«Si, amici, quello che vedete è un corpo umano dilaniato da una serie di colpi di ascia; nello specifico, si tratta di ciò che rimase della nostra Clarissa Verlaine. Tuttavia, un particolare ci induce a ritenere che la donna non morì a causa di quella brutalità.»
Ciò detto, l’esperto insegnante mostrò un primo piano del volto della suora uccisa, l’immagine fece scomporre la platea.
«Com’è possibile, quello è un sorriso.» esclamarono in molti.
Zeta diede un tiro e affilò la propria espressione, compiaciuto dell’aver innescato il clamore dei corsisti.
«Vedete, Signori, le tessere della nostra composizione iniziano a incastrarsi nel loro posto. Come precisato poc’anzi, il nostro ruolo è quello di andare oltre le apparenze. Ora, vorrei invitarvi a osservare con attenzione quel viso. Clarissa Verlaine ha un’insolita espressione di felicità. Dovete sapere che quel sottile rigagnolo che vedete fuoriuscire dalle narici non è semplice sangue, ma è il suo cervello liquefatto.»
L’insegnante si interruppe e concesse alla sala i dovuti attimi di sgomento, in un rituale che aveva imparato a conoscere ormai da tempo e del quale godeva ogni volta.
Quando il turbinio di voci si placò, l’uomo mostrò una nuova immagine, raffigurante un tizio in ginocchio, con il busto riverso su una panchina.
«Questa foto è stata scattata poco dopo, in un punto poco distante, meno di un quarto di miglio, da quello in cui è stato rinvenuto il cadavere di Clarissa Verlaine. All’apparenza sembrerebbe un ubriaco, addormentatosi sul suo stesso conato di vomito, ma la brodaglia disgustosa che vedete in terra non è quello che pensate. Quest’uomo, amici, si chiamava Frank Smith e ha perso un terzo del suo cervello, colato a tocchi dal naso.»
Zeta passò all’immagine successiva, che alimentò un nuovo vociare dei partecipanti.
«Osservate il grido di dolore soffocato sul suo volto, la posa grottesca della bocca e il terrore negli occhi. Ora, contrapponiamo il suo volto di morte con quello di Clarissa Verlaine. É possibile apprezzare una pressoché perfetta contrapposizione, oserei dire che le due immagini si bilancino da sé. Da un lato, abbiamo un volto sul quale sembra essere transitata l’oscurità stessa; dall’altro, la pace, un’espressione quasi ubriaca di irrazionale ottimismo.»
Il vociare nella sala si fece intenso, molti degli agenti presenti al corso chiesero parola, in un rituale al quale il misterioso agente Zeta era ben avvezzo.
L’uomo non assecondò le istanze di intervento, anzi, parve non curarsene.
«Ora abbiamo gli elementi per stabilire con ragionevole approssimazione cosa accadde quella mattina.»
L’oloproiezione, su comando dell’insegnante, iniziò a mostrare in modo ciclico e sovrapposto tutte le immagini mostrate fino ad allora.
«Joshua O’Brien commise un errore: un errore che costò la vita a Clarissa Verlaine e Frank Smith, ma che, con alta probabilità, ne salvò molte altre. Il nostro amico O’Brien uscì di casa con l’intenzione di raggiungere la sua amata, ma si imbatté nella calca generatasi a seguito delle proteste dei lavoratori, scesi in strada in gran numero. Giocoforza, Joshua O’Brien non riuscì a raggiungere il luogo dell’appuntamento con la donna nell’orario prestabilito. Purtroppo per Clarissa, Frank Smith la sorprese mentre aspettava, nel vicolo, l’arrivo di Joshua.»
Zeta si interruppe. Come sospettava, la platea era andata di nuovo in fibrillazione e molte, troppe, mani alzate chiedevano udienza. Com’era sua consuetudine, l’uomo non diede loro ascolto. Conosceva bene sia le domande che le risposte e continuò con la ricostruzione dei fatti.
«Joshua O’Brien giunse sul posto quando ormai Smith aveva già infierito sulla sua vittima. É verosimile che l’assassino sia fuggito non appena accortosi del suo arrivo. Quello che possiamo sostenere con ragionevole certezza, è che Joshua O’Brien sia rimasto a fianco di Clarissa Verlaine negli ultimi istanti di vita. Le ferite subita dalla donna, per quanto terribili, non l’avrebbero condotta a una morte immediata, bensì a una lenta e irreversibile agonia. Joshua O’Brien le rimase al fianco e, con la sua azione mentale, le provocò uno stato di inopinato piacere, finanche di godimento. L’espressione facciale della nostra Clarissa, del resto, parla chiaro, non avrebbe avuto alcun motivo di arridere a una simile sofferenza. Il suo amico cercò, per quanto possibile, di restituirle uno scampolo di gioia negli ultimi istanti della sua triste esistenza.»
Una corsista alzò la mano e chiese di intervenire.
«Prego!» fece l’agente Zeta, che decise di fare una magnanima eccezione.
«Cosa può dirci del liquido cerebrale?»
«Ci stavo giusto arrivando: Joshua O’Brien comprese che Clarissa Verlaine sarebbe rimasta a lungo, prima di morire, in quel luogo maledetto. Sarebbe stato un grosso problema, per lui, uomo dalla pelle scura, essere sorpreso in quel posto a fianco della suora morente. Certo, avrebbe potuto utilizzare le sue capacità mentali contro chiunque fosse giunto lì, ma è evidente che non avesse la certezza di poterle sfruttare con successo, magari contro più persone. Decise, quindi, di determinare lui stesso la morte della suora. Avrebbe raggiunto un duplice fine, quello di alleviare le sofferenze della donna che amava e quello di salvare sé stesso. Possiamo ritenere, in base agli indizi, che Joshua O’Brien avesse la capacità di incrementare la temperatura cerebrale altrui, addirittura fino a determinare la fusione dei tessuti. Il volto di Clarissa Verlaine ci lascia dedurre che la donna sia morta in pace, tra le braccia del suo amato Joshua. Si ritiene che quest’ultimo, nello stato d’ira provocatogli dalla perdita di Clarissa, abbia poi inseguito e raggiunto Frank Smith, con l’unica intenzione di infliggergli le peggiori sofferenze. Nella stessa modalità con la quale ha alleviato la morte di Clarissa Verlaine, Joshua O’Brien ha poi infierito senza pietà su Frank Smith, in modo tale che lo stesso morisse nel modo più atroce.»
Ciò detto, l’agente Zeta mostrò di nuovo la contrapposizione tra il volto della suora e quello del suo assassino. L’uomo li osservò con un taglio sottile sul volto.
«Affascinante come l’universo sia nella costante, direi spasmodica, ricerca dell’equilibrio. Due eventi di pari intensità, ma opposti nell’immagine di sé. Ogni fatto, amici, ha una sua contropartita nell’entropia del tutto, non dimenticatelo mai.»
Zeta osservò oltre i pannelli della finestratura; il suo sguardo era distaccato, come se le sue riflessioni su quanto appena pronunciato l’avessero condotto ben oltre il caso trattato.
Rimase in stato di trance apparente per circa un minuto, nel frattempo diversi corsisti rimasero con il braccio alzato, nella speranza di poter chiedere ulteriori chiarimenti.
L’uomo si voltò, infine, verso la platea.
«Immagino che vogliate conoscere quale sia stato il destino di Joshua O’Brien…»
Il vociare della sala si fece alto, con le richieste dei presenti che iniziarono ad accavallarsi tra loro.
L’insegnante attivò, sull’oloproiettore, una cartina che sembrò mostrare vecchi confini del Nord America.
«Questa, signori, è una mappa che raffigura i limiti territoriali di quelli che, nel ventesimo secolo, erano gli Stati Uniti d’America, nonché dei loro paesi confinanti. Come vedete, ci sono diversi punti in evidenza. Si tratta dei luoghi dove, in base agli indizi, Joshua O’Brien deve aver lasciato traccia di sé. Voi mi chiederete per quale motivo avrebbe dovuto lasciare New Orleans: la spiegazione, amici, è piuttosto semplice.»
Zeta si sedette sulla cattedra. Tenne un piede poggiato a terra, mentre l’altro iniziò a penzolare, con il suo tizzone fumante che continuò a fare bella mostra di sé nella mano destra.
«Per sua sfortuna, Joshua O’Brien non poteva certo sapere del diario segreto di Clarissa Verlaine, che cadde subito nelle mani della polizia del luogo non appena il cadavere della donna fu rinvenuto. Divenne subito evidente che quella mattina la nostra amica avesse un appuntamento con un uomo di colore che l’aveva sedotta. Senza approfondire le indagini, le autorità locali ritennero Joshua O’Brien responsabile dell’omicidio della suora e decisero di arrestarlo. Per sua fortuna, si accorse in tempo di quanto stesse accadendo e riuscì a fuggire. Tuttavia, i nostri colleghi del tempo si accorsero subito che ci fosse sotto qualcosa di strano e compresero subito la correlazione tra la morte di Clarissa Verlaine e quella di Frank Smith. Requisirono le immagini scattate e il diario, ma lasciarono che la polizia proseguisse le proprie indagini per non destare ulteriori sospetti. Come era ovvio che fosse, da quel giorno i crimini dell’Uomo con l’Ascia di New Orleans cessarono. Il primo segnale del passaggio di Joshua O’Brien è rinvenibile otto giorni dopo, in una stazione di polizia a confine tra lo stato del Mississippi e quello dell’Alabama.»
Zeta mostrò l’immagine di un uomo in divisa.
«Questo è l’agente William Bush, il quale fu ritrovato in piedi, ai bordi di una strada, con l’espressione persa nel vuoto e un sorriso ebete in volto. Bush fu soccorso e dichiarò ai nostri di aver fermato uno strano tizio, dalla pelle scura, che transitava a piedi e portava con sé un grosso zaino. Disse che l’avrebbe voluto portare in centrale per accertamenti, ma quell’uomo gli chiese di farlo passare. Ebbene, le sue parole testuali furono: non mi ero mai sentito tanto felice ed euforico in vita mia, quel tipo doveva essere davvero una brava persona. Gli dissi: Prego, passi pure, mi dispiace di averla disturbata, prenda anche il mio pranzo.»
La sala si abbandonò a un inevitabile ilarità, assecondata dal sorriso sornione dell’agente Zeta, che indicò un nuovo punto sulla mappa.
«Ad Abbeville, South Carolina, tre settimane dopo, si verificherà un nuovo contatto. Un uomo della zona riferirà di aver dato ospitalità, presso la sua casa, a uno strano viandante afro americano, che sembra lo abbia poi convinto anche a cedergli la sua bicicletta, oltre a buona parte della sua dispensa. L’uomo denuncerà il furto alla polizia, ma dichiarerà di aver aiutato di sua spontanea volontà quello strano tipo. Gli agenti archivieranno il caso ma l’intelligence, sulle tracce di O’Brien, acquisì il fascicolo. Venti giorni dopo, Joshua O’Brien si farà vivo a New Bern, nel North Carolina. Un noto furfante del luogo, tale Timmy Mitchell, fu ritrovato dalla polizia, legato a un albero. Quando gli inquirenti lo interrogarono, lui rispose: Ho incontrato un negro che camminava sul ciglio della strada e ho pensato bene di farmi dare un po’ della sua roba, nella convinzione che la sola vista della mia calibro nove bastasse a convincerlo. Non ci crederete, ma quel figlio di puttana mi ha chiesto di gettare la pistola nel torrente qui vicino e di aiutarlo a legarmi… e io gli ho dato retta. Inoltre, mi ha pure fottuto quello che avevo guadagnato durante la giornata lavorativa, non ci si può fidare di nessuno di questi tempi!»
Zeta si voltò di nuovo alla platea.
«Come vedete, l’itinerario di Joshua O’Brien comincia a ben delinearsi. É chiara la sua intenzione di spingersi a nord. In questa fase i contatti sembrano moltiplicarsi, abbiamo tracce del suo passaggio ancora nel North Carolina, poi a Richmond, Virginia, poi Washington, poi a Philadelphia, in Pennsylvania, dove sembra che abbia ucciso due tizi.»
«Voleva arrivare a New York.» intervenne una ragazza.
«É chiaro, amica mia. Era assai probabile che O’Brien volesse lasciare gli Stati Uniti, dove era ricercato, o quantomeno arrivare nel luogo dove trovarlo sarebbe stato pressoché impossibile e, in quegli anni, uno con le sue abilità sarebbe stato meno di un fantasma nella grande mela.»
«Cosa voleva O’Brien, Signore?» domandò ancora la corsista.
Una maschera affilata si disegnò sul volto dell’agente Zeta.
«É probabile che cercasse solo di essere felice, come tutti noi del resto. La tragica perdita di Clarissa, che aveva individuato come sua potenziale metà complementare, generò in lui una spirale di negatività mai sopita, molte delle sue azioni furono poi ricoperte da un velo di tenebra.»
Zeta mostrò una nuova immagine, all’apparenza scollegata rispetto a tutto quanto mostrato in precedenza: mostrava un tizio sconosciuto, in manette, con al suo fianco due agenti di polizia.
«Per quattro anni Joshua O’Brien fece perdere le sue tracce, gli agenti dell’intelligence brancolarono a lungo nel buio. Non era dato sapere se fosse rimasto a New York o se fosse emigrato. Finché, un giorno, il tipo in foto, tale Montgomery Wilson, andò a pranzo con la moglie presso un ristorante di Manhattan. L’uomo, forse perché la donna voleva lasciarlo, andò su tutte le furie, estrasse una pistola, la puntò verso di lei e le chiese di confessare in pubblico i tradimenti commessi. Due persone tentarono di intervenire, ma Wilson sparò loro alle gambe. Tutto sembrava perduto, fin quando uno dei camerieri del locale, un nero, si avvicinò a Wilson e gli chiese di poggiare la pistola sul tavolo. Con grande stupore di tutti i presenti, l’uomo obbedì, senza neanche fiatare, e fu subito bloccato da alcuni clienti del ristorante. All’arrivo della polizia, il cameriere che aveva fatto desistere Montgomery Wilson dai suoi propositi omicidi era sparito e, da quel giorno, non si presentò più al lavoro. A seguito di alcune indagini, si scoprì che le generalità fornite dall’uomo al ristoratore erano false e non avevano alcuna corrispondenza all’anagrafe.»
Zeta estrasse dalla sua tasca uno strano oggetto; la platea, una volta realizzato di cosa si trattasse, rumoreggiò incredula.
«Non capita tutti i giorni di poter osservare una fotografia in forma fisica, per di più in bianco e nero.»
L’oggetto era rinchiuso all’interno di una pellicola trasparente, che ne preservava l’integrità. L’uomo lo diede ai corsisti delle prime file.
«Poi passatelo ai vostri colleghi delle file dietro, i quali avranno premura di restituirmelo. Sapete, viene dalla mia collezione privata. Quell’immagine è stata scattata in Francia nel 1936 e ritrae una compagnia gitana.»
L’insegnante attivò di nuovo l’oloproiettore, che mostrò l’immagine ingrandita.
Questa compagnia circense si esibiva in lungo e in largo per l’Europa, durante gli anni trenta. Tra di loro c’era un tipo che si faceva chiamare l’Alchimista. Fuori dal suo carrozzone, c’era sempre una lunga fila di gente, bramosa di conoscere le verità della propria esistenza. Ora, se ingrandiamo il suo volto l’immagine diventa sgranata, ma le tecnologie del nostro tempo ci consentono di effettuare una soddisfacente ricostruzione.»
Non appena l’intelligenza artificiale ebbe effettuato il lavoro di ricomposizione del viso, l’agente Zeta ingrandì la precedente immagine di Joshua O’Brien e la posizionò di fianco.
«Ecco qui, Signori, è inequivocabile che si tratti di Joshua O’Brien all’età di quarantacinque anni, l’Alchimista.»
Mugolii di stupore si levarono tra i corsisti.
«Joshua O’Brien avrebbe potuto trovare un comodo rifugio in una delle proprietà di famiglia, anzi, è probabile che vi abbia dimorato nei periodi successivi al suo arrivo in Europa. Tuttavia, abbiamo ritenuto che abbia voluto nascondersi, dopo aver captato di essere sotto osservazione, proprio dell’intelligence. Purtroppo per lui, le sue ambizioni di pace e anonimato non avevano fatto i conti con la storia.»
Zeta attivò una nuova immagine, che posò un velo di tenebra sulla sala.
L’uomo la osservò per alcuni istanti; quindi, diede un tiro di paglia.
«Questa è stata scattata nell’ottobre del 1940 a pochi chilometri da Le Chambon-sur-Lignon, nella Francia di Vichy, e raffigura un drappello di SS tedesche intente a giustiziare alcuni presunti partigiani. Il paesino lì vicino divenne un simbolo della resistenza francese e, fatto meno noto, era uno dei luoghi dove la famiglia adottiva di O’Brien aveva alcuni dei suoi terreni e una casa.»
L’agente Zeta fece apparire una nuova oloproiezione, che raffigurava alcuni documenti scritti in tedesco.
«Questo, signori, è un rapporto ad alto grado di classificazione, redatto nel 1943. È probabile che fosse accessibile ai più alti ufficiali delle SS, addirittura solo a Himmler e ai suoi luogotenenti diretti, oltre che a Hitler in persona. In sostanza, qui c’è la lista degli ufficiali delle SS morti o dispersi entro un raggio di trenta chilometri zona di Le Chambon-sur-Lignon dal 1941.»
L’istruttore ingrandì un inciso e, senza servirsi del transponder, iniziò a tradurre dal tedesco del ventesimo secolo, cosa che suscitò incredulità tra i presenti.
Ciò che deve essere sottoposto all’attenzione diretta e immediata del Fuhrer e del Generale, è il fatto che in diversi cadaveri di ufficiali si è riscontrata la perdita di larga parte del cervello, fuoriuscito in forma liquefatta dal naso. Simili fenomeni non sono stati riscontrati in nessun altro teatro operativo. Temiamo che nella zona sia da tempo avvenuta l’infiltrazione di armamenti segreti, di origine sconosciuta, probabilmente a scopo sperimentale, in vista di un impiego su larga scala.
Zeta si voltò verso la platea e non poté fare a meno di notare quanto l’iniziale espressione di leggerezza dei corsisti fosse mutata verso un’ossequiosa rigidità, fin quasi a lambire un timore reverenziale nei confronti di Joshua O’Brien.
«É probabile che O’Brien, nel corso del tempo, abbia iniziato a sentire su di sé il peso degli eventi. Non è errato affermare che, durante il prosieguo della guerra, abbia condotto, in modo sempre più insistente, una battaglia personale contro i nazisti, come del resto le nostre fonti sembrano confermare, osservate bene.»
L’uomo aprì una cartina elettronica dell’Europa durante il conflitto, con le linee dei vari fronti che mutavano con lo scorrere del tempo.
«Facciamo scorrere la mappa dal 6 giugno 1944, giorno in cui gli alleati sbarcarono in Normandia; al contempo, seguiamo la linea dei punti in cui si hanno tracce storiche della presenza di Joshua O’Brien. Dal D-Day, il nostro uomo ha iniziato a spostarsi verso nord est, verso la Germania. Le notizie che arrivavano dal nuovo fronte di guerra hanno spinto O’Brien ad affrontare una nuova sfida. In cuor suo, egli si rese conto di poter fare la sua parte nella tragedia che teneva il mondo con il fiato sospeso. L’azione di O’Brien divenne sistematica, il suo obiettivo chiaro: far fuori più nazisti possibile grazie alle sue capacità, oppure, scoprire i loro piani. Abbiamo diversi dispacci dei partigiani francesi che parlano di una fonte segreta, in grado di fornir loro informazioni dettagliate sui movimenti del nemico. Allo stesso modo, Hitler in persona promise laute ricompense a chiunque avesse ottenuto informazioni sull’arma segreta che stava seminando il panico tra le SS.»
L’agente Zeta diede un sospiro e osservò le immagini, anche quelle sullo sfondo.
«Quello che stiamo vedendo è la dimostrazione, se vogliamo, dell’affascinante, quanto misterioso, funzionamento dell’universo. Un singolo evento, all’apparenza ininfluente, può poi determinare a cascata una catena di fatti a esso per nulla affini, ma in chiaro divenire causale. Pensate se, quel giorno, i lavoratori di New Orleans non avessero scioperato e O’Brien fosse riuscito a raggiungere la sua Clarissa prima che lo facesse Frank Smith. I due sarebbero fuggiti per coronare il loro sogno d’amore e l’uomo con l’ascia avrebbe ucciso ancora, non possiamo sapere quanto. O’Brien non avrebbe dato il suo contributo in favore della resistenza francese, non avrebbe compromesso le operazioni delle SS, dopo aver seminato il panico tra loro. Soprattutto, non si sarebbe spinto fino al cuore del terzo reich.»
Lo stupore della sala provocò un compiaciuto taglio lungo l’oscura maschera dell’agente Zeta, che attivò una nuova immagine.
«Questa, Signori, è la linea presunta degli spostamenti di Joshua O’Brien tra la metà del 1944 e il 1945. Ogni punto coincide con un evento le cui caratteristiche riconducono all’azione del nostro amico, sia che si tratti di soggetti che riferiscono di circostanze che possano richiamare le sue capacità mentali oppure, in una macabra conta, ai luoghi in cui sono stati ritrovati cadaveri di SS con il cervello fuso. In ogni caso, possiamo dedurre che Joshua O’Brien abbia ucciso trentadue ufficiali, tutti lungo il suo percorso.»
L’istruttore aprì una nuova immagine.
«Tuttavia, sembra che O’Brien non abbia eliminato tutti i membri delle SS che incontrava. Tre elementi dichiararono di aver incontrato un tipo, un nero, così lo definirono, che li aveva convinti ad abbandonare il corpo del quale facevano parte; nel caso dell’uomo che l’oloproiettore ci mostra, tale Helmut Shultz, Joshua O’Brien si spinse addirittura a convertirlo alla resistenza, come del resto le sue parole confermano.»
Conobbi uno strano tizio, uno dalla pelle scura.
Non volle dirmi il suo nome, né da dove veniva. Parlava un inglese lontano, misto a un francese più recente e variopinto, ma era capace di blaterare qualcosa anche in tedesco o, addirittura, in latino.
L’unica volta che lo incontrai, a dir la verità, era per arrestarlo.
Era il dicembre del 44 ed ero con tre colleghi ad Anchen, sul confine con il Belgio, avevamo avuto la soffiata del passaggio di alcuni partigiani. Eravamo lì per sorprenderli, con un plotone di fanti, poco distante, pronto a intervenire su nostra chiamata.
Quando li bloccammo, notai il colore della sua pelle, insolito per uno della resistenza. Ricordo solo che mi fissò e il suo sguardo mi portò fuori dal mondo. In pochi istanti, sentii nascere in me la sensazione di stare dalla parte sbagliata della storia. I miei superiori, invece, non la pensarono allo stesso modo e gli intimarono di seguirlo dietro una baracca, era evidente che volessero giustiziarlo sul posto.
Erano in tre, lui li seguì con uno strano sorriso in volto.
Io rimasi lì, immobile, con gli altri due partigiani che avevamo ammanettato.
Non udimmo nulla, né uno sparo, né una voce, e dopo un minuto lui tornò da solo.
«Come ti chiami?» mi chiese.
Io abbozzai un imbarazzato saluto militare.
«Hemlut Shultz, Signore!»
«Sei una brava persona, Helmut, sono dell’idea che saresti in grado di fare buone cose, magari potresti iniziare con il togliere le manette ai miei amici.»
Io non ci pensai sopra un istante e liberai quella gente. Nel farlo, mi sentii travolto da un potente fiume di energia ritrovata. Mi tolsi l’uniforme grigia e il cappello d’ordinanza.
«Dategli dei vestiti, verrà con voi.» ordinò poi ai suoi compagni.
«Signore, sono ai suoi ordini.» gli dissi.
«Non sei agli ordini di nessuno, Helmut Shultz, e non verrai con me. Io proseguirò da solo sulla mia strada, ti consiglio di restare vicino ai tuoi nuovi compagni, sapranno consigliarti bene.»
Così disse, per poi avviarsi in solitaria.
«Dove va?» domandai ai partigiani.
«Deve raggiungere una cellula infiltrata vicino Dortmund, non sappiamo altro.»
Da quell’istante non lo vidi più, ma realizzai subito che il suo incontro mi avrebbe segnato per sempre.
Zeta diede un lungo tiro e soffiò via il fumo dalle narici.
«É stupefacente la similitudine tra le parole di Shultz e quanto ammesso da Clarissa Verlaine nel suo diario. Come con lei, Joshua O’Brien si è limitato ad assecondare un sentimento esistente ma in catene. Immaginate voi stessi la grandezza del paradosso: Helmut Shultz desiderava la libertà e la democrazia, ma gli eventi della sua vita lo avevano costretto a essere la cosa più distante da esse. Pensate a quanto la volontà di un essere umano possa essere viziata dalle invisibili tenaglie dell’esistenza.»
L’agente Zeta volse di nuovo la sua attenzione all’oloproiezione alle sue spalle.
«A questo punto diventa ridondante star qui a citare ogni singolo evento che abbia coinvolto Joshua O’Brien lungo il suo percorso. Sta di fatto che le tracce nostro uomo, nel marzo 1945, ci portano dritti a Berlino, negli ultimi giorni del terzo reich.»
Una nuova immagine apparve in sala.
«Questo è Jurgen Matthaus, il padrone di un modesto albergo non troppo distante dal Reichstag. Matthaus, dopo la guerra, fu ascoltato dagli ispettori sovietici, i quali erano venuti a conoscenza di alcuni suoi comportamenti che avevano favorito alcune loro avanguardie durante le fasi finali della battaglia per la capitale. Dovete sapere che la ricerca dei criminali di guerra divenne subito prioritaria, così come quella degli eroi, e i sovietici si imbatterono in questo tizio che gli raccontò una storia curiosa.»
Era il dodici febbraio del 45 quando conobbi un tipo di colore, sulla cinquantina abbondante, che mi chiese se poteva alloggiare presso il mio albergo. Io gli dissi che per uno come lui non era il massimo farsi vedere in giro nella capitale, specie in quei giorni in cui le sirene annunciavano bombardamenti imminenti in ogni istante e la gente dava di matto.
Lui mi rispose che ammirava il mio coraggio, visto che ero uno dei pochi albergatori che aveva avuto il coraggio di restare in attività anche in quei giorni drammatici.
In particolare, fu una frase a colpirmi e a farmi provare un’epidermica simpatia per quell’uomo.
«Dormirò di giorno e uscirò di notte, quando il colore della mia pelle si confonderà con il buio e nessuno mi noterà.»
«Hey amico, devi avere qualche rotella fuori posto, ma forse proprio per questo mi sei simpatico.» gli risposi io.
Lui mi fissò negli occhi per un po’.
«Penso che tu sappia fare del bene, Jurgen Matthaus.» mi disse con un sorriso.
Quel tipo aveva la capacità di farmi sentire ubriaco con le parole, come se mi entrasse nella testa. Ciò, devo ammettere, non era affatto male in un periodo in cui era diventato quasi impossibile farsi anche un bicchiere del distillato più scadente.
Fu di parola, ogni giorno rimase in stanza e provvide da sé alle pulizie, senza chiedere sconti sul prezzo. Gli offrivo un bicchiere di latte alla sera, quando scendeva per uscire. Portava sempre una tunica scura, con cappuccio, che rendeva quasi impossibile distinguerne i tratti nell’oscurità della notte. Usciva sempre verso le dieci di sera e tornava il mattino successivo, in ogni caso mai dopo l’alba.
Dopo una ventina di giorni avevamo preso una discreta libertà di dialogo; mi disse che si chiamava Josh, che la sua era una lunga storia e che se me l’avesse raccontata non gli avrei creduto.
«Beh, amico, io di stranezze ne ho viste un bel po’. Non vorrei essere troppo indiscreto, ma… dove te ne vai la notte? Hai qualche amica?» gli domandai mentre aprivo di qualche tacca il rubinetto della confidenza.
Lui mi fissò. Per alcuni istanti ebbi come la sensazione che avesse rivoltato la mia mente come un calzino, alla ricerca di un mio minimo interesse a spifferare i suoi affari.
«Beh, caro Jurgen, cerco di fare la mia parte in questa storia, per farla finire il prima possibile, il mondo chiede a gran voce di andare avanti.»
«Io che potrei fare in tutto ciò?» gli domandai, poi sentii di colpo crescere in me quei desideri di rivalsa e libertà che avevo a lungo sopito.
«Continua a comportarti come hai sempre fatto. Non servono gesti eclatanti, quando arriverà il momento saprai fare la tua parte.»
L’agente Zeta interruppe la lettura e spense il suo ennesimo tizzone.
«Matthaus, negli ultimi giorni del Reich, aiutò diversi agenti infiltrati e ribelli tedeschi, così che il cerchio intorno a Hitler potesse stringersi ancora. Tuttavia, ciò non ci interessa, in quanto la storia di Joshua O’Brien sembra intrecciarsi con quella del Fuhrer.»
L’uomo aprì una nuova immagine.
«Quest’uomo è abbastanza famoso, si tratta di Theodor Gilbert Morell ed era il medico personale di Adolph Hitler. Quello che, invece, è molto meno noto, sono alcune sue memorie redatte negli ultimi giorni di vita dell’oscuro dittatore.»
L’insegnante mostrò, di fianco a quella del medico, l’immagine di alcuni fogli scritti in tedesco.
«Ciò che vi leggerò non è mai entrato a far parte della storiografia ufficiale, sono dati tuttora coperti da segreto e solo quelli come noi possono avervi accesso; quindi, siete ben consapevoli di ciò che potrebbe accadervi se doveste rivelarli in pubblico.»
L’uomo accese una sigaretta e ispirò con avidità; quindi, iniziò a tradurre le memorie.
Ho paura di scriverlo, ma credo che il nostro Fuhrer abbia raggiunto i massimi livelli di pazzia, più di quanto già non desse a vedere. Le sue pulsioni di distruzione e aggressione, che aveva da sempre rivolto verso l’esterno, ora devastano il suo io cosciente. Egli è schivo, malfidato come non mai, dubita persino di Frau Eva ed evita di parlare con lei. Soprattutto, ha strane e inquietanti allucinazioni, delle quali non si era mai vista traccia sinora.
Zeta si fermò per un istante e osservò la platea. Dopo aver constatato che tutti i presenti erano muti, in fremente attesa di conoscere quanto fosse avvenuto, diede un tiro e ricominciò a leggere, con un rinvigorito taglio sul volto, come se si fosse appena nutrito dello stupore dei giovani agenti.
Il Fuhrer parla con insistenza di uno strano uomo, un nero a quanto pare, che avvelena la sua mente durante le notti. Ieri sera, mentre gli misuravo la pressione arteriosa, mi ha preso il polso con una veemenza e una forza innaturali. Mi ha supplicato di restare lì con lui, per dimostrarmi che quello spettro esisteva davvero. Ho cercato di assecondarlo e gli ho domandato cosa gli dicesse quella strana presenza. La sua reazione mi ha terrorizzato, per un breve istante ho creduto davvero che quel fantasma fosse reale.
«Mi parla in Francese, in Inglese, in un tedesco agghiacciante e talvolta anche in latino. Sento la sua voce nella mia testa, mi fa vedere morte e distruzione in Germania e ovunque in Europa, anche nei campi di sterminio, assume le sembianze di mio padre mentre mi picchiava, riconosco in lui tutti i volti dei compagni di scuola che mi deridevano. Aiutami Theordor, lui dice che è tutta colpa mia, che sono un folle, ho paura che sia vero.»
L’istruttore tamburellò per alcuni istanti sulla cattedra; poi si rivolse agli allievi.
«Come ben potete immaginare, Hitler era ben a conoscenza di quanto stesse accadendo nel mondo a causa sua e, nel 1945, non sarebbe certo tornato sui suoi passi per puro rimorso. Se analizziamo l’ultimo passaggio appena letto, notiamo un particolare del tutto in contraddizione con quanto affermato: Adolph Hitler è terrorizzato dal fatto di essere il responsabile della distruzione dell’Europa e dell’orrore consequenziale. In altre parole, Joshua O’Brien riuscì a entrare in connessione con la mente di Adolph Hitler. Non sappiamo come ciò avvenne, forse è riuscito a entrare nei bunker dopo aver irretito le guardie, oppure è riuscito ad avvicinarsi a distanza tale da entrare in contatto mentale con il Fuhrer, mostrandogli la sua immagine fisica, questo dettaglio è ancora oggetto di dibattito. Ciò che ci interessa è il fatto che Joshua O’Brien abbia condizionato la psiche di Adolph Hitler al punto tale da fargli toccare le più vive piaghe del dolore da egli stesso provocate. Secondo le parole del suo medico personale, il dittatore è sconvolto dalle sue azioni e dalle loro conseguenze. Tuttavia, l’azione di O’Brien si è spinta oltre, come del resto sembrano confermare sia le parole di Theodor Gilbert Morell che l’immagine che sto per mostrarvi.»
Quando l’agente Zeta attivò l’ultima oloproiezione, la sala ebbe un sussulto di stupore.
«Come avete già intuito, cari colleghi, questa è un’immagine che solo pochissimi hanno avuto la fortuna di vedere. Eccovi il cadavere di Adolph Hitler, così come apparve la mattina del 30 aprile 1945. Come potete vedere, la sua espressione di dolore è terrificante; allo stesso modo, è evidente la perdita di liquido cerebrale dalle narici. Il corpo che invece notiamo al suo fianco è quello di Eva Braun, la quale tiene ancora in mano la pistola con la quale si è tolta la vita. L’immagine fu scattata dalle SS e poi rubata dai nostri colleghi, i quali già ben sapevano cosa sarebbe stato giusto sottoporre all’attenzione del popolo. Ad ogni modo, per meglio ricostruire cosa sia accaduto la notte tra il 29 e il 30 aprile, ci viene incontro la lettura dell’ultimo rapporto del dottor Morell.»
Il nemico è vicino, i carri armati sovietici sono ormai a poco più di un chilometro da qui, oggi ho visto un ragazzo della gioventù hitleriana falciato in due dalle mitragliatrici, mentre puntava un panzerfaust verso i corazzati con la stella rossa. Tuttavia, ciò che più mi terrorizza è quanto accaduto durante la notte negli alloggi del Cancelliere. Il Fuhrer mi ha cacciato via e ha chiesto che solo Frau Eva rimanesse con lui. Il suo volto era irriconoscibile, sembrava che tutta la sofferenza dell’Europa si fosse modellata su di esso. Urlava con una veemenza della quale non lo credevo capace, la sua voce era grottesca, un latrato lacerante. Sono rimasto all’esterno e ho ascoltato i suoi deliri, terrorizzato. Blaterava frasi senza senso, diceva che non era colpa sua, che era stato costretto. Ha inveito contro il padre, contro Stalin, contro Churchill e contro gli americani. Poi, tra un guaito e l’altro, ha detto che lui era lì, l’uomo dalla pelle scura, che lo guardava in silenzio, con espressione di sdegno. Le grida si sono fatte sempre più intense e le parole sono diventate un miscuglio denso, come l’acqua putrida di una pozzanghera, fino a diventare incomprensibili. All’improvviso, uno sparo ha spezzato quella graffiante litania. Abbiamo provato a entrare ma lui aveva bloccato ogni serratura. L’abbiamo poi sentito lamentarsi ancora, con tono sempre più sommesso, come se fosse in procinto di andarsene da questo mondo. Poco dopo, sono giunti gli ufficiali delle SS e ci hanno portati via. Non so cosa sia successo in seguito, ma credo che, di lì a poco, ogni rimanente stilla di vitalità sia stata strizzata via dal Fuhrer come da uno straccio impregnato di liquami.
Non appena finì di tradurre il testo, Zeta lasciò che la sala metabolizzasse lo stupore. Accese l’ennesima paglia e scrutò i presenti, a uno a uno, nell’attesa che uno di loro trovasse il coraggio di commentare la sconvolgente verità appena appresa. Le braccia, che con tanta insistenza si erano alzate fino a qualche minuto prima, rimasero basse e conserte.
Poi, timida, una giovane chiese la parola.
L’uomo diede un tiro, poi le parlò.
«Come si chiama, Collega?»
«Agente Kox, Signore.»
«Dica pure, agente Kox.»
«Credo che Joshua O’Brien, nel reagire alla perdita di Clarissa, si sia posto l’obiettivo di sfruttare le sue capacità a fin di bene.»
«Cosa intende con a fin di bene, agente Kox?»
«Mi perdoni, Signore, non capisco la sua domanda… o meglio, non vedo come possano essere date diverse interpretazioni alle mie parole.»
Zeta diede un sospiro; quindi, scosse la testa.
«Vede, agente Kox, la sua affermazione è impregnata della presunzione, tutta umana, che esistano davvero il bene o il male…»
«Signore, io…»
«Li definisca, agente Kox, mi dica cosa è bene e cosa è male.»
«Il bene, per O’Brien, sarebbe stato rimanere per sempre con Clarissa. Poi, dopo averla perduta, ha deciso di aiutare gli altri che incontrava sul suo cammino.»
La smorfia dell’agente Zeta divenne penetrante.
«Dice bene, agente Kox. Il bene, per O’Brien, sarebbe stato…»
L’uomo si fermò e osservò oltre la finestratura, poi riprese.
«In modo più o meno inconscio, lei ha ammesso di aver posto una domanda priva di un senso logico. Ma non è colpa sua, per carità, è la vanità dell’essere umano che lo porta a porre le proprie vicende oltre ogni cosa. O’Brien voleva fuggire con Clarissa, quello sarebbe stato di certo il massimo del bene dal loro punto di vista. Tuttavia, se i due avessero coronato il loro sogno, l’uomo con l’ascia avrebbe mietuto non si sa quante altre vittime. Per cui, fin da quest’istante, ogni pretesa di allocare nell’alveo del bene assoluto le azioni di O’Brien spira ancor prima di prender vita.
“Joshua O’Brien ha visto distrutta ogni sua pretesa di pace interiore, ogni ambizione volta alla gentilezza, all’affetto, all’amore che aveva desiderato. La sua mente è divenuta la tana dell’oscurità stessa, in una continua condivisione dei suoi sogni con i fantasmi che, a loro volta, albergavano nella mente di coloro che ha incontrato nel corso della sua esistenza. Joshua O’Brien si è svegliato ogni mattina con il pensiero rivolto all’istante maledetto in cui ha visto Clarissa morente ed è arrivato, ogni volta, all’unica, ovvia deduzione: tutto ciò che avrebbe visto sarebbe stata solo altra dannazione. Poco avrebbero contato la sua rabbia, il suo orgoglio, la sua riluttanza. La brama di uscire dal suo sentiero, quello di chi poteva vedere il pensiero altrui, lo ha fatto entrare in un tunnel da cui non c’è stata via di scampo.
“Joshua O’Brien ebbe la pretesa di salvare altri dall’ingiustizia ma fu ingenuo, non seppe considerare il costo delle sue azioni e quando, infine, riuscì a guardare in basso si accorse che non c’era più terreno sotto di lui. Egli fu condannato a usare i metodi di coloro che provò a combattere. Pensate al terrore di Eva Braun, che giunse a togliersi la vita nel vedere l’azione di O’Brien sul volto di Hitler. O’Brien uccise, torturò altri, cosa che lo rese un essere oscuro, e bruciò le sue prospettive di felicità, di pace. Tentò di salvare ciò che gli restava da vivere, dopo la guerra, quando non si seppe più nulla di lui. Secondo alcuni tornò in Francia, altri dicono di averlo visto a New Orleans o addirittura a Cuba, nella sua vana speranza di far sorgere una nuova alba che mai avrebbe visto. E tutto… tutto ciò che ha realizzato in vita, sarebbe rimasto sconosciuto, non avrebbe mai avuto un pubblico o un accenno di gratitudine. La vita di O’Brien, signori, la sua vera vita, terminò insieme a quella di Clarissa Verlaine, ma non è qui che dobbiamo arrivare, il nostro lavoro ci impone di guardare oltre.»
L’oloproiettore si spense e l’agente Zeta fece sì che dalla finestratura entrasse più luce. L’uomo passeggiò lungo i banchi della prima fila e vi fece scorrere i polpastrelli.
«Abbiamo informazioni che ci consentono di individuare altri quattro esemplari, della nostra specie, in possesso di capacità analoghe a quelle di Joshua O’Brien. Cinque mentalisti conosciuti su miliardi e miliardi di esseri umani, una probabilità irrisoria. Eppure, è nostro dovere anche tener conto di ognuno di essi. Perché noi, amici, noi plasmiamo il divenire delle cose, per far sì che sia sempre pace e l’umanità prosperi nel maggior benessere compatibile con il periodo storico. Il nostro segreto, la nostra arma principale, è la conoscenza di quello che accade e la gelosa conservazione di ciò che apprendiamo. Non servono gesta eclatanti, grandi eventi, per determinare ciò che sarà, bensì il contrario. Voi, colleghi, siete qui per imparare l’arte di penetrare le nebbie del futuro attraverso la comprensione di dettagli del passato, fatti all’apparenza irrilevanti, e sconnessi, che finiranno per sfogare la loro energia nel tempo che ci interessa. Del resto, Signori, questo è il funzionamento stesso del nostro universo. Se dovesse venirvi la buona idea di studiarlo, vi accorgerete presto che nulla, al suo interno, accade per caso. Ogni evento, anche il più insignificante, dà origine a una successione causale. Noi siamo qui per comprendere, nel nostro piccolo, come nel caso che oggi abbiamo trattato, quale sarà la progressione fattuale che plasmerà il divenire.»
Zeta si interruppe, accese una nuova sigaretta e radunò le poche cose che aveva con sé; quindi, salutò i presenti.
«Non scopriremo mai, non potremmo mai farlo ora, di quale meccanismo fosse parte Joshua O’Brien, ma non dimenticate mai che, nella misteriosa e ancestrale logica della grande spirale, gli esseri speciali come lui, le singolarità, possono dar vita a successioni di fatti altrettanto uniche e grandiose. Le creature di quest’universo, badate bene, non nascono, vivono, o muoiono… invano!»
© 2023 Filippo Zelli
La prima puntata di questo racconto è stata pubblicata il 27 Giugno 2024
L’immagine di copertina è stata realizzata tramite Intelligenza Artificiale.
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Ha iniziato a scrivere nel gennaio 2020, quasi per gioco, poi con il lockdown ha profuso più impegno nel suo progetto, non potendo dedicarsi alla sua professione ufficiale di avvocato che aveva subito uno stop. I cancelli di Hynterion altro non è che l’universo letterario che Filippo ci vuole proporre e che lo terrà impegnato a lungo.