di Robert F. Young
Roberto Kriscak, musicista e appassionato di fs, che altre volte ha collaborato con noi e con altri siti di fantascienza, ci invia oggi questa straordinaria chicca. F.G.
Due parole di presentazione su questo classico ritrovato della fantascienza e sul perché di questa presentazione. È con un certo orgoglio che vi presentiamo questa prima edizione assoluta per l’Italia.
Robert Franklin Young è un grande scrittore del quale non ci si è quasi accorti quando era in vita (1915–1986). Eppure ha scritto storie bellissime (soprattutto racconti), vere e proprie favole moderne, dense di poesia con uno stile originale e personale. Scrisse questa struggente e malinconica storia d’amore nel 1961, per il “Saturday Evening Post” un giornale americano molto popolare e di grande diffusione che pubblicava articoli, foto e narrativa di ogni genere.
È il racconto di una “prova d’amore” che passa attraverso uno dei temi classici della FS – Il viaggio nel tempo. Semplice e lineare eppure denso e carico di emozioni. Qualche storico si accorse di questo racconto: in Francia per esempio Jacques Sadoul e Judith Merrill che inclusero “Dandelion Girl” nell’antologia del 1963 che radunava i migliori racconti dell’anno. Letteralmente il titolo si tradurrebbe “La Ragazza del Dente di leone“, bello ma con qualche assonanza fantasy, per cui abbiamo optato per “La Ragazza che venne dal futuro“.
In Francia invece sono andati su “La Fille aux cheveux d’or” – la ragazza dai capelli d’oro. In Italia nessuno tra i curatori di antologie e riviste ha mai preso in considerazione questo racconto (chissà forse c’era qualche problema di diritti editoriali). Poi non se ne parlò più, eppure la storia aveva tutto per essere apprezzata da un grande pubblico e per poter anche ispirare un film, e trattava un tema che era di decenni in anticipo di cose come “La Moglie del Viaggiatore del Tempo“, grande bestseller di Audrey Niffenegger.
Poi nel 2000 una ristampa online da parte della sempre attenta curatrice americana Ellen Datlow su “Sci-Fi” e poi un manga giapponese che si ispira al racconto.
“The Dandelion Girl” influenza Yutaka Izubuchi nella produzione della serie di “anime” RahXephon. La frase ripetuta “…L’altro ieri ho visto un coniglio, ieri ho visto un cervo ed oggi ho visto te…” è al centro del storia narrata nella “visual novel” Clannad, che è l’adattamento all’interno di questa serie. Il soggetto e la frase vengono anche riprese nel video game Portal 2, una sorta di puzzle soggettivo a tema. Inizia ad espandersi su Internet la curiosità per questo racconto che in Giappone viene votato da una giuria popolare come uno dei dieci migliori racconti di sempre della Fantascienza (nella rivista “SF Hayakawa”). In Francia viene pubblicato per la prima volta sulla rivista Lunatique nell’aprile del 2008 ed ottiene un grande successo di pubblico.
Il noto critico americano di “Tangent” (la più autorevole rivista di critica di narrativa breve USA) Dave Truesdale ha scritto :”…tutto quello che so è che, nonostante io abbia letto altre belle storie d’amore in questo genere, questa mi ha dato davvero un’emozione personale, una connessione unica, non chiedetemi perché….”.
Roberto Kriscak
* * *
La ragazza sulla collina fece venire in mente a Mark il ritratto fotografico di Edna St. Vincent Millay. Forse era così per il modo in cui lei se ne stava lì, nel sole del pomeriggio, con i capelli dorati del colore di un Dente di leone e danzavano nel vento; forse era così per il modo in cui quel suo vecchio abito bianco le vorticava intorno alle gambe, lunghe e slanciate. In ogni caso, ebbe la netta impressione che lei fosse in qualche modo sbucata fuori dal passato fino al presente, ed era strano, perché, per come erano andate le cose, non era venuta dal passato ma dal futuro.
* * *
Lui si fermò dietro di lei a una certa distanza, ansimando per la salita. La ragazza non si era ancora accorta di lui, che si chiese come fare per annunciarle la sua presenza, in modo da non allarmarla. Cercando di recuperare i suoi pensieri, Mark estrasse la pipa, la riempì e l’accese, ponendo le mani a coppa per proteggere il fornello e sbuffando fino a che il tabacco non fu incandescente.
Quando lui alla fine sollevò lo sguardo, lei si era voltata e lo guardava con curiosità.
L’uomo si diresse lentamente verso la ragazza, profondamente consapevole della vicinanza del cielo, godendo della sensazione del vento sul viso. Si disse che doveva fare più spesso queste escursioni a piedi. Aveva vagabondato per i boschi arrivando infine sulla collina e ora i boschi lo circondavano completamente, mentre bruciavano delicatamente con i primi fuochi pallidi dell’autunno. Al di là dei boschi c’era il laghetto con il suo piccolo molo per la pesca e una piccola capanna.
Quando sua moglie era stata inaspettatamente convocata per far parte della giuria di un processo, lui era stato costretto a trascorrere da solo le due settimane che aveva preso di ferie per la sua consueta vacanza estiva. In questo periodo lui aveva condotto un’esistenza solitaria; di giorno pesca al largo del molo e durante le fresche serate si dedicava alla lettura, seduto di fronte al grande camino del soggiorno, con le travi a vista. Dopo due giorni di tale routine, si era infine diretto per i boschi senza scopo o direzione e, alla fine, era arrivato sulla collina, l’aveva scalata e aveva visto la ragazza.
Quando le giunse vicino notò che aveva gli occhi azzurri, come il cielo che incorniciava la sua silhouette slanciata. Il viso era giovane, di forma ovale, dolce e morbido. Evocava un dejà vu in modo tanto struggente che dovette resistere all’impulso di toccarle la guancia, già baciata dal vento. La sua mano era stata ferma lungo il fianco, ma lui sentiva il formicolio nelle dita.
Accidenti, pensò stupito, io ho quarantaquattro anni e lei ne avrà poco più di venti. Che cosa mi è preso, per la miseria?
“Ti piace il panorama?” chiese lui a voce alta.
“Oh, sì,” disse lei, si voltò e fece scivolare il braccio a semicerchio soddisfatta. “Ma non è meraviglioso?”
Lui seguì il suo sguardo. “Sì,” rispose, “lo è”.
Sotto di loro ricominciavano i boschi e poi si espandevano sulla pianura con i caldi colori di settembre, abbracciando un piccolo borgo a diverse miglia di distanza, inchinandosi infine davanti ai primi avamposti della frontiera suburbana. In lontananza, la foschia aveva ammorbidito la sagoma dentellata di Cove City, conferendole l’aspetto di un castello medievale tentacolare, facendo in modo che sembrasse un po’ meno realtà e più un sogno.
“Anche tu vieni dalla città?” chiese lui.
“In un certo senso sì”, disse e gli sorrise. “Io sono della Cove City di duecento e quaranta anni da oggi.”
Il suo sorriso gli disse che lei non si aspettava veramente che le credesse, ma implicava che sarebbe stato bello se lui avesse fatto finta. L’uomo sorrise di nuovo. “Sarebbe l’anno 2201, vero?”, disse. “Immagino che la città si sia ingrandita enormemente.”
“Oh, proprio,” disse lei. “Fa parte di una megalopoli che ora si estende fino a lì.” Indicò i margini del bosco sotto di loro. “La Duemila e Quarantesima Strada corre dritto attraverso quel boschetto di aceri da zucchero”, proseguì, “e vedi quello sciame di locuste laggiù?”
“Sì”, disse, “lo vedo”.
“Lì è dove c’è la nuova piazza. Il supermercato è così grande che ci vuole mezza giornata per attraversarlo, e lì ci si può comprare quasi tutto dalle aspirine alle aereomacchine. E accanto al supermercato, dove si trova quel bosco di faggi, c’è un grande negozio di abbigliamento di tendenza con le ultime creazioni degli stilisti più importanti. Questa stessa mattina ho comprato il vestito che ho adesso. Non è bellissimo?”
Se quel vestito era bellissimo, era perché lei l’aveva reso così indossandolo. Tuttavia, educatamente, lui lo osservò. Era stato tagliato da un materiale di cui lui non aveva conoscenza, un materiale apparentemente composto di zucchero filato, schiuma di mare e neve. Non c’era più alcun limite alle sintesi che potevano creare i miracolosi produttori di fibre né, a quanto pareva, ai racconti inverosimili che venivano sbolognati dalle ragazze giovani. “Suppongo che tu sia arrivata con una macchina del tempo”, disse.
“Sì. Mio padre ne ha inventata una.”
Lui la guardò più da vicino. Non aveva mai visto un volto così innocente. “E vieni qui spesso?”
“Oh, sì. Questa è la mia coordinata spaziotempo preferita. Io sto qui per ore, a volte a guardare e guardare e guardare. L’ altro ieri ho visto un coniglio, e ieri un cervo, e oggi ho visto te. “
“Ma come ci può essere uno ieri,” Chiese Mark, “se tu ritorni sempre allo stesso punto nel tempo?”
“Ah, capisco cosa vuoi dire”, sorrise. “Questo perché la macchina è influenzata dal passaggio del tempo come qualsiasi altra cosa, ed è necessario impostarla ogni ventiquattro ore, se si desidera mantenere esattamente le stesse coordinate. Io non lo faccio, perché preferisco di gran lunga tornare ogni volta in un giorno diverso.”
“Tuo padre non è mai venuto con te?”
Prima di rispondere lei guardò per qualche momento un gruppo di oche che stava andando alla deriva pigramente, più in là. “Mio padre è un invalido”, disse finalmente. “Gli piacerebbe molto venire, ma non può. Però io gli racconto tutto quello che vedo,” aggiunse in fretta, “ed è come se lui fosse venuto davvero. Non ti sembra?”
C’era un’impazienza nel modo in cui lei lo stava guardando che gli toccò cuore. “Sono certo che sia così” disse lui e aggiunse: “Deve essere meraviglioso possedere una macchina del tempo”.
Lei annuì solennemente. “Sono una manna per chi ama stare in prati accoglienti. Nel ventitreesimo secolo non ci sono più tanti prati accoglienti.”
Lui sorrise. “Non ce sono più moltissimi nemmeno nel ventesimo secolo. Credo che si potrebbe dire che sono diventati una specie di oggetto per collezionisti. Dovrò visitarli più spesso.”
“Vivi qui vicino?” chiese.
“Io sto in una capanna a circa tre miglia laggiù. Dovrei essere in vacanza, ma non è proprio il massimo. Hanno chiamato mia moglie a fare il giurato, per cui non ha potuto venire con me. Io non potevo rimandare, così sono diventato una specie di scontroso eremita alla Thoreau. Mi chiamo Mark Randolph. “
“E io Julie,” ha detto. “Julie Danvers”.
Il nome le si addiceva. Allo stesso modo in cui l’abito bianco era giusto per lei, così come l’azzurro del cielo le si addiceva e la collina e il vento di settembre. Probabilmente viveva nel piccolo rifugio nel bosco, ma non importava. Se lei voleva far finta di venire dal futuro, a lui andava bene. Tutto ciò che gli importava davvero era ciò che aveva provato quando l’aveva vista per la prima volta, la tenerezza che lo coglieva ogni volta che le guardava il viso dolcissimo. “Che tipo di lavoro fai, Julie?” Chiese. “O vai ancora a scuola?”
“Sto studiando per diventare segretaria”, disse. La ragazza fece mezzo passo e una bella piroetta, congiungendo le mani davanti a sé. “Desidero davvero diventare segretaria,” proseguì. “Deve essere una cosa meravigliosa lavorare in un grande ufficio e fare ciò che ti chiedono le persone importanti. Vuoi che io sia la tua segretaria, signor Randolph? “
“Mi piacerebbe molto”, disse. “Un tempo, prima della guerra, mia moglie mi ha fatto da segretaria. È così che ci siamo incontrati.” Perché mai glielo aveva raccontato? si chiese.
“Era brava come segretaria?”
“La migliore. Quando se ne andò fui molto dispiaciuto, ma se si può dire di averla in qualche modo persa, la riguadagnai in un altro senso, quindi credo di non potermi lamentare troppo”.
“No, non credo nemmeno io. Beh, ora devo tornare, signor Randolph. Papà vorrà sapere di tutte le cose che ho visto, e devo anche preparare la sua cena.”
“Sarai qui domani?”
“Probabilmente. Vengo qui ogni giorno. Addio per il momento, signor Randolph. “
“Addio, Julie,” dissi.
* * *
La guardò correre leggera giù per la collina e scomparire nel boschetto di aceri da zucchero, dove, duecentoquaranta anni dopo, ci sarebbe stata la Duemila Quarantesima Strada. Sorrise.
Che fanciulla affascinante, pensò.
Deve essere emozionante avere una così irresistibile “sensazione di meraviglia”, un tale entusiasmo per la vita. Avrebbe voluto apprezzare entrambe queste due qualità tanto più pienamente, perché a lui erano state sempre negate.
A vent’anni era stato un uomo giovane e serioso che lavorava sodo per farsi strada nella Facoltà di Legge, a ventiquattro si era guadagnato un posto da praticante in uno Studio Legale e, per quanto fosse stato banale, quell’impiego lo aveva occupato completamente per tutto il tempo; beh, non proprio tutto il tempo.
C’era stato un periodo breve, quando aveva sposato Anne, in cui la vita aveva perso parte della sua urgenza. E poi, quando era arrivata la guerra era arrivato un altro periodo, molto più lungo questa volta, nel quale guadagnarsi da vivere era parso un imperativo inevitabile e talvolta persino sgradevole.
Dopo il ritorno alla vita civile, però l’urgenza era tornata con una maggiore intensità, tanto più che adesso aveva da mantenere un figlio e la moglie, quindi non ebbe mai più del tempo veramente libero, tranne per le quattro settimane di vacanza che alla fine era riuscito a concedersi una volta all’anno. Due settimane venivano trascorse con Anne e Jeff in una località di loro scelta e due passate con Anne nella baracca in riva al lago, quando Jeff andava al College. Quest’anno, però, aveva dovuto trascorrere queste due settimane da solo. Beh, forse non del tutto da solo.
La sua pipa si era spenta da un po’ e lui non se n’era nemmeno accorto. La riaccese, aspirando profondamente per contrastare il vento, poi discese la collina e tornò nel bosco verso la capanna. L’equinozio d’autunno era già passato e le giornate diventavano sensibilmente più brevi. Il giorno se ne era quasi andato e l’umidità della sera già pervadeva l’aria.
Camminava lentamente e quando raggiunse il lago il sole era già tramontato. Il lago era piccolo, ma profondo, e gli alberi giungevano fino alla riva. La capanna era un po’ più indietro rispetto alla riva, in mezzo a un boschetto di pini e c’era un sentiero tortuoso che la collegava al molo.
Lì dietro, un vialetto di ghiaia conduceva a una strada sterrata che poi dava accesso alla strada statale. La sua station wagon era parcheggiata accanto alla porta sul retro, pronta a riportarlo in un attimo verso la civiltà.
Preparò una cena semplice e la consumò in cucina, poi si spostò a leggere in salotto. Il generatore ronzava dentro e fuori, ma per il resto la serata era stata appena disturbata dai soliti rumori della vita moderna.
Dalla libreria ben fornita che stava nei pressi del camino scelse un’antologia di poesia americana. Si sedette e sfogliò “Pomeriggio su una collina.”
Aveva letto quei versi preziosi ben tre volte, e ogni volta vedeva Lei distesa sotto il sole, la danza dei suoi capelli al vento, il suo abito che si agitava come neve leggera intorno alle gambe lunghe e snelle e gli venne un groppo in gola senza riuscire a deglutire.
Rimise il libro sulla mensola della libreria e uscì. Si fermò sotto il portico rustico e riempì e accese la pipa.
Si costrinse a pensare ad Anne, e subito focalizzò l’immagine del suo viso: il mento sottile e delicato, gli occhi caldi e compassionevoli che nascondevano uno strano abbozzo di paura che lui non era mai stato in grado di analizzare, le guance morbide, il sorriso dolce.
Tali attributi rendevano ancora più interessante il ricordo dei suoi capelli castano chiari che vibravano, il suo portamento flessuoso pieno di grazia. Era sempre stato così se pensava a lei e lui ne era ammaliato, senza mai curarsi del tempo che passava, meravigliandosi di come nel corso degli anni lei era sempre rimasta bella, come in quella lontana mattina in cui per la prima volta l’aveva guardata, sorpreso e l’aveva vista in piedi, timida, di fronte alla sua scrivania.
Era inconcepibile che solo vent’anni dopo, lui avrebbe potuto pensare con desiderio a un appuntamento con una ragazza troppo piena di fantasia, una ragazza così giovane che avrebbe potuto per essere sua figlia.
Ma insomma non era proprio così: era stato solo momentaneamente turbato. Niente di più. Per un attimo il suo equilibrio emotivo lo aveva abbandonato, e lui aveva tentennato.
Ora la testa era nuovamente sulle spalle e il mondo si era risistemato nella sua orbita logica e regolare.
Batté la pipa a terra e tornò dentro. Nella camera da letto si spogliò, si infilò tra le lenzuola e spense la luce.
Il sonno avrebbe dovuto venire facilmente, ma non fu così, e quando finalmente venne, fu in frammenti intervallati da sogni eccitati.
L’altro ieri ho visto un coniglio, aveva detto, ieri un cervo, e oggi, ho visto te.
* * *
Al secondo pomeriggio lei indossava un vestito blu e un nastrino blu che le raccoglieva i capelli colore del fiore di Dente di leone.
Lui affrontò la salita e si fermò solo un attimo per riprendere un po’ di fiato, quindi ripartì, si avvicinò e si fermò accanto a lei nel vento.
Aveva ancora la schiena piegata dalla fatica quando poté osservare la morbida curva del collo e del mento della fanciulla. Poi lei si voltò e disse: “Ciao, non pensavo che saresti venuto,” e lui non fu subito in grado di rispondere.
“Invece sono venuto”, disse dopo un po’, “e così hai fatto anche tu.”
“Sì”, rispose lei. “Sono contenta”.
Lì vicino un masso di granito formava una specie di panchina, dove si sedettero guardandosi attorno. L’uomo riempì la pipa, l’accese e soffiò il fumo nel vento.
“Anche mio padre fuma la pipa”, disse lei , “e quando l’accende mette le mani a coppa nello stesso modo che fai tu, anche se non c’è vento. Tu e lui siete uguali in molti sensi.”
“Ok, per tuo padre”, lui disse. “Ma raccontami di te.”
E lei lo fece: disse di avere ventun anni, che suo padre era un Esperto di Fisica che lavorava per lo Stato, ma ora era in pensione. Gli disse che vivevano in un piccolo appartamento sulla Duemila Quarantesima Strada e lei si occupava della casa e del padre, da quando sua madre era morta quattro anni prima.
A quel punto l’uomo le raccontò di sé e di Anne e di Jeff, del fatto che un giorno avrebbe preso Jeff in società con sé, le disse della fobia di Anne per le macchine fotografiche e di come si fosse rifiutata di farsi fotografare anche nel giorno del matrimonio. Il rifiuto era proseguito anche nell’ultimo viaggio della scorsa estate, fatto in campeggio.
Alla fine, lei disse: “Che meravigliosa vita di famiglia. Il 1961 deve essere un anno meraviglioso in cui vivere!”
“Con una macchina del tempo a disposizione, tu puoi venire qui ogni volta che vuoi.”
“Non è così semplice. Anche a prescindere dal fatto che non mi sognerei mai di abbandonare mio padre, poi c’è la Polizia Temporale da tener d’occhio. Vedi, il viaggio nel tempo è limitato ai membri di spedizioni storiche sponsorizzate dal Governo ed è interdetto al pubblico.”
“Mi sembra però che tu te la stia cavando bene.”
“Questo perché mio padre ha inventato e costruito la sua macchina e la Polizia Temporale non lo sa.”
“Ma allora infrangi la legge.”
Lei annuì. “Ma solo ai loro occhi, solo se consideri il loro concetto di tempo. Mio padre ha un concetto del tutto diverso.”
Era stato così piacevole sentirla parlare, che non gli importava nulla dell’argomento e gli piaceva che lei divagasse, non importa quanto inverosimile fosse il soggetto. “Raccontami”, disse.
“Prima ti dirò qual è il pensiero ufficiale. Secondo i sostenitori nessuno del futuro dovrebbe partecipare fisicamente a un evento che si è verificato nel passato, perché la sua presenza costituirebbe da solo un paradosso. Gli eventi futuri verrebbero modificati in modo tale che il paradosso possa attuarsi. Di conseguenza, il Dipartimento del Viaggio nel Tempo fa in modo che solo il personale autorizzato abbia accesso alle sue macchine del tempo e mantiene una forza di polizia che può arrestare gli aspiranti viaggiatori che desiderino una vita più semplice e che non smettano di provarci. Costoro si travestono da storici, per poter abitare definitivamente in una certa epoca.
“Invece, secondo il concetto di mio padre, il libro del tempo è già stato scritto. Secondo lui, dal punto di vista macrocosmico, tutto ciò che sta per accadere è già accaduto. Pertanto, se una persona dal futuro partecipa a un evento passato, diventa parte di tale evento per la semplice ragione che ne faceva già parte fin dall’inizio e quindi non può nascere alcun paradosso.”
Mark diede una lunga boccata dalla pipa. Ne aveva bisogno. “Tuo padre sembra una persona piuttosto notevole”, disse.
“Oh, lo è!” L’entusiasmo accentuò il colore rosa delle guance e illuminò l’azzurro dei suoi occhi. “Non puoi immaginare quanti libri ha letto, signor Randolph. Il nostro appartamento ne è stracolmo! Hegel e Kant e Hume; Einstein e Newton e Weizsäcker. ne ho letti alcuni pure io: da sola.”
“Ho raccolto tanto. Per questo dunque io possiedo”
Lo guardò rapita. “Che meraviglia, signor Randolph,” disse. “Scommetto che abbiamo così tanti interessi in comune!”
La conversazione che ne seguì dimostrò che ne avevano infatti molti, anche se pensò allora che l’estetica trascendentale, il Berkeleianesimo e la Relatività fossero argomenti piuttosto incongrui da discutere per un uomo di mezza età e una ragazza su una collina a settembre: un uomo di 44 anni ed una ragazza di ventuno.
Ma c’erano anche dei vantaggi. La loro animata discussione sull’estetica trascendentale aveva dato conclusioni più a priori che a posteriori; aveva suscitato microcosmiche stelle negli occhi della ragazza e la loro ripartizione di Berkeley aveva ottenuto vari punti di contatto, malgrado la debolezza della teoria del buon vescovo. Alla fine era ancora più evidente il pallore delle guance di lei.
La loro revisione della Teoria della Relatività aveva certamente dimostrato che E è uguale a mc al quadrato, ma aveva anche dimostrato che, lungi dall’essere un ostacolo, la conoscenza è una risorsa che aumenta il fascino femminile.
Quel suo stato d’animo momentaneo permaneva più a lungo di quanto avrebbe dovuto e quando se ne andò a letto non era scomparso.
Questa volta non tentò nemmeno di pensare ad Anne: sapeva di non aver fatto una cosa buona. Sicché giacque al buio dando spazio a qualsiasi pensiero casuale gli arrivasse, ma tutti riguardavano una collina in settembre e una ragazza con i capelli color del fiore di Dente di leone
L’altro ieri ho visto un coniglio,
e ieri un cervo,
e oggi, ho visto te.
* * *
La mattina dopo egli si recò verso il borgo, all’ufficio postale, per vedere se avesse ricevuto della posta. Non c’era nulla. Non rimase sorpreso. Jeff non amava scrivere lettere e probabilmente Anne, al momento era impegnatissima. Per quanto riguardava il suo Studio Legale, aveva dato incarico alla segretaria di non disturbarlo a meno di questioni della più assoluta urgenza.
Valutò anche se fosse opportuno chiedere all’impiegato postale incartapecorito se ci fosse una famiglia di nome Danvers che viveva nella zona. Decise di non farlo. Sarebbe stato come minare la struttura dell’elaborata finzione che Julie aveva costruito e anche se non credeva nella validità di quella struttura, non riusciva a trovare nel suo cuore un motivo per buttarla all’aria.
* * *
Quel pomeriggio indossava un vestito giallo della stessa tonalità dei suoi capelli, e quando la vide gli si serrò di nuovo la gola, non riuscendo più a parlare.
Ma quando passò quel piccolo imbarazzo momentaneo e gli vennero le parole, tutto andò bene. I loro pensieri confluivano effervescenti come due ruscelli e lui nel pomeriggio corse allegro in quel torrente. Quando si separarono questa volta fu lei a chiedere: “Hai voglia di essere qui domani?”
La domanda era uscita dalle sue labbra quasi in fretta, ma quelle parole cantarono nelle orecchie dell’uomo lungo tutta la strada di ritorno, attraverso il bosco fino alla capanna e durante la sera trascorsa con la pipa sotto il portico; infine lo cullarono fino a quando si addormentò.
Il pomeriggio successivo, quando risalì la collina non trovò nessuno. In un primo momento la sua delusione lo stordì, ma poi pensò, lei è solo in ritardo, è tutto qui. Probabilmente apparirà da un momento all’altro. E si sedette sulla panchina di granito ad aspettare.
Ma lei non venne. I minuti passavano ed anche le ore. Le ombre strisciarono fuori dal bosco e si inerpicarono su per la collina . L’aria divenne sempre più fredda. Lui rinunciò infine, e si diresse mestamente verso la sua capanna.
La ragazza non si fece vedere neanche il pomeriggio seguente. E nemmeno quello dopo. Lui non riusciva più né a mangiare né a dormire. Andava a pescare e diventava pallido. Non riusciva più a leggere. Da quel momento aveva cominciato a odiare se stesso, perché si comportava come uno scolaretto innamorato, per aver reagito come un qualsiasi sciocco quarantenne davanti a un bel viso e un paio di belle gambe.
Fino a pochi giorni prima non aveva mai guardato troppo un’altra donna, e invece, nello spazio di neanche una settimana, ne aveva guardata una, altro che, e anzi se ne era addirittura innamorato!
Ormai non aveva più nessuna speranza quando risalì la collina il quarto giorno, ma improvvisamente si ravvivò perché la vide in piedi sotto il sole.
Questa volta la ragazza indossava un abito nero e per questo, lui avrebbe dovuto indovinare il motivo della sua assenza, ma non fu così: non fino a quando le fu vicino e vide le lacrime nei suoi occhi e le labbra che le tremavano. “Julie, che è successo?”
Lei si aggrappò a lui, scuotendo le spalle e premendo il viso contro il suo cappotto. “Mio padre è morto”, disse, e in qualche modo lui capì che queste erano le sue prime lacrime, che aveva trascorso tutta la veglia e il funerale seduta senza piangere e non era ancora scoppiata in lacrime fino ad allora.
Le mise le braccia attorno alle spalle con dolcezza. Non l’aveva mai baciata e non la baciò allora, non proprio. Le sue labbra le sfiorarono la fronte e brevemente le toccò i capelli, niente più di questo. “Mi dispiace, Julie,” disse. “So quanto lui fosse importante per te.”
“Lui ha sempre saputo per tutto questo tempo che stava morendo” disse. “Deve averlo saputo fin da quando è stato contaminato dallo Stronzio 90 in certi esperimenti di laboratorio. Ma non l’aveva mai detto a nessuno, nemmeno a me… Non voglio vivere. Senza di lui non c’è più niente per cui vivere, niente, niente, niente! “
L’uomo la tenne stretta. “Troverai qualcosa, Julie. Qualcuno. Sei ancora giovane. Sei ancora una bambina, è così.”
La ragazza fece uno scatto indietro con la testa e alzò improvvisamente gli occhi verso di lui, completamente asciutti. “Io non sono una bambina! Non ti azzardare a chiamarmi una bambina!”
Sorpreso, la lasciò andare e fece un passo indietro. Prima non l’aveva mai vista arrabbiata. “Non intendevo…” ma si interruppe.
La rabbia nei suoi occhi svanì presto, così come era stata improvvisa. “So che non volevi ferire i miei sentimenti, signor Randolph. Ma io non sono una bambina, proprio no. Promettimi che non mi chiamerai mai un’altra volta in quel modo.”
“Va bene,” disse. “Te lo prometto”.
“Ma ora debbo andare”, disse. “Ho mille cose da fare.”
“Ci sarai domani?”
Lei lo guardò per un lungo momento. La nebbia, come dopo un acquazzone estivo, fece brillare i suoi occhi azzurri. “La Macchina del tempo si sta guastando,” disse. “Ha bisogno di alcuni ricambi e alcuni pezzi devono essere sostituiti, ma io non so bene come fare. La macchina potrebbe funzionare forse solo per un viaggio ancora, ma non ne sono sicura.”
“Cercherai di tornare, però!”
Lei annuì. “Sì, credo di sì. E, signor Randolph? “
“Sì, Julie?”
“Nel caso non l’avessi capito, e per la cronaca, ti amo”.
* * *
Se ne era andata quindi, correndo leggera giù dalla collina e un attimo dopo scomparve nel boschetto di aceri da zucchero.
A lui tremavano le mani quando accese la pipa, e il fiammifero quasi gli bruciò le dita. Inoltre non riusciva a pensare di dover tornare alla sua capanna, preparare cena e andare a letto. A ogni modo, probabilmente riuscì a fare tutte queste cose, perché si risvegliò nella sua stanza e quando andò in cucina vide che c’erano dei piatti sporchi impilati accanto al lavello .
Lavò i piatti e preparò il caffè. Trascorse la mattinata a pescare al largo della banchina, mantenendo la testa vuota. Avrebbe dovuto prima o poi affrontare la realtà. Ma in quel momento gli bastava sapere che lei lo amava e che tra poche ore l’avrebbe rivista ancora. Sicuramente anche una macchina del tempo un po’ scassata non avrebbe dovuto avere problemi a trasportarla di nuovo dal borgo alla collina.
Quel giorno lui arrivò prima del solito e si sedette sulla pseudo panchina di granito e aspettò che lei uscisse dal bosco per risalire il pendio. Poteva sentire il martellare del cuore e sapeva che le mani gli tremavano.
L’altro ieri ho visto un coniglio,
e ieri un cervo,
e oggi, ho visto te.
Attese parecchio, ma lei non venne. Così nemmeno il giorno dopo.
Quando le ombre cominciarono ad allungarsi e l’aria a si fece più fredda, l’uomo scese dalla collina ed entrò nel boschetto di aceri da zucchero. Aveva trovato un sentiero e lo seguì nella foresta, attraversò il bosco fino al borgo. Si fermò presso il piccolo ufficio postale e controllò per vedere se c’era della posta. L’avvizzito impiegato gli disse che non c’era nulla. Indugiò per un attimo. “C’è per caso una famiglia di nome Danvers che vive qui attorno” chiese.
L’impiegato scosse la testa. “Mai sentiti.”
“C’è stato un funerale in città di recente?
“Non da quasi su un anno.”
Dopo di allora, anche se aveva visitato la collina ogni pomeriggio fino al termine della vacanza, seppe in cuor suo che la ragazza non sarebbe più tornata e che tutto era perduto: come se non fosse mai esistita. Trascorse le ultime serate gironzolando ossessivamente per il borgo, sperando assurdamente che l’impiegato postale si fosse sbagliato, ma non vide alcun segno di Julie e la descrizione che fornì ai passanti ottenne solo risposte negative.
* * *
All’inizio di ottobre tornò in città. Fece del suo meglio per fingere con Anne, come se nulla fosse cambiato tra loro, ma lei che lo conosceva bene, appena lo vide sembrò accorgersi subito che qualcosa era cambiato.
La donna non gli aveva mai chiesto nulla, ma lui vide che col passare del tempo Anne era sempre più distante e silenziosa. Quel cenno di paura che lei aveva sempre mostrato e che lo aveva sempre sconcertato, si fece via via più evidente.
Nei pomeriggi di domenica lui iniziò a visitare la collina in macchina. Ora i boschi erano dorati e il cielo era anche più azzurro di quanto fosse stato un mese fa. Lui stava seduto Per ore sulla pseudo panchina di granito e fissava il punto in cui quella ragazza era scomparsa.
L’altro ieri ho visto un coniglio,
e ieri un cervo,
e oggi, ho visto te.
Fu in una notte di pioggia di metà novembre quando lui trovò la valigia. Era la valigia di Anne e la trovò quasi per caso. Lei era andata in città a giocare a bingo e lui era tutto solo in casa. Dopo aver passato due ore a guardare degli squallidissimi programmi in TV, si ricordò dei puzzle che aveva messo via l’inverno prima.
Alla disperata ricerca di qualcosa, qualunque cosa pur di distrarsi dal ricordo di Julie, salì in soffitta a cercare un puzzle. La valigia cadde da uno scaffale mentre stava frugando tra le varie tessere del puzzle ammucchiate lì vicino e si aprì completamente quando colpì il pavimento.
Si chinò per raccoglierla. Era la stessa valigia che Anne aveva portato con sé nel piccolo appartamento che avevano affittato dopo il loro matrimonio e si ricordò di come lei l’avesse sempre tenuta chiusa a chiave. Si ricordò anche che lei ridendo gli diceva c’erano cose che una moglie doveva tenere segrete perfino al marito. Adesso, nel corso degli anni, la serratura si era arrugginita e la caduta l’aveva rotta.
Decise di chiudere la valigia, ma a un certo punto vide sporgere l’orlo di un abito bianco. Il tessuto gli era vagamente familiare. Aveva visto un tessuto di fibra simile a questo non molto tempo fa, una fibra che sembrava zucchero filato, schiuma di mare e neve.
Alzò il coperchio della valigia e prese l’abito tra le dita tremanti. Lo tenne per le spalle e lasciò che si dispiegasse. Poi lo appese e gli sembrò fosse come neve che cadeva dolcemente. Lo guardò a lungo e gli si strinse la gola. Poi, teneramente, lo ripiegò e lo rimise in valigia: chiuse tutto. Ripose la valigia nello spazio apposito vicino al soffitto.
L’altro ieri ho visto un coniglio,
e ieri un cervo,
e oggi, ho visto te.
La pioggia picchiettava sul tetto. La stretta alla gola era così forte, ora, che pensò per un momento di dover piangere. Lentamente scese le scale della soffitta. Poi la scala a chiocciola e andò in soggiorno.
L’orologio sulla mensola del camino segnava le 10:14. Tra pochi minuti l’autobus del bingo si sarebbe fermato fuori all’angolo della strada e lei sarebbe arrivata passeggiando fino alla porta d’ingresso. Anne sarebbe … Julie sarebbe. Julianne?
Era questo il suo nome completo? Probabilmente.
Le persone hanno sempre mantenuto i nomi originali almeno in parte nel momento in cui volevano adottare delle identità false e dopo aver completamente modificato il cognome, hanno probabilmente deciso di potersi prendere qualche libertà con il nome di battesimo.
Lei probabilmente doveva aver fatto chissà cosa, oltre a cambiare il nome, pur di eludere la Polizia del Tempo. Non c’era da stupirsi se non aveva mai voluto farsi fotografare! E chissà quanto era terrorizzata in quel lontano giorno in cui era entrata timidamente nel suo ufficio per chiedere un posto di lavoro!
Tutta sola in un’epoca strana, senza avere la certezza che il concetto di tempo di suo padre fosse davvero giusto, e magari non lo era! Non sapendo con certezza se l’uomo che l’aveva amata da quarantenne, avrebbe sentito il medesimo sentimento a vent’anni. Lei era riuscita a portare a termine l’ultimo viaggio nel tempo e aveva messo tutto a posto, proprio come aveva promesso di fare.
Venti anni, pensò con stupore e nel frattempo lei doveva sempre aver saputo che un giorno io avrei scalato una collina a settembre e l’avrei vista lì in piedi, giovane e bella, al sole, e mi sarei innamorato ancora di lei. Doveva saperlo, perché quel momento era anche una parte del suo passato come era una parte del mio futuro. Ma perché non me l’aveva mai detto? Perché non me lo dice ora?
Improvvisamente lui capì..
Gli fu molto difficile respirare, andò nell’ingresso, indossò l’impermeabile e uscì sotto la pioggia. Camminava lungo il marciapiede sotto la pioggia e la pioggia gli bersagliava il volto, gli faceva scorrere molte gocce giù per le guance. Alcune gocce erano di pioggia e alcune invece erano lacrime.
Come può, una donna di una bellezza senza età come Anne (o Julie), avere paura di invecchiare? Non si rendeva conto che ai suoi occhi non avrebbe mai potuto invecchiare, che per lui non era più invecchiata da quell’istante di quel giorno in cui aveva alzato lo sguardo dalla sua scrivania e l’aveva vista lì in piedi nel piccolo ufficio e si era perdutamente innamorato di lei? Non capiva che era per questo motivo che la ragazza sulla collina a lui era sembrata un’estranea?
Aveva raggiunto la strada e ora marciava verso l’angolo. Era quasi lì quando giunse l’autobus e ne uscì la ragazza con il trench bianco. La stretta in gola gli divenne acuta come un coltello affilato e non riusciva più a respirare. I capelli dorati come il fiore di Dente di leone si erano fatti un po’ più scuri, il fascino da ragazza era un po’ passato, ma la sua bellezza delicata non aveva mai lasciato il viso dolce. Alla luce pallida dei lampioni di novembre, le gambe lunghe e sottili avevano una grazia e una simmetria comunque diversa dalla luminosità dorata del sole di settembre.
Lei gli si fece incontro e lui le scorse quella piccola paura negli occhi, una paura intensa e commovente, perché ora lui ne capiva la causa. La vista di Mark si offuscò e camminò verso di lei senza vedere altro. Quando le si avvicinò, gli occhi della donna si schiarirono, lui allungò una mano come per attraversare un fiume che scorreva lungo gli anni: le toccò la guancia bagnata di pioggia. Così lei seppe che era tutto a posto e quella sua paura andò via per sempre. E camminarono mano nella mano sotto alla pioggia.