, bisognerebbe far cantare tutte le voci: Fabio Calabrese, Piero Cavalieri, Roberto F. Eletto, Francesco Faccanoni, Giancarlo Pellegrin, Eddy Triscoli e Gianni Ursini”.
Presi la palla al balzo e iniziai a stendere l’articolo che avete sotto gli occhi. Tuttavia, non lo inviai a Uraniasat, perché poco dopo accadde che Luigi Cozzi mi commissionò un articolo, appunto, sulla storia della nostra fanzine, e pensai di dirottare lì il pezzo che avevo scritto. Tuttavia, sebbene il pezzo fosse molto piaciuto a Cozzi, non arrivò alla pubblicazione, perché la sua rivista, Mystero (con la “y”, suppongo, per distinguerla da altre testate analoghe), chiuse i battenti poco dopo.
Sebbene altri anni siano nel frattempo trascorsi, non penso che il lavoro fatto sia da buttare via, ma può continuare a presentare interesse per gli appassionati di letteratura “weird”.
Fabio Calabrese
Raccontando nel suo articolo su Uraniasat la storia della prima fanzine italiana dedicata ai temi del fantastico anziché alla fantascienza, Giuseppe Lippi ha precisato:
“Questa è la storia della fondazione del “Re in giallo”, non del suo sviluppo e progresso, giacché fin dal terzo numero ho dovuto lasciare la redazione per trasferirmi a Milano e cominciare la mia vita professionale”.
Osservando anche che:
“Per raccontare la storia del “Re in giallo” con un minimo di completezza, bisognerebbe far cantare tutte le voci: Fabio Calabrese, Piero Cavalieri, Roberto F. Eletto, Francesco Faccanoni, Giancarlo Pellegrin, Eddy Triscoli e Gianni Ursini”.
A me personalmente, il nostro Giuseppe ha rivolto un invito esplicito a completare questa storia che sarebbe bene non lasciare a metà, ed è un invito che raccolgo ben volentieri.
C’è un punto, tuttavia, che vorrei mettere in chiaro fin dal principio, un punto che Giuseppe Lippi con la sua innata signorilità si è guardato dall’evidenziare, ma che io non ho remore a svelarvi: con i mezzi limitati di una fanzine, il lavoro compiuto con “Il re in giallo” fu veramente qualcosa di egregio, che segnò un’epoca nel fandom, basti per tutti l’eccellente monografia dedicata ad H. P. Lovecraft che costituì il secondo numero della pubblicazione, che si avvalse (credo che fosse una cosa fin allora mai vista per una pubblicazione amatoriale) di un vero e proprio team di esperti internazionali come Dirk Mosig o tra gli italiani più qualificati del settore, come Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco, ed era destinata a diventare nel giro di poco tempo un ambito pezzo sul mercato del collezionismo; ebbene, questa meraviglia si deve in massima parte alla capacità, alla passione, alle innegabili doti professionali di Giuseppe Lippi!
Torniamo però al punto della storia in cui Giuseppe l’ha lasciato. Vedendo le cose retrospettivamente, si può dire di certo che il fatto che il nostro si fosse trasferito a Milano per lavorare alle dipendenze dell’editore Armenia come redattore e poi per un breve periodo anche come direttore della rivista “Robot” e più avanti – soprattutto – diventare curatore di Urania, è stata una fortuna per la fantascienza italiana: un talento come quello del nostro amico avrebbe rischiato di rimanere sprecato o sottoutilizzato in un ambiente piccolo e periferico come quello triestino, ma per quel che riguarda noi, la sua partenza ci lasciava nelle peste, anche perché avveniva in un momento molto delicato.
Tuttavia, penso che questa storia sia meglio raccontarla dall’inizio.
Quando eravamo re, When we where Kings, lo ricorderete, è il titolo di un bel film-documentario di ambientazione sportiva, su Cassius Clay, uno dei più grandi campioni di pugilato di tutti i tempi e il suo leggendario incontro con George Foreman, e vuole esprimere il senso di un momento magico, irripetibile, di quelli che sono ricordati con nostalgia per tutta un’esistenza. Bene, la sensazione che provo ripensando a quando eravamo “Re in giallo” è questa.
C’entra naturalmente il fatto naturale, fisiologico, che quelli fossero i miei vent’anni, ma io credo che, a prescindere da ciò, sia stato davvero un momento particolare, “magico” nella storia del fandom e della fantascienza italiani. Basta dire che alcuni ragazzi che non avevano neppure una sede dove riunirsi ma s’incontravano nei bar, con molte speranze ma capitali da investire prossimi allo zero, riuscirono a dare vita ad una pubblicazione che ebbe tra i suoi collaboratori personaggi affermati del mondo dell’editoria come Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco, scrittori come Giuseppe Pederiali, docenti universitari come Giorgio Giorgi, collaboratori stranieri come Dirk Mosig.
E’ difficile oggi spiegare quel particolare momento, soprattutto ai più giovani che non hanno vissuto il clima peculiare degli anni ’70, con la fede nella spontaneità creatrice, con la carica di entusiasmo, “l’aria di ’68” che ancora si respirava.
Per il fandom, l’ambiente degli appassionati di fantascienza italiani, la metà degli anni ’70 è stato di certo un momento affatto peculiare. Il fandom, va detto, ha sempre rappresentato un fenomeno quantitativamente modesto, le pubblicazioni amatoriali, le fanzine, tirate in poche centinaia di copie, non hanno mai potuto occupare che una nicchia estremamente ristretta del mondo editoriale, ma è lì che si sono “fatti le ossa” autori, critici, curatori, molti dei quali hanno poi “fatto il salto” nel professionismo e poteva (ed in parte può ancora, oggi che le fanzine sono rinate in forma elettronica) capitare che anche professionisti affermati non disdegnassero queste spartane pubblicazioni, data la penuria di sbocchi che affliggeva (e continua ad affliggere) la fantascienza di autore italiano.
Il periodo dagli anni ’50 al 1968-69 era stato quello del “primo fandom”, poi, grosso modo dal 1968 al 1972 c’era stato un quadriennio di silenzio, il cosiddetto “buco nero”.
Ipotizzo che proprio la contestazione del ’68 avrà in quel periodo allontanato molti dalla fantascienza. Perché mai, si saranno detti, perdere tempo a sognare un futuro diverso quando si pensava di poterlo costruire? A ciò si saranno verosimilmente sommati gli effetti dell’impresa lunare del ’69. Anche qui, a molti sarà sembrato che non era più il caso di perdere tempo in fantasticherie, quando la conquista dello spazio era sul punto di tradursi in realtà. Poi ci si è resi conto che le cose non sono così semplici come allora sembravano.
La ripresa, con la nascita del “secondo fandom” ma anche con un ritorno in campo dell’editoria specializzata, partì proprio da Trieste, dove fra l’altro era sempre continuato il Festival Cinematografico del Film di Fantascienza, che nel 1972 fu scelta come sede del primo Eurocon, il primo congresso europeo di fantascienza che cercava di importare da noi il modello di quelle gigantesche ed affollate kermesse che sono le convention americane. All’Eurocon triestino esordirono due nuove case editrici specializzate, la Nord di Milano e la Fanucci di Roma. La prima fanzine della nuova generazione, “Kronos” di Mestre (che fra le altre cose ospitò il mio primo racconto pubblicato) porta la data del dicembre 1973, anche se l’uscita effettiva avvenne nel corso del 1974.
Questo piccolo excursus storico è indispensabile per capire il clima nel quale avvenne la nascita della nostra pubblicazione, un momento di attese e speranze forse ingenue, ma che erano come il rifiorire primaverile dopo le gelate dell’inverno, ma sarebbe difficile capire la storia della nostra pubblicazione e ciò che “Il re in giallo” allora rappresentò, senza considerare i suoi necessari antecedenti rappresentati dalla particolare situazione triestina, la cultura, “l’anima” di questa città, la sua propensione al fantastico, ed anche – brevemente – l’esperienza del Festival del Film di Fantascienza e delle fanzine che ci avevano preceduti.
Alcuni, per spiegare la propensione triestina, così ben radicata, verso il fantastico e la fantascienza, hanno ipotizzato che si debba in primo luogo considerare la particolare collocazione storico – geografica di questa città. Dal 1945, dalla conclusione della seconda guerra mondiale, essa è praticamente priva di hinterland, attaccata all’Italia solo da una striscia esigua di territorio che è come un sottile peduncolo anzi, fino al 1954 neppure facente parte dell’Italia, come sospesa fra due mondi, anzi fino al 1991, cioè fin quando dall’altra parte, appena oltre la porta di casa c’erano la Cortina di Ferro e la Jugoslavia comunista, come affacciata sul vuoto, sul nulla.
Io penso che sia possibile ed altamente probabile che questa situazione affatto particolare abbia contribuito ad incrementare la tendenza triestina al fantastico ed alla fantascienza, tuttavia segni inequivocabili di questa propensione si scorgono ben prima che questa contingenza venisse a verificarsi.
Forse sarà un tipo di considerazioni provocatorio, ma in quello che è il più importante autore triestino nonché uno dei più importanti scrittori italiani del novecento, Italo Svevo, si trova senza troppa difficoltà un che di fantascientifico ben prima che la fantascienza fosse riconosciuta da noi come genere codificato. Potremmo prescindere dal fatto che il più noto romanzo di questo autore, La coscienza di Zeno, è la storia di un trattamento psicanalitico scritta in un’epoca (gli anni ’20) in cui la psicanalisi era ancora scienza d’avanguardia e di frontiera. Potremmo prescindere dalle circostanze bizzarre, esse stesse quasi al limite del fantastico, che portarono Svevo nell’empireo della letteratura (Immaginatevi: Ettore Schmitz, come si chiamava in realtà, lavorava come rappresentante per la ditta del suocero, la Colori Veneziani, in questa veste, dovendo imparare l’inglese in età già matura, si iscrive ad una scuola di lingue cittadina, la Berlitz School, qui trova un docente un po’ stravagante, un irlandese residente a Trieste con il pallino della narrativa, e non resiste alla tentazione di mostrargli alcune delle sue prove letterarie; l’insegnante, che le legge, si entusiasma e decide di far conoscere gli scritti del suo allievo all’universo mondo, era un certo James Joyce), ma certamente non potremmo ignorare l’allucinata conclusione della Coscienza di Zeno con la sua sinistra profezia nella quale molti hanno visto una prefigurazione delle armi nucleari e della possibilità di una distruzione planetaria frutto dell’irresponsabilità dell’uomo:
“Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile (…) Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata a forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.
Forse parlare di Fantascienza di Zeno è troppo azzardato?
Ad ogni modo, sarà bene partire da cose un po’ più vicine a noi. Nel 1963, all’epoca della prima edizione del Festival del Film di Fantascienza, il sottoscritto doveva ancora compiere undici anni e, non essendo particolarmente precoce, non ha registrato in alcun modo l’evento nella propria esperienza diretta. Undicenne era anche la presenza della fantascienza in Italia, arrivata come me nel 1952 con le riviste “Scienza fantastica” e “Urania” (fu proprio l’allora direttore di “Urania”, Mario Monicelli, a coniare in quel torno di tempo la parola “fantascienza” come traduzione dell’inglese “Science Fiction”). Trieste poi, era tornata ad essere una città italiana da nove anni, essendo stata restituita all’Italia solo nel 1954, e la “questione triestina” è stata a lungo uno degli strascichi più tenaci della seconda guerra mondiale. Un festival del cinema di fantascienza era allora una novità assoluta per l’Italia e, credo, a livello europeo.
Di quella prima manifestazione, abbiamo una testimonianza in alcune fotografie che ritraggono il pubblico nel Cortile delle Milizie del castello di San Giusto stipato fino all’inverosimile.
Nel 1982, in coincidenza con la ventesima, e purtroppo ultima – almeno per un ampio lasso di tempo – edizione del Festival, l’Azienda di Soggiorno triestina editò un fascicolo di ampiezza assai maggiore dei soliti cataloghi, nel quale si percorreva la storia della manifestazione fantascientifica: essa nacque da una sinergia fra l’Azienda stessa ed alcuni giornalisti, critici cinematografici ed organizzatori della Biennale del Cinema di Venezia. Lo storico incontro fra triestini e veneziani che doveva costituire l’atto di nascita del Festival, avvenne esattamente a mezza strada, a Latisana nel febbraio 1963, e vi parteciparono fra gli altri Giulio Raiola e Sandro Sandrelli. Sandro Sandrelli in particolare doveva diventare un aficionado della manifestazione triestina, di cui seguì tutte le edizioni in veste di inviato del “Gazzettino”, ma sempre pronto a mettere la sua esperienza di autore e di critico di fantascienza, oltre alla sua simpatia e signorilità, a disposizione degli appassionati che in occasione del Festival convergevano nel capoluogo giuliano da tutta Italia.
Anche se era fatale che nel corso degli anni sugli schermi del Festival, accanto a pregevoli capolavori fosse presentata molta cinematografia minore, e talvolta opere discutibili, un semplice elenco dei personaggi della cultura, fantascientifica e non, che negli anni si sono avvicendati in qualità di ospiti e/o di membri della giuria nel Cortile delle Milizie del castello di San Giusto, basta per dare un’idea dello spessore della manifestazione: Jacques Bergier, Kingsley Amis, Umberto Eco, Harry Harrison, Frederick Pohl, Mario Soldati, Roger Corman, Brian Aldiss, Arthur C. Clarke, Alessandro Blasetti, Guido Piovene, Walter Ernsting, Forrest Ackerman.
Per quanto riguarda le pellicole presentate, occorre dire che non è mai stata politica delle majors americane che hanno il monopolio quasi assoluto della produzione di film di fantascienza ad alto budget, inviare i propri prodotti a rassegne e concorsi come il festival triestino, né negli Stati Uniti, né tanto meno fuori di essi, ma questo non ha impedito che proprio sugli schermi del Cortile delle Milizie avessero la loro anteprima alcuni dei capolavori della cinematografia fantastico – fantascientifica europea: The Damned di Joseph Losey, Alphaville di Jean Luc Godard, La mort en directe di Bertrand Tavernier, Il cervello di Mr. Soames di Alan Cooke, tanto per fare qualche esempio, senza considerare la possibilità, rara ma che ogni tanto accadeva, di qualche opera americana “rifilataci” perché considerata di serie B, e che si sarebbe rivelata invece di pregio, ad esempio Schlock di John Landis o, nel 1971, Los Angeles 1017 dell’allora quasi sconosciuto Steven Spielberg.
Nel 1972, come ho già raccontato, Trieste fu teatro di un altro importante appuntamento: il primo Eurocon, il primo congresso europeo di fantascienza, che prendeva a modello le convention americane, ma si avvaleva della già collaudata struttura organizzativa del Festival del Film di Fantascienza. Bisogna dire che la portata di quell’evento in quel momento particolare, fu difficilmente sopravvalutabile, la convention triestina non fu solo l’occasione per il lancio di due nuove case editrici specializzate nel settore, le Edizioni Nord di Milano e la Fanucci di Roma, ma costituì un momento di rilancio generale della fantascienza in Italia, e del fandom, di cui da quattro anni si erano perse le tracce.
Riguardo a quella manifestazione, sarebbe anche il caso di ricordare due triestini che colsero un importante successo personale non riconducibile al fatto che “giocavano in casa”: uno fu il pittore Aldo Bressanutti che nell’ambito dell’Eurocon presentò una mostra di inquietanti e molto suggestive tele di carattere fantascientifico (oltre ad essere l’autore del manifesto della convention); in seguito, per anni, mi è capitato di vedere riproduzioni di quei quadri come illustrazioni di copertina dei libri della Nord, della Fanucci, di Galassia, nelle sedi più svariate; dovette fare una notevole impressione agli editori presenti al convegno. L’altro fu lo scrittore Livio Horrakh che vinse il neo – istituito Premio Italia di fantascienza con il racconto Dove muore l’astragalo. Sfortunatamente, Livio Horrakh è uno dei tanti autori indubbiamente dotati che, dopo una partenza bruciante, hanno progressivamente rallentato la loro attività fino a sparire dall’agone fantascientifico per colpa, io penso, soprattutto della scarsa rimuneratività dello scrivere fantascienza in Italia.
A dire il vero, il “buco nero” così completamente nero non era stato. Fra i pochissimi club di appassionati che erano riusciti a sopravvivere all’oscuro quadriennio, si può ricordare il Centro Cultori Science Fiction di Venezia, diretto da Gian Paolo Cossato e Gianluigi Missiaja, ed il Notiziario del CCSF che in questo periodo fu a un dipresso l’unica pubblicazione fantascientifica di tipo non librario esistente in Italia. Al Notiziario collaborava anche un triestino, Fabio Pagan, che sarebbe diventato uno dei più apprezzati giornalisti scientifici e divulgatori italiani.
Occorre spendere qualche parola anche sulle fanzine triestine del “primo fandom”, degli anni ’60, che, come capitava allora, ebbero la forma di tre ciclostilati che portavano rispettivamente le testate di “Hypotesis”, “Decimo pianeta” e “Cronache del decimo pianeta”. (A quel tempo, ogni fascicolo ciclostilato aveva la propria testata, perché la legge prevedeva che in assenza di un direttore responsabile e di una registrazione legale, si potessero pubblicare solo numeri unici).
“Il re in giallo” non nacque collegandosi direttamente a quelle prime esperienze, tuttavia da alcuni di coloro che ne erano stati protagonisti, avemmo approvazione ed incoraggiamento; in particolare Livio Horrakh e Gianfranco Sherwood, anche se i loro nomi non compaiono nei fascicoli del “Re in giallo” perché, inclinando entrambi piuttosto per una fantascienza ortodossa, non amavano in maniera particolare il fantastico “weird”. Di Gianfranco Sherwood conservo ancora una copia del “Silmarillion” di J. R. R. Tolkien che mi regalò per un mio compleanno. In seguito, Sherwood è tornato con maggiore attivismo sulla scena fantascientifica; nel 2000 è stato il vincitore dell’ultima edizione del premio Courmayeur (sezione fiction), e fino alla sua chiusura ha collaborato a “Continuum”, la webzine cui abbiamo dato vita Roberto Furlani ed io. Quanto a Livio Horrakh, fu lui a mettermi in contatto con Luigi Naviglio sulla cui rivista “Verso le Stelle” pubblicai Uno studio psicologico su Ray Bradbury che fu il mio primo lavoro di saggistica edito a livello professionale.
Non si può nemmeno, certamente, fare torto a Fabio Pagan, benché il suo esordio vada collocato, come abbiamo visto, un po’ a cavallo tra “primo” e “secondo fandom”, che, essendo giornalista professionista, poté assumersi l’onere di direttore responsabile della nostra testata.
Era dunque a partire da un terreno molto favorevole, che si sviluppò la nostra esperienza, tuttavia ancora il fenomeno “Re in giallo” non si comprenderebbe senza tenere presente la figura di Giuseppe Lippi.
Giuseppe Lippi, attuale direttore di “Urania” ha trascorso l’adolescenza a Trieste, ed io ho avuto la grande fortuna di trovarmelo come compagno, prima sui banchi del liceo, poi su quelli dell’università. Di lui ho sempre ammirato la fantasia estremamente vivida e la straordinaria cultura e competenza per tutti gli aspetti della letteratura fantastica, frutto di letture diuturne e di passione inesausta. Pochi lo sanno, ma Giuseppe Lippi, di cui ebbi il piacere, all’epoca, di leggere diversi inediti, è anche un ottimo scrittore, che ha sacrificato questa sua vena per promuovere piuttosto altri autori di questa nostra fantascienza e di questo nostro fantastico italiani, ed onestamente, ben poche cose avrebbero potuto farmi più piacere del suo ritorno alla narrativa, lo scorso luglio sul n. 1500 di “Urania” con Il lago d’inferno, un racconto lungo fanta – thriller – spionistico – mitologico con qualche sfumatura lovecraftiana.
Nel 1975, lui ed io, entrambi finalisti della prima edizione del premio Mary Shelley indetto dalla fanzine “The Time Machine” di Padova, al ritorno dalla premiazione, ci trovammo bloccati per alcune ore, a causa di una coincidenza saltata, alla stazione ferroviaria di Mestre, e lì nella sala d’aspetto della stazione, conversando fra noi due, nacque il progetto di una fanzine dedicata al fantastico, che si concretizzò nell’esperienza del “Re in giallo” (testata ispirata al titolo dello pseudobiblium inventato da Robert W. Chambers, uno dei precursori di Lovecraft).
Lippi arrivò a mettere mano al primo ed al secondo numero di questa pubblicazione, il famoso speciale dedicato ad H. P. Lovecraft, che diventò presto un richiestissimo pezzo da collezione, poi, chiamato dall’editore Giovanni Armenia in qualità di collaboratore fisso, si trasferì a Milano, lasciandomi l’onere di continuare ad editare “Il re in giallo”, cosa che, non senza errori, e sicuramente senza essere all’altezza di quel che Lippi sarebbe riuscito a fare, proseguii per altri cinque numeri, fra cui un secondo speciale Lovecraft, il n. 5.
L’esperienza del “Re in giallo” fu determinante per me, non solo perché impose il nome di Fabio Calabrese all’attenzione del fandom e degli appassionati, ma anche perché mi indusse a cimentarmi con la saggistica, settore nel quale dovevo più tardi ottenere i maggiori successi. Il fatto è che, sebbene da allora sembri passata un’eternità, non è che nel ’76, a ventiquattro anni ed ormai non lontanissimo dalla laurea, fossi proprio di primissimo pelo, ma fino ad allora, sebbene avessi già pubblicato diversi racconti sulle fanzine, non mi ero azzardato a scrivere nulla di critica/saggistica: la fantascienza mi appariva un mare magnum che non conoscevo a sufficienza. Certamente sopravvalutavo le difficoltà, la dote essenziale, probabilmente, è saper scrivere, esporre in maniera avvincente idee interessanti, e le competenze uno se le fa man mano per strada. “Il re in giallo” mi diede l’impulso per superare il blocco psicologico, anche perché l’horror o il weird come lo s’intendeva sulle nostre pagine, mi appariva al confronto una laguna tranquilla, fondata sulla conoscenza di alcuni autori: H. P. Lovecraft, Arthur Machen, Lord Dunsany, William Hope Hodgson e non tantissimi altri. L’articolo su Arthur Machen, altro importante precursore di Lovecraft, pubblicato sul n. 1 del “Re in giallo”, e ripubblicato agli inizi del nuovo secolo su “La Soglia” è stato in assoluto il primo pezzo di saggistica da me scritto.
Ma andiamo a dare un’occhiata nel vivo a cosa sono stati quei cinque anni, dal 1976 al 1980 e quei sette (ma in realtà otto, come vedremo) numeri della nostra pubblicazione che riuscimmo a far uscire in quell’arco di tempo.
Occorre dire che, una volta tornati dalla trasferta padovana e dalla forzata attesa nella stazione di Mestre dove l’idea della nostra pubblicazione era nata, Giuseppe Lippi non perse tempo a dare dimostrazione sia di quelle doti organizzative, sia di quella capacità di tessere relazioni, che l’hanno portato, assieme alla sua approfondita conoscenza del campo fantastico-fantascientifico, ad essere uno dei più affermati professionisti della science fiction italiana. Raccolse subito uno staff che comprendeva Lucio Fait, uno dei maggiori collezionisti triestini, Francesco Faccanoni che sarebbe stato il nostro segretario e tesoriere, taciturno quanto efficiente, Gianni Ursini che già allora mostrava una notevole competenza riguardo al cinema fantascientifico, e con gli anni sarebbe diventato uno dei maggiori esperti italiani in questo settore. Si era unito a noi anche Roberto Eletto, un altro triestino finalista al “Mary Shelley” ’75 che avevamo conosciuto a Padova.
Un altro appassionato che entrò in contatto con noi fu Piero Cavalieri, ed il padre di quest’ultimo, Sergio Cavalieri, dentista di professione e pittore per passione, fu l’autore della copertina e di alcune delle illustrazioni interne del nostro primo numero. Un altro illustratore lo arruolai io, un mio compagno di corso all’università, Bruno Micovilovich, che mi fece vedere una bella illustrazione di carattere fantastico disegnata con un personalissimo stile “puntinato”, gliela strappai letteralmente di mano e lo trascinai nella nostra redazione quasi a forza. In seguito, Bruno collaborò come illustratore ai volumi lovecraftiani della Fanucci.
La testata della pubblicazione s’ispirava, ovviamente, al titolo del romanzo di Robert Chambers, uno dei precursori di H. P. Lovecraft, e fu scelta dopo un braistorming fra i collaboratori nel corso del quale uscirono le proposte più inverosimili.
Giuseppe Lippi su lanciò subito nella preparazione della monografia lovecraftiana che doveva essere il “mitico” n. 2, e fece un lavoro egregio. Basti pensare che questo volume – che non si può definire un fascicolo – ospitava tra le altre cose, due articoli di Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco, allora considerati i maggiori esperti italiani di letteratura fantastica, alcuni brevi interventi di Claudio De Nardi, forse il più profondo conoscitore italiano di H. P. Lovecraft, un ampio saggio di Dirk Mosig, il critico statunitense che primo di ogni altro ha demolito l’interpretazione “cristiana” ed antropocentrica dei “miti di Cthulhu” messa in giro da August Derleth, e tengo a sottolineare che il saggio di Mosig non era, come spesso usavano allora le fanzine, rubacchiato abusivamente da qualche rivista americana, ma ci era stato inviato dallo stesso Mosig, tanto per tenere presente non solo la rete di contatti che Lippi aveva sviluppato, ma anche la serietà e la professionalità del lavoro svolto. C’erano poi una breve autobiografia ed un racconto inedito dello stesso Lovecraft, ed altre cose ancora, per un volume complessivo di 120 pagine di grande formato (interlinea 1, formato A4, fronte/retro), l’equivalente di un testo da libreria.
Di questo volume tirammo dapprima 500 copie che andarono esaurite a velocità impressionante, poi altre 300 che ebbero rapidamente la stessa fortuna, e lo stesso è in seguito diventato un “pezzo” ambitissimo sul mercato del collezionismo.
Nel frattempo, la nostra redazione si era accresciuta: si erano uniti a noi due fratelli, Giancarlo e Leonardo Pellegrin ed Edoardo (Eddy) Triscoli. Leonardo Pellegrin fu l’autore di alcune illustrazioni interne del n. 2, mentre Giancarlo era destinato ad avere un peso considerevole sulla sorte de “Il re in giallo” in positivo e in negativo: si accollò molto lavoro di battitura delle matrici dei testi, ma fu anche la principale fonte di screzi all’interno del nostro gruppo.
Eddy Triscoli, invece, fu una gran bella scoperta ed una considerevole positività. Triscoli è, a mio parere, un eccellente illustratore con uno stile molto pregevole e personale; fu l’autore della quarta di copertina del n. 2, ed in seguito delle copertine dei n. 4, 6 e 7 e di gran parte delle illustrazioni interne della pubblicazione, nonché di due articoli apparsi sul n. 3 e su “Terzo Pianeta” dedicati a M. C. Escher ed a “Metal Hurlant”; dopo l’esperienza del “Re in Giallo” alcune sue illustrazioni apparvero su “Verso le Stelle” di Naviglio, ma nel complesso, a mio parere, rimane una risorsa che la fantascienza italiana non ha saputo sfruttare. Si unì a noi anche Domenico D’Amico, del gruppo pescarese di “Ubik”, di cui pubblicammo nel n. 2 un portfolio di illustrazioni lovecraftiane, e nel n. 3 anche un racconto.
Lo “speciale Lovecraft” era ancora in stampa quando Giuseppe Lippi si trasferì a Milano perché assunto da Giovanni Armenia come collaboratore fisso. Certo, come dicevo, è stato un bene per la fantascienza italiana che il suo talento e la sua professionalità non siano rimasti confinati nel ristretto ambito triestino, ma l’onere di continuare “Il re in giallo” ricadeva soprattutto su di me, e probabilmente non sono sempre stato all’altezza del compito.
L’allora nuova recluta della nostra redazione, Giancarlo Pellegrin, ci aveva suggerito l’idea, per contenere i costi, di far stampare la pubblicazione da un suo amico, un sacerdote friulano, Don Bianco, parroco di Ovaro, paesino in provincia di Pordenone, e di copie della pubblicazione ne arrivavano a Trieste con il contagocce. La sensazione che avemmo tutti nell’estate del 1977, fu che l’iniziativa partita un anno prima, stesse ormai per insabbiarsi definitivamente.
Fu in quel momento preciso che compresi che se non mi fossi fatto avanti io per rimettere in moto quel che Lippi aveva lasciato in eredità al gruppo triestino, nessun altro l’avrebbe fatto. Una spedizione ad Ovaro, saldare don Bianco delle pendenze che gli dovevamo, e poi una corsa alla CLUET, la tipografia dell’università triestina, dove avevamo stampato il primo numero del “Re in giallo” e dove avremmo stampato i successivi, perché il parroco friulano aveva fatto un lavoro difficilmente utilizzabile, stampando di alcune pagine quasi un migliaio di copie, di altre un centinaio o poco più.
Naturalmente, in quel momento ero lontano dal comprendere a fondo la responsabilità che mi mettevo sulle spalle, di continuare l’opera di una personalità notevole come quella di Lippi, ma mi accinsi ad un lavoro simile non so se con più buona volontà o incoscienza.
Nel ’78 e ’79, ad ogni modo, realizzammo l’obiettivo di darci una cadenza almeno semestrale (numeri 3 – 4 e 5 – 6); intanto, il parco dei nostri collaboratori continuava a crescere, e si aggiungevano nomi di prestigio, prima di tutto, Riccardo Leveghi, l’autore trentino in seguito prematuramente scomparso e che rimane ancora oggi una delle voci più interessanti, valide ed originali della fantascienza e del fantastico italiani, di cui pubblicammo a varie riprese tre racconti e un articolo, poi l’esperto di cinema Teo Mora, e Giorgio Giorgi, un docente dell’università di Pavia che si rivelò un critico lovecraftiano molto competente e che a mio parere per la SF di casa nostra rappresenta anch’egli una potenzialità non adeguatamente utilizzata.
Il n. 5 della nostra pubblicazione fu un secondo “speciale Lovecraft” che conteneva tra l’altro un nuovo saggio inviatoci da Dirk Mosig. Verso la fine del ’79, poi, mettemmo in cantiere il n. 7, uno “speciale heroic fantasy” che aveva come suo “clou” un racconto di Giuseppe Pederiali, a proposito del quale andrebbe fatto un discorso a parte. Negli anni ’70 l’heroic fantasy era ancora un genere relativamente nuovo in Italia, e Giuseppe Pederiali era forse il primo italiano ad ottenere un inaspettato successo con un romanzo di heroic fantasy – Le città del diluvio, pubblicato da Rusconi – che, invece di ricalcare stereotipi anglosassoni, si rifaceva alla nostra storia ed al nostro patrimonio di tradizioni e leggende (una via che più tardi hanno seguito tutti, compreso Umberto Eco con Baudolino), era dunque in quel momento una firma di assoluto prestigio.
Agli inizi del 1980, ritardata dagli studi universitari ma in ultimo inevitabile, arrivò la mia partenza per il servizio militare, e questo segnò praticamente la fine dell’esperienza del “Re in giallo”. Ritornai a casa in licenza in luglio, avevo fatto in modo che essa coincidesse con il periodo del Festival del Film di Fantascienza, che richiamava appassionati ed operatori del settore nella città giuliana, e mi trovai di fronte ad un’amara sorpresa: nei sette mesi della mia assenza, nessuno aveva fatto nulla, sebbene ci fossero solo da portare in tipografia le matrici del n. 7 ormai completo. Lavorando alla disperata, riuscii a far stampare ed impaginare un po’ di copie del numero da distribuire agli operatori per farci, come al solito, un po’ di pubblicità (il lavoro più faticoso e che portava via più tempo, era quello dell’impaginazione). A gennaio ’81, congedato, ebbi un’altra doccia fredda. Una volta ripartito da Trieste per riprendere a dilettarmi con marce e guardie, nulla di nuovo era stato fatto, noi stampavamo “Il re in giallo” alla CLUET, la tipografia dell’università, ebbene, delle copie che avevo fatto frettolosamente fatto stampare a luglio, non ne era stata messa in vendita nessuna, neppure alla libreria CLUET che si trovava a venti metri dalla tipografia.
Ebbi uno scontro durissimo con alcuni elementi della redazione che negli anni precedenti mi avevano reso la vita difficile contestando ogni mia decisione e, all’atto di dimostrare il loro impegno con i fatti, avevano clamorosamente mancato. In pratica, ci fu una scissione. Del nostro gruppo, mi seguirono Eddy Triscoli ed un ragazzo che si era da poco unito a noi, Mario Cerne.
Da questa scissione nacque la breve esperienza di “Terzo Pianeta” che riuscì a concretizzarsi in un solo numero. Bisogna dire che il taglio “weird” de “Il re in giallo” rifletteva più i gusti di Lippi che i miei, ed io pensai di dare vita a qualcosa di più prettamente fantascientifico che, fin dalla testata, si riallacciava alle “storiche” fanzine triestine della prima ora.
Quel fascicolo ebbe comunque almeno due aspetti notevoli: per prima cosa, conteneva un mio racconto, Axolotl, basato su di un frammento di Bertrand Russell che presentai come una “collaborazione postuma” con il filosofo inglese, secondo una prassi allora molto di moda. Lo “scherzo letterario” piacque moltissimo a Lino Aldani che voleva riproporlo pari pari su “Futuro Europa”, poi non lo fece, ma il racconto compare ora nella mia antologia Occhi d’argento. La seconda cosa notevole è rappresentata dalla pubblicazione di E loro impazziranno, il racconto d’esordio di un autore destinato a diventare uno dei più importanti della fantascienza italiana, Donato Altomare, vincitore di due premi Urania, ed anche l’inizio di un’amicizia vera, profonda, di quelle che rimangono per tutta la vita.
L’arrivo del 1982, con la partenza di Mario Cerne per il servizio militare (sempre la naja affossa-fanzine!) e quasi contemporaneamente la necessità di allontanarm0i da Trieste per un certo tempo per motivi di lavoro, segnò la fine anche di quest’esperienza.
Nel complesso, un’esperienza letteraria ed umana che non ho cessato di considerare con nostalgia ma non penso si debba considerare un’esperienza sprecata, che prima di tutto servì non solo a farmi conoscere al milieu fantascientifico, ed a farmi compiere “il salto” dalla narrativa alla saggistica dove forse ho ottenuto i maggiori consensi. La storia de “Il re in giallo” ha in ogni modo una “coda” che vale la pena di segnalare, perché in tempi molto più recenti mi sono trovato a scrivere per “Futuro Europa” una storia del fandom e delle fanzine di quegli anni. Ugo Malaguti mi contestò sulle cifre che fornivo; ad esempio, “SF…ere”, la pubblicazione romana di Gianni Pilo, cui io attribuivo una tiratura di 2.000 copie, ne avrà tirate al massimo quattro o cinquecento e vendute ancora meno (ma questo non era un dato che io mi inventavo, era quello fornitomi da Gianni Pilo all’epoca, se poi quest’uomo fosse uno sbruffone, questa era una cosa che io non potevo sapere).
Ciò che mi rendeva credibile la cifra datami allora da Gianni Pilo era il fatto che il n. 2 del “Re in giallo” aveva tirato complessivamente qualcosa come ottocento copie, ed era andato esaurito; non solo, ma ancora per decenni ho avuto richieste, che ho soddisfatto finché ho potuto assemblando le pagine “di resa” della pubblicazione con fotocopie delle pagine mancanti, sicché la tiratura effettiva totale ha finito per sfiorare e forse raggiungere il migliaio; per di più, “SF…ere” era supportata da un grosso club, l’ANASF, che noi non avevamo.
Al dispetto di aver prestato fede alle sbruffonate di Pilo, si unisce però la soddisfazione di constatare di aver dato vita ad una pubblicazione professionale sotto ogni aspetto, redditività economica a parte, compreso quello della tiratura.
Resta però il sapore irripetibile degli anni giovanili, “quando eravamo re”, appunto.