In copertina, The Lovers di Philip Jose Farmer, illustrazione di Jim Burns
Abbiamo dunque recuperato una parte della famosa “Guida” di Fabio Calabrese, pubblicando, o prevedendo la pubblicazione di diverse parti recuperate.
Gli anni ’50 portarono a una svolta radicale che rifletteva i drastici cambiamenti intervenuti con il secondo conflitto mondiale.
I temi dominanti in questo periodo furono quelli di possibili conflitti nucleari, spesso scatenati per errore, dell’allucinante mondo dei sopravvissuti a un olocausto atomico, e più in generale della fantascienza sociologica o a sfondo sociale.
Anche la vecchia Europa faceva sentire la sua voce carica di pessimismo con le utopie negative 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley.
La rivista che si affermò maggiormente, e maggiormente rappresentativa di queste tendenze, fu “Galaxy” diretta da Horace L. Gold.
Si affermarono nuovi autori, fra cui spiccò la coppia di “sociologi fantascientifici” Frederick Pohl e Cyril M. Kornbluth.
Si affermò un modo nuovo, molto più problematico, di scrivere fantascienza, testimoniato ad esempio da Kurt Vonnegut jr., un autore di qualità, non molto prolifico, che ha avuto all’attivo romanzi come Player’s Piano (Distruggete le macchine nell’edizione italiana), dove s’immagina una rivolta fallita degli uomini disoccupati contro un’economia dove le macchine hanno quasi del tutto rimpiazzato il lavoro umano.
Mattatoio n. 5, è la trasfigurazione in chiave fantastica dell’esperienza della seconda guerra mondiale e del bombardamento di Dresda cui Vonnegut assistette come prigioniero di guerra catturato nel corso della battaglia delle Ardenne.
Rispetto a questo clima piuttosto tetro, gli anni ’60 segnarono un’ulteriore svolta di novanta gradi.
Erano gli anni del boom economico, della contestazione e anche nella fantascienza si cominciava a rompere tabù.
Ad esempio essa era stata fino ad allora un genere quasi asessuato. Il sesso fu portato nella fantascienza e trattato in modo molto esplicito da un romanzo che allora fece scandalo, Un amore a Siddo di Philip Jose Farmer.
Ma la vera rivoluzione doveva venire stavolta dall’Inghilterra, e iniziò con un provocatorio articolo di James Graham Ballard sulla rivista inglese “New Worlds”, Quali vie per lo spazio interno?
In esso, Ballard sosteneva che la fantascienza si era occupata fin troppo, fino ad esaurire tutte le sue possibilità espressive, dello spazio esterno, l’esplorazione planetaria e galattica ed era ora di dedicarsi all’esplorazione del solo universo rimasto davvero misterioso, l’animo umano.
Ne nacque, sotto la regia di Ballard e di Michael Moorcock, la “New Wave”, un movimento colorato e fracassone la cui parola d’ordine era rompere gli schemi e trasgredire le regole. Le astronavi somigliavano sempre meno a quelle della NASA e sempre più al Sottomarino giallo dei Beatles.
Si arrivò al punto da proporre di abbandonare formalmente l’etichetta di Science Fiction e di sostituirla con quella di Speculative Fiction, meno legata o tutt’affatto slegata dall’idea di razionalità scientifica, cosa che provocò le reazioni indignate dei “vecchi leoni” della fantascienza, a cominciare da Isaac Asimov.
In America, i leader della New Wave furono Philip Jose Farmer e Norman Spinrad, ma il clima creatosi era propizio per esperienze del tutto nuove.
Vi fu ad esempio il ritorno in grande stile di Philip K. Dick, un autore che aveva abbandonato lo scrivere dopo una crisi per cui era caduto nella depressione e nella tossicodipendenza e ora, disintossicato, tornava in campo descrivendo i mondi allucinati ispirati dalla sua esperienza con la droga: una sorta di De Quincey fantascientifico.
Ne derivavano opere come Il cacciatore di androidi, da cui Ridley Scott ha tratto il notissimo film Blade Runner.
Gli anni ’70 conobbero due fenomeni nuovi: un rilancio in grande stile della fantasy propiziata dal successo del Signore degli Anelli di Tolkien.
Nel clima hippy di quel periodo, della razionalità scientifica nessuno sapeva cosa farsene, e immaginare mondi di fantasia senza alcun rapporto con la nostra realtà era considerato un atto rivoluzionario: l’immaginazione al potere, come recitava uno slogan dell’epoca.
Il Signore degli Anelli divenne la “bibbia” degli hippy californiani.
L’altro fatto nuovo fu che la fantascienza quasi all’improvviso si tinse di rosa, il genere sin allora prevalentemente maschile conobbe una vera e propria invasione da parte di un’agguerrita leva di autrici, le più importanti delle quali sono state Ursula Le Guin ed Alice Sheldon che firmava i suoi lavori con lo pseudonimo maschile di James Tiptree jr.
Dopo tanti sperimentalismi, gli anni ’80 costituirono un ritorno al passato.
Propiziata anche dal successo sul grande schermo della trilogia di Guerre stellari di George Lucas, l’avventura spaziale vecchia maniera fece un ritorno in grande stile.
Che il vento fosse di nuovo cambiato, lo si capì quando il romanzo di un outsider, Joe Haldeman, Guerra eterna che narra di un’interminabile conflitto interplanetario fra i terrestri e gli abitanti di Alfa Centauri, vinse a sorpresa il premio Hugo, “l’oscar” della fantascienza dedicato alla memoria di Hugo Gernsback, assegnato annualmente mediante un referendum fra i lettori.
In questo periodo, Isaac Asimov aggiunse due altri romanzi al ciclo della Fondazione, considerato già concluso vent’anni prima, Philip Jose Farmer, abbandonati gli sperimentalismi, scrisse il monumentale Ciclo del Fiume, e Frederick Pohl, privo ormai della collaborazione di C. M. Kornbluth deceduto nel frattempo, scrisse quella che paradossalmente è forse la sua opera migliore, il romanzo Jem che tratta della colonizzazione di un pianeta raggiunto da un’astronave generazionale terrestre, non senza conflitti e reciproci adattamenti con le razze indigene.
Il fenomeno nuovo degli anni novanta è stato il movimento cosiddetto cyberpunk, ispirato alla rivoluzione informatica e soprattutto al fatto che essa e le reti di computer mettono a disposizione uno spazio virtuale ancora tutto da esplorare.
Per raggiungere tali spazi non occorre confrontarsi con problemi come le distanze interstellari e non servono né potenti astronavi né complesse organizzazioni come la NASA, bastano un computer, un modem, un casco ed un guanto interattivi.
A ciò si uniscono una visione della società del futuro caotica e tentacolare presa di peso da Blade Runner e dai romanzi di Philip K. Dick e un po’ di linguaggio da tecnici di programmazione informatica tanto per rendere il tutto più misterioso.
Gli alfieri di questo movimento sono William Gibson, Bruce Sterling e tutto il gruppo dei mirrorshades (che è anche il titolo di un’antologia cyberpunk), ossia gli scrittori californiani che hanno adottato gli occhiali a specchio come loro peculiarità e simbolo.
Oggi il movimento, che ha prodotto numerosi imitatori in tutto il mondo occidentale, sta accusando segni di stanchezza, ma certamente le possibilità legate al nuovo campo dell’informatica e della realtà virtuale, così come le prospettive inquietanti aperte dall’ingegneria genetica e che finora sono state assai poco sfruttate, sono ben lontane dall’essere esaurite.
Quali siano le tendenze più recenti è difficile da capire, sembrerebbe di assistere soprattutto a un momento in cui è in voga la narrativa ucronica, ossia la tematica dei “mondi alternativi”, della “storia fatta con i se”, del cercare d’immaginare come sarebbe oggi il nostro mondo se certi avvenimenti storici chiave si fossero svolti in maniera differente.
A ogni modo, anche se la fantascienza ci prova ormai da tre quarti di secolo, il futuro è ancora tutto da scrivere.
In Italia la fantascienza, come in quasi tutto il mondo occidentale, è arrivata di rimbalzo, importata dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, e bisogna ammettere che la nascita e lo sviluppo di una scuola nazionale di fantascienza ha trovato più difficoltà che altrove.
Da noi la fantascienza arrivò nel 1952, prima con la rivista “Scienza fantastica”, poi con “Urania”, e con numerose altre iniziative, anche se “Urania”, la rivista – collana libraria di Mondadori divenne ben presto, ed è rimasta, la presenza più importante quantitativamente nel panorama italiano dell’editoria di fantascienza.
Lo stesso termine “fantascienza” fu una creazione dell’allora direttore di Urania Giorgio Monicelli, e solo in italiano l’espressione inglese “Science Fiction” trovò una traduzione invece di una ripresa letterale.
“Urania” nacque come rivista, cui si affiancò poi la collana dei “Romanzi di Urania.”
Cessata la rivista, la collana libraria divenne semplicemente “Urania”, conservando però qualcosa della rivista, con fascicoli agili e una nutrita appendice; questa formula editoriale di quasi – rivista fu poi ripresa da altre pubblicazioni, come “Galassia” della casa editrice La Tribuna.
Anche in Italia come altrove si formò un pubblico di appassionati, minoritario rispetto al mercato della grande editoria, ma stabile ed affezionato. Questi lettori non accettavano supinamente le scelte editoriali, ad esempio i romanzi pubblicati a puntate, molto apprezzati dal pubblico americano, da noi hanno sempre incontrato scarso gradimento.
Anche in Italia si formò un fandom, cominciarono ad essere stampate le fanzine e s’iniziò a passare dalla semplice fruizione alla fantascienza di autore italiano, e poco per volta iniziò ad emergere una “scuola” di autori nazionali.
Sebbene fra le firme nazionali cominciassero ad emergere autori originali e creativi come Lino Aldani, Renato Pestriniero, Sandro Sandrelli, Riccardo Leveghi, Gustavo Gasparini (e mi scuso con tutti quelli che non cito), gli sbocchi professionali non furono e non sono stati finora quali era lecito aspettarsi.
La causa principale di questa situazione è il pregiudizio, purtroppo diffuso fra una fetta di lettori. Idea spalleggiata dalle scelte editoriali di “Urania” nel lungo periodo della gestione da parte di Carlo Fruttero e Franco Lucentini della rivista Mondadori. Per costoro la cultura italiana era prevalentemente “umanistica” e a loro avviso gli Italiani non sarebbero stati in grado di scrivere in maniera altrettanto “scientifica” degli Americani.
Che si trattasse di un mero pregiudizio, lo dimostrò già negli anni ’60 la collana “Cosmo” dell’editore Ponzoni. Furono pubblicati moltissimi italiani sotto pseudonimo anglosassone e le vendite erano ottime, ma il nome italiano dichiarato portava immancabilmente a una flessione.
Negli anni ’70 l’apparizione di nuove case editrici specializzate, la Nord di Milano, la Fanucci di Roma, più tardi la Solfanelli di Chieti ha offerto agli autori italiani un certo spazio, ma proprio le tirature limitate di queste case editrici minori hanno imposto loro di non rischiare troppo sul nome italiano.
Uno spiraglio in questa situazione non incoraggiante fu aperto dal 1976 al 1979 dalla rivista “Robot” dell’editore Armenia, e con ogni probabilità la formula della rivista era (e rimane) la più idonea ad educare i gusti del pubblico.
Gli appassionati la acquistano in ogni caso, mentre il romanzo col nome italiano rimane invenduto, perché in prima di copertina non riesce a esercitare nessuna azione educativa sul pubblico.
Sfortunatamente, l’esperimento di “Robot” non proseguì perché la rivista provocò la disaffezione dei lettori lasciandosi invischiare in un’acrimoniosa polemica politica, e fu una grossa perdita per la fantascienza italiana.
Bisogna dire che questa situazione di eterna condizione amatoriale della fantascienza italiana non ha solo effetti negativi: proprio perché non è pressato dalla necessità di scrivere per rispettare scadenze contrattuali, l’autore italiano può permettersi molta libertà espressiva e curare i propri lavori, e può capitare di trovare lavori di grande levatura su fanzine a diffusione modesta e graficamente dimesse.
Ma questa è una situazione che alla lunga produce un’insopportabile dispersione di energie e di talenti, la rinuncia di molti allo scrivere, l’inaridimento di molte potenzialità.
Nel 1978, fu pubblicata dalla Garzanti un’importante antologia di fantascienza italiana, Universo e dintorni, curata da Inisero Cremaschi, ma la cosa più notevole è probabilmente il lungo saggio introduttivo di Cremaschi, dove si accredita l’ascendenza della fantascienza italiana in una tradizione fantastica nazionale che, pur se spesso ignorata, è di tutto rispetto.
L’atteggiamento di Cremaschi era per certi versi un’esagerazione; non si può far risalire la fantascienza italiana a Leopardi e Pavese, ignorando sia l’influenza di quella anglosassone, sia la componente scientifica che un genere che voglia essere fantascienza e non soltanto fantastico, deve pur avere.
Quanto meno era un’esagerazione che andava a pareggiare quella di chi vorrebbe ridurre la fantascienza italiana a un puro fenomeno d’imitazione degli Americani.
Nell’ultimo decennio, dopo che la gestione di “Urania” lasciata da Fruttero e Lucentini è stata assunta prima da Gianni Montanari, poi da Giuseppe Lippi, soprattutto grazie alla gestione Lippi, gli spazi per la fantascienza italiana si sono notevolmente allargati.
Salvo una parziale marcia indietro negli ultimi tempi, per una flessione nelle vendite che dimostra come il pregiudizio del pubblico verso l’autore nazionale sia ancora radicato.
Ci vorrà tempo, probabilmente e una rivista che affianchi le collane librarie accostando nomi stranieri e noti, a quelli degli autori nazionali che hanno bisogno di farsi conoscere oltre la ristretta cerchia degli appassionati.
È qualcosa di cui si continua a sentire la mancanza da più di vent’anni dopo la chiusura di “Robot”.
Non è tuttavia il caso di essere pessimisti.