Un giorno, ormai parecchio tempo fa, parlando con Giulia Abbate, abbiamo deciso di pubblicare il suo racconto Fuga da Calypso 14, in cui si parla di “animali.” Ci siamo subito detti che probabilmente sarebbe stato interessante comporre una raccolta di storie, con tema “Animali nel Fantastico e nella Fantascienza.” Per il momento non abbiamo trovato il tempo, né gli appoggi per portare avanti una simile idea, tuttavia ecco un racconto che potrebbe far parte di quella selezione: lo si deve ad Antonio Bellomi ed è un racconto molto strano, delicato e che, tutto sommato, attraversa più di un genere letterario. Anche questo era uno dei propositi che ci eravamo posti Giulia ed io.

F.G.

 

 

Una favola per bambini spaziali

Pluto era un bel gattone soriano.

Soriano? Forse. O meglio, soriano solo in apparenza, perché Pluto custodiva un segreto.

Era arrivato a Villa Boldi da micino impaurito in una notte in cui il cielo era stato squarciato da tuoni spaventosi e da saette infuocate che sembrava spaccare il cielo e la signora Boldi l’aveva trovato al mattino in un angolo del cortile, stremato dal freddo e con un’espressione spaurita negli occhi che aveva fatto breccia nel suo cuore di donna senza figli.

Da dove veniva? La signora non ne aveva la più pallida idea e neanche, a dire il vero, le interessava. Era un batuffolino così grazioso, a che pro porsi certe domande? Tanto il povero micino non avrebbe saputo risponderle.

E in effetti era proprio così. Non solo perché Pluto non sapeva parlare la lingua di quel buffo bipede dai capelli biondi, ma anche perché proprio non aveva neanche lui idea di come fosse arrivato in quello strano luogo dove l’erba era verde e non rossa e nelle strade sfrecciavano strani oggetti rombanti.

Lui sapeva solo che stava correndo in un bel prato rosseggiante sotto due soli che si inseguivano nel cielo, quando un’esplosione di luce rutilante dai mille colori l’aveva investito e portato via in un turbine di suoni e colori.

La vita di quel bizzarro luogo in cui si era trovato involontariamente trasportato era decisamente insolita e aveva ben poco in comune con quella a cui era abituato, anzi da principio ne era rimasto terrorizzato. Era tutto così diverso, l’erba verde, un unico sole anemico invece dei due sfolgoranti dischi delle sue praterie sconfinate, e soprattutto l’assenza dei suoi tanti compagni di galoppate nelle praterie, ma tutto sommato c’era qualche vantaggio. Per esempio non doveva più correre dietro alle trottoline dalle mammelle pendule per procurarsi la sua razione giornaliera di latte, ma il latte gli veniva fornito tutte le mattine in un tintinnante recipiente tondeggiante, che veniva sollecitamente riempito al suo primo miagolio opportunamente modulato.

Eh, sì, perché anche se non capiva la lingua di quella bionda creatura, aveva presto scoperto che ogni suo miagolio veniva interpretato in maniera diversa a seconda delle modulazioni. E siccome era un gattino intelligente, aveva saputo rapidamente trarne profitto.

Non gli era stato quindi difficile installarsi nella villa del cavalier Boldi e in breve diventarne il padrone quasi assoluto. Nel grande parco della villa giravano spesso molte altre creature insolite, anch’esse a quattro zampe, ma decisamente di taglia superiore. Da principio il loro incontro era stato carico di reciproci sospetti, ma in breve il gattino arrivato dal nulla e quelle creature, che il cavalier Boldi chiamava cani, avevano capito che se ciascuno fosse stato al suo posto e non si fosse impicciato degli affari degli altri si sarebbe raggiunto un punto di equilibrio per la reciproca convenienza e da allora tutto era filato a meraviglia.

La vita nella villa era sicuramente piacevole. Oltre al vantaggio del latte caldo ogni mattina e di altri succulenti bocconcini di un gusto che non aveva mai avuto modo di assaggiare dove viveva prima, c’era il vantaggio di non dovere sfuggire in continuazione all’attenzione dei truculoni, i predatori sotterranei che sbucavano all’improvviso dalle loro tane nascoste per papparsi in un boccone i gattini più teneri. E le rare volte in cui pioveva e faceva freddo c’era sempre qualche angolo ben riparato dove rifugiarsi senza correre il rischio di trovarsi in compagnia di un viscidone altrettanto affamato dei predatori sotterranei.

Per tutti questi motivi, e forse per tanti altri che all’inizio gli erano sfuggiti, Pluto non aveva provato rimpianti per la sua bella prateria rossa, per i due soli sfolgoranti e le tre lune argentee che caracollavano di notte in cielo e si era adattato senza difficoltà nella sua nuova ambientazione. Perfino i compagni di galoppate, per i quali all’inizio aveva provata tanta nostalgia, ora non gli mancavano più di tanto; forse il loro ricordo si era sbiadito nel tempo, forse lui stesso si era presto impigrito.

O forse, contrariamente a quanto l’avrebbe dovuto indurre il suo istinto atavico, e cioè cercare la compagnia e la solidarietà di altri felini come succedeva nelle rosse praterie che aveva abbandonato, aveva capito chiaramente, con quell’istinto naturale di cui ogni suo simile è dotato, che per continuare a godere degli esclusivi privilegi della signora Boldi era necessario che nessun altro felino si insinuasse nel perimetro di Villa Boldi. Nessun felino. E Pluto aveva fatto capire fin dal principio, con la massima determinazione, che non tollerava intrusi nel suo territorio.

La signora Marta, la padrona, aveva cercato una volta di introdurre di soppiatto un bel gattone persiano, ma Pluto, al cui occhio vigile nulla sfuggiva, aveva affrontato a muso duro l’intruso, ingaggiando un’epica battaglia di graffi e morsi che aveva fatto fuggire via il persiano a cercare rifugio tra le amorevoli braccia della signora Marta, la quale aveva capito l’antifona e, piuttosto di misurarsi con Pluto, aveva preferito cedere il persiano a una carissima amica. A dire il vero Pluto si era anche divertito. Sebbene il ricordo delle sue praterie rossastre fosse alquanto sbiadito ormai nella sua memoria, migliaia d’anni di esperienza acquisita dai suoi antenati nelle terrificanti lotte contro i truculoni avevano risvegliato in lui atavici istinti bellicosi che erano affiorati spontaneamente ed erano esplosi in un tripudio di morsi e graffi che avrebbero suscitato l’invidia di qualsiasi altro felino sotto il cielo dei due soli.

Da allora le giornate si erano susseguite tranquille e Pluto, ribadito il suo concetto di proprietà gattesca, aveva potuto vivere serenamente senza sentirsi più insidiato nel suo ruolo di unico e incontrastato gatto di villa Boldi… almeno fino al giorno in cui un gatto randagio e senza nome aveva osato affacciare il suo poco nobile muso tra le sbarre del cancello principale.

Un ringhio, una zampata di grande precisione e l’imprudente felino aveva capito che da villa Boldi era meglio girare al largo, se non voleva ritrovarsi con un occhio in meno e molti graffi in più.

A dire il vero c’era stato un giorno, alquanto lontano nel tempo, in cui un felino intruso aveva avuto accesso alla villa. Anzi si era trattato di un’intrusa, una dolce siamese inaspettatamente apparsa davanti al cancello di villa Boldi, alla cui vista qualcosa si era sciolto nel cuore di pietra di Pluto. Un dolce affanno che gli aveva fatto dimenticare i bellicosi propositi di incontrastato dominio. L’amore aveva fatto breccia nel cuore di Pluto e la dolce quattrozampe aveva avuto il permesso di scorrazzare per i prati della villa in compagnia del baldo e giovane gattone, dividendo con lui la ciotola del latte e la calda cuccia. Ma poi, un giorno, un tristissimo giorno di pioggia e lampi, che Pluto ancora oggi dolorosamente ricorda, la bella siamese era svanita nel nulla e invano Pluto l’aveva attesa davanti alle sbarre del cancello per giorni e notti intere finché il suo cuore di felino innamorato aveva dovuto rassegnarsi alla dura realtà. Forse in quel triste momento di solitudine aveva rimpianto sia pure per breve tempo certe galoppate nelle rosse praterie in compagnia di altri felini giocherelloni. Sì, è vero, c’era una notevole differenza, perché a quel tempo certi fremiti ancora non li aveva provati e la massima soddisfazione era stata quella di azzuffarsi con qualche gattina per morderle la coda, mentre adesso c’era stato molto di più… oh, se c’era molto di più… ma era pur vero che avrebbe rinunciato a qualche ciotola di latte pur di sfiancarsi ancora una volta, in quel momento di tristezza, in una folla corsa nella rossa prateria in compagnia di altri felini. In fondo anche quelli erano stati giorni felici e baldanzosi, ricchi di promesse per il futuro. E se fosse apparso qualche truculone, pazienza, tanto che aveva ormai da perdere?

Da allora il terreno di villa Boldi era stato ancora più blindato a ogni tentativo di intrusione e tra i felini della zona si narrava con tremanti miagolii del terribile felino orco che dominava all’interno della villa, narrazioni che facevano rabbrividire di paura gli innocenti gattini di pochi mesi i quali, una volta diventati adulti, osavano guardare in direzione della villa solo da molto, molto lontano.

Ma anche per Pluto il tempo passava inclemente. E così, come alla sua padrona cominciava a spuntare qualche capello grigio che la riempiva di tristezza, a Pluto cominciavano a succedere cose misteriose e inattese. Per esempio nelle giornate umide di pioggia sentiva doloretti qua e là che gli rendevano faticosa la corsa, per cui preferiva accucciarsi in qualche angolo al calduccio e ben protetto.

Oppure gli alberi. Erano sempre stati la sua grande passione… arrampicarsi su per i tronchi e poi ridiscendere di corsa… ah, come era stato divertente. Là nella rossa prateria non c’erano alberi e la scoperta di quei tronchi per lui ignoti in cui piantare le unghie per arrivare fino in cima era stata una delle scoperte più elettrizzanti della sua vita. Ma adesso cominciava a essere un esercizio piuttosto faticoso e assai meno spassoso. E gli uccellini che un tempo volavano via impauriti al suo appressarsi, ora saltellavano solo un po’ più in là e sembravano dirgli: «Mio caro, non ti pare che sei un po’ troppo vecchio per certe cose? Mettiti tranquillo, che è meglio.»

Eh, sì, perché era proprio questo il grande problema di Pluto, che, anche se nessun medico glielo aveva mai detto e nessun computo di calendario glielo aveva mai confermato, cominciava a invecchiare.

E fu proprio a questo inclemente stadio della sua esistenza che arrivò il giorno in cui a villa Boldi penetrò l’ignaro Ciuffolo.

Nessuno a dire il vero avrebbe saputo dire quale fosse il suo nome, ma siccome dobbiamo dargli un nome per distinguerlo da Pluto, Ciuffolo andrà benissimo.

Era una giornata di sole appena tiepido e anemico che non faceva promettere nulla di buono. Quelle giornate che riempivano Pluto di tristezza, perché ricordava sia pure confusamente di quando in cielo risplendeva un doppio sole che riempiva l’aria di colori e calore e le sue membra erano agili e scattanti e non gli mancava il fiato se solo la galoppata nelle rosse praterie era un po’ più intensa del solito. Pluto, dicevamo, dopo avere lappato la sua scodella di latte mattutina, si aggirava per il parco con passo decisamente meno brillante di un tempo, anche se ancora felinamente saldo.

Quand’ecco, vicino alla fontana con la ninfa di pietra al centro, spuntare da sotto di una delle panchine che la contornavano, un batuffolino bianco come il latte, con una stella nera in fronte.

Era Ciuffolo, un incauto e ignaro micino di poche settimane che chissà come era finito dentro quella villa che per anni e anni era stata terreno vietato per tutti i felini dei dintorni e dominio incontrastato di Pluto, il re della giungla di villa Boldi.

Pluto si arrestò di colpo, col pelo irto e la schiena inarcata, pronto a mettersi a soffiare contro l’intruso, come aveva già fatto un tempo contro altri improvvidi felini, neanche si fosse trovato davanti un truculone di cui pure cominciava ormai ad avere solo un confuso ricordo. Ma qualcosa gli impedì di proseguire in quella schermaglia anticipatrice di tremenda tenzone.

Ohibò, mettersi a soffiare contro quel batuffolino inerme non era dopotutto degno del grande Pluto. Per il re di villa Boldi poteva solo esserci un avversario degno di lui. Se non proprio un truculone, almeno uno di quei grossi gatti randagi che qualche volta avevano tentato di sfidare il suo dominio. Non quell’affarino sottopeso che al più poteva essere considerato solo un acconto di gatto.

Ciuffolo, ignaro del pericolo scampato, gli andò incontro traballando sulle zampette e miagolò in modo talmente straziante da sciogliere anche un cuore di pietra.

Non quello di Pluto, naturalmente. Ci voleva ben altro per lui. Ma il miagolio del batuffolino aveva un significato preciso. «Ho tanta fame.»

Sgrunt, pensò Pluto, che sfacciato. Proprio a me viene a chiedere da mangiare, l’impudente.

Gli rispose allora con una raffica di miagolii via via più terrificanti, che tradotti dal gattesco significavano «Pussa via, esci dalla villa e vattene per la tua strada. Qui non è aria per te.»

Ma Ciuffolo doveva essere un po’ tonto, o forse i miagolii di Pluto avevano ancora un accento straniero che non aveva perso nel corso degli anni, o forse Ciuffolo era talmente affamato che gli sfuggì il significato di quei miagolii e anzi avanzò di una trentina di centimetri e andò a strofinarsi contro le possenti zampe di Pluto.

Uffa, pensò quest’ultimo. È il colmo. Questo impiastro si mette a farmi le fusa.

«Perché sa che qui sei il padrone,» gli disse una vocina che veniva da chissà dove, forse proprio da dentro di lui.

Ciuffolo lo guardava supplichevole e Pluto, dopo un ultimo ringhio, gli mollò una zampata che lo fece rotolare nel vialetto. Ma non fu una zampata cattiva, solo un invito, un po’ brusco è vero, perché si avviasse in una certa direzione.

Ciuffolo dopo un paio di rotoloni si rialzò in piedi e lo guardò confuso.

«Miaooo.» disse, o meglio «Miaooooo?», perché non aveva capito.

Al che Pluto sbuffò seccato. Che sottospecie di gatto, pensò. E siccome Ciuffolo continuava a guardarlo con senza capire, gli si avvicinò, chinò il muso e l’abbrancò per la collottola.

Due minuti dopo lo depose a terra, un po’ bruscamente è vero, perché a certe gentilezze non era davvero avvezzo, davanti alla sua ciotola personale che una mano premurosa aveva nel frattempo riempito.

«E adesso mangia, impiastro!» gli ingiunse col miagolio più feroce che gli riuscì di fare.

E Ciuffolo non se lo fece ripetere due volte. Convinto da quell’ordine perentorio, o più probabilmente dal profumo di latte che si levava dalla ciotola, infilò il muso nel latte e lappò, lappò e lappò finché il pancino non gli parve scoppiare. Dopo di che crollò a terra gonfio come un otre, incapace di muoversi.

Ba’, pensò Pluto, questi gatti d’oggi non sono più come quelli di una volta. Se lo raffigurava quel paciocco di felino di fronte a un truculone. Sai che boccone prelibato sarebbe stato… Ormai aveva esaurito la sua dose di gentilezza e con una musata spinse il povero Ciuffolo lontano dalla ciotola, in un angolo pieno di foglie. «Non starmi tra i piedi,» ringhiò.

Ma Ciuffolo neanche gli rispose. Emise un lungo rutto e si addormentò di colpo, sognando ettolitri di latte e un gattaccio cattivo che gli faceva versi feroci.

Pluto trotterellò via, raggiungendo il suo punto preferito, Una tettoia sopra cui nelle belle giornate poteva crogiolarsi al sole e in quelle incerte ripararsi al di sotto da spifferi d’aria e pioggia. Stasera lo caccio, pensò. Quell’impiastro non penserà di piantare le tende a casa mia. Ne ho fatti scappare di ben più grossi! si disse. Dopo di che si addormentò sotto la tettoia, perché quel giorno tirava una corrente d’aria freddina, e anche lui sognò. Sognò di quando era un gattino striminzito che fuggiva impaurito davanti ai truculoni nelle rosse praterie o sfuggiva miagolando terrorizzato ai viscidoni delle grotte e poi un gattone giovane e gagliardo che aveva ingaggiato epiche battaglie contro i felini che avevano cercato di insidiare la sua supremazia a villa Boldi.

Più tardi scoppiò un temporale e Pluto fu ben felice di essersi rintanato nella sua cuccia calda. Si complimentò anzi con la sua preveggenza, perché sarebbe stato poco piacevole svegliarsi sotto un diluvio di pioggia. Dopo tutto la pioggia non gli era mai piaciuta. Là nella lontana prateria rossa pioveva raramente e non aveva mai saputo abituarsi a quegli sgradevoli scrosci che ogni tanto si abbattevano su Villa Boldi.

Quando tornò il sole, uscì da sotto il portico per sgranchirsi le zampe. Trotterellò allegramente sul viale della villa verso la ciotola di latte che sicuramente lo attendeva nell’atrio di casa, come succedeva sempre quando il tempo era inclemente.

Solo quando passò di fianco al muro di casa si ricordò di Ciuffolo e guardando nell’angolo dove lo aveva spintonato con una musata, lo scoprì tutto fradicio e tremante. E sì, perché il povero Ciuffolo non si era mosso da dove era stato cacciato.

Ma che razza di imbranato! pensò furioso Pluto. E gli miagolò: «Non ti ha insegnato nessuno che quando piove ci si ripara?»

Ma Ciuffolo era così intirizzito che neanche trovò la forza di replicare e Pluto gli si avvicinò, lo prese per la collottola e lo trasportò in un punto riparato della casa, dove lo leccò per asciugarlo e alla fine, visto che lo scricciolo continuava a tremare, gli si sdraiò al fianco e lo scaldò col proprio corpo.

E fu così che nacque la grande amicizia tra Pluto e Ciuffolo.

Ora è passato altro tempo. Pluto è invecchiato ancora e Ciuffolo si è fatto giovane e scattante. Per Pluto è un piacere vederlo correre per i prati, scalare gli alberi e inseguire gli uccellini. Gli ricorda tanto la sua gioventù. E fintanto che a villa Boldi c’è qualcuno che tiene alto il nome della gattoneria, lui può starsene allungato al sole a digerire in pace il latte lappato. Fra poco Ciuffolo sarà nel pieno delle forze e allora gli insegnerà come tenere lontano gli intrusi dal loro regno e con questo pensiero il grande Pluto può accucciare il capo tra le zampe e sonnecchiare, rivivendo la sua vita avventurosa, cominciata in un luogo ormai remoto e solo nebulosamente ricordato dove l’erba della prateria era rossa e dalle tane sotterranee sgusciavano gli affamati truculoni dai denti a sega e poi proseguita nell’agiatezza di quel parco immenso di Villa Boldi, dove l’unico vero imprevisto era stata una dolce gattina che per un breve periodo aveva rivoluzionato la sua vita. Gli antichi ricordi si fanno però ogni giorno più nebulosi e qualche volta la rossa prateria sfuma confusamente per trasformarsi in prati verdeggiante e i truculoni non gli sembrano più così feroci ma solo buffe creature forse irreali. E così la mente di Pluto divaga in un suo mondo personale in cui le realtà di due mondi distinti si confondono e si sovrappongono, popolati di truculoni e viscidoni e bellicosi gatti randagi e dolci micine siamesi, e Pluto, sogna, sogna ricordando soprattutto il periodo più glorioso della sua vita, i tempi eroici in cui era lui, Pluto, il gatto dei due mondi, l’unico difensore del territorio di villa Boldi.

Antonio Bellomi
+ posts

ha svolto la sua attività nel campo dell’editoria per più di cinquant’anni. Ha diretto numerose testate dedicate al giallo, alla fantascienza, all’horror, al western e al fumetto. Ha scritto praticamente per ogni genere di letteratura popolare, dal giallo alla fantascienza, dal western alla narrativa per ragazzi e ha pubblicato più di trecento racconti su una miriade di periodici.