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scrivere fantascienza sesta parte

Sesta

In tutta franchezza, non avrei mai pensato di scrivere una sesta parte di Scrivere fantascienza, allungando ancora un testo che si è dipanato negli anni, se non fosse stato per un dibattito intervenuto su Facebook tra due esperti del settore che sono anche due carissimi amici, dibattito nel quale sono stato chiamato in causa, Franco Giambalvo e Giorgio Sangiorgi.

Franco Giambalvo aveva postato su FB un commento in cui diceva che nessun autore italiano, in ultima analisi, scrive fantascienza in modo veramente scientifico, e di essere loro profondamente grato di questo.

Io credo pensasse, e se sbaglio sono disposto a prendermi tutti i fulmini del caso, a tanta fantascienza americana degli esordi, fatta di racconti che erano descrizioni di macchinari o esposizioni di teorie magari scientificamente corrette, ma dal punto di vista narrativo, dei polpettoni illeggibili.

Gli ha fatto eco Giorgio Sangiorgi, dicendosi tra l’altro fiero di aver convertito Fabio Calabrese “che è un purista” alla space opera con la mia partecipazione alla serie Astronave Omega, terza stagione e poi allo spin off Aleph (anzi, in quest’ultimo sono stato io ad aver coinvolto Sangiorgi), due serie di avventura spaziale che abbiamo redatto a quattro mani, e – penso – particolarmente riuscite, tanto che Aleph è stato per due settimane in testa alla classifica dei libri di fantascienza italiani più venduti da Amazon.

Tuttavia, ciò mi impone di rispondere ad alcune domande: è vero che sono “un purista”? In che senso lo sono? Scrivendo space opera ho in qualche modo tradito la mia ispirazione e/o la mia concezione di base della fantascienza?

Per essere chiari, è bene precisare che la space opera non è fantascienza in senso stretto se intendiamo questo termine nel suo significato originario di “narrativa scientifica”, infatti ignora o cerca di aggirare il problema dell’incommensurabilità delle distanze interstellari che rendono non plausibili sia le avventure spaziali su mondi distanti dal sistema solare (lasciamo a parte il discorso sulle avventure planetarie all’interno di esso), sia, e tanto più, gli imperi galattici, la Fondazione asimoviana o la Federazione di Star Trek (immagino che adesso mi attirerò la maledizione di tutti i trekker, ma Star Trek non è un’immagine attendibile del nostro futuro più di quanto lo sia Guerre stellari). Allo stesso modo, non è fantascienza in senso stretto l’ucronia, la narrativa basata sulla “storia scritta coi se”, basata su possibilità storiche che non si sono realizzate (se i sudisti avessero vinto la guerra civile americana, se l’Asse avesse vinto la seconda guerra mondiale), in quanto si basa su ciò che non è per definizione.

Brian Aldiss ha definito la space opera un’impertinente sorella minore della fantascienza.

E allora – mi sono detto – e allora? Scrivere space opera deve essere per forza un tabù, una volta chiarito che non si tratta di fantascienza?

Essere chiari, onestà verso il lettore, se per “purismo” si intende questo, io mi ci riconosco in pieno.

Ricordo che, assieme a Roberto Furlani, ho curato la webzine “Continuum”. Uno degli impegni che ci eravamo dati, era quello di creare una pubblicazione di fantascienza che presentasse sulle sue pagine (virtuali, trattandosi di una webzine) proprio fantascienza. Infatti, si può facilmente osservare che sulle riviste, le collane, le fanzine “di fantascienza”, perlopiù si trova di tutto: sperimentalismo letterario, noir, fantasy, horror, e proprio se avanzano un po’ di spazio e tempo, magari anche un po’ di fantascienza.

Questo, l’avevo spiegato in un editoriale su “Continuum”, non significa disprezzo verso gli altri generi, ma semplice onestà: se compro una scatola di fagioli, mi aspetto di trovare al suo interno fagioli e non piselli, magari i piselli mi piacciono più dei fagioli, ma quando l’ho acquistata, non era quello che volevo.

A essere sinceri, da questo punto di vista Roberto Furlani si è dimostrato più purista di me, che qualche piccolo strappo l’avrei fatto. Ad esempio, Donato Altomare ci fece avere una recensione della mia antologia di racconti di horror lovecraftiano Nel tempio di Bokrug pubblicata dalla Dagon Press. Io un’eccezione l’avrei fatto volentieri, considerando sia il fatto che si trattava della recensione di un mio libro, sia il fatto che quella di Donato Altomare è una firma di indubbio prestigio nei nostri ambienti (Donato è oggi presidente della World SF Italia). Non ci fu nulla da fare, Furlani fu irremovibile: Nel tempio di Bokrug non è fantascienza; quindi, la recensione su “Continuum” non andava.

Una volta chiarito cosa è fantascienza e cosa non lo è, tenendo sempre un atteggiamento di onestà verso chi legge, però, cosa vieta di occuparsi anche di altri generi fantastici? Io ho all’attivo una vasta produzione sia di heroic fantasy (dei quattro romanzi che ho scritto, due La spada di Dunnland e Una spada per un re, rientrano appunto in questo genere, e taccio ora delle antologie), di horror tradizionale (ricordo al esempio l’antologia I canini sulla giugulare, che credo sia una specie di record di racconti di un solo autore tutti dedicati alla tematica del vampirismo), sia di quella forma più moderna di horror, l’orrore cosmico, creata da H. P. Lovecraft, e in questo campo posso ricordare le ben cinque antologie “lovecraftiane” pubblicatemi dalla Dagon Press.

Perché dunque, una volta messi gli opportuni paletti non tentare anche la space opera?

Tuttavia, mi accorgo che c’è anche un altro senso in cui potrei essere considerato “un purista” della fantascienza. Me ne accorsi già nel lontano 1975 a Padova, alla premiazione della prima edizione del premio Mary Shelley indetto dalla fanzine “The Time Machine”, una delle primissime iniziative che riaprivano il discorso sulla fantascienza dopo un lungo periodo di silenzio, il cosiddetto “buco nero”. Io ero finalista con il racconto Sheila, (ripubblicato nel 2010 sul n 126 di “Delos”). Mi capitò di ascoltare una discussione fra altri finalisti, che discutevano di stile e di generi. All’improvviso, capii che quella discussione non mi era di alcuna utilità: loro erano SCRITTORI di fantascienza, mentre il ero uno scrittore DI FANTASCIENZA, ossia la mia narrativa era strettamente vincolata all’idea. Per me era, e sarebbe impossibile decidere di scrivere una storia new wave, “classica”, noir, cyberpunk o quello che volete, è l’idea a determinare sia lo stile, sia l’ambientazione o lo svolgimento.

Ad accorgersi che dovevo, in qualche modo, differire dallo scrittore-tipo, fu anche Piero Giorgi, curatore della fanzine “Kronos” di Mestre. Quando gli inviai il racconto L’autostrada (ripubblicato nell’antologia Alieni, robot e terrestri, Edizioni Scudo 2021), me lo pubblicò ugualmente, ma mi scrisse una lettera nella quale mi diceva che, a suo parere, mi stavo cacciando in un vicolo cieco. È più di mezzo secolo che percorro questo vicolo cieco, e ormai dispero di vederne la fine nell’arco della mia vita.

Vorrei farvi qualche esempio per permettervi di capire meglio. Prendete il racconto Starlight apparso nell’antologia Strani giorni (Urania Millemondi 1998). L’idea di questo racconto nacque osservando un disco di vinile, di quelli in uso un tempo, un 33 giri che girava su un giradischi. Le parti più vicine al centro erano nitide, permettendo di vedere la grana del disco, mentre quelle più esterne apparivano sfocate, perché, essendo il disco un oggetto rigido, dovevano compiere nello stesso tempo un diametro maggiore. Mi venne da pensare che se l’universo fosse altrettanto rigido e si comportasse nello stesso modo, questo porrebbe un limite alla sua espansione, che coincide con il tempo stesso, che non potrebbe proseguire oltre quando le parti più esterne avessero raggiunto la velocità della luce.

Mettiamo che uno scienziato abbia scoperto che il tempo sta per finire. Molla tutto e se ne va a godere la vita ai tropici, salvo tornare sulla scena all’ultimo momento per vendicarsi di un collega che gli ha rovinato la carriera e portato via la moglie. Uno scrittore-tipo non avrebbe mai concepito la storia in questo modo, sarebbe, all’inverso, partito dal contrasto fra i due scienziati e poi cercato di giustificare in qualche modo l’imminente fine del tempo.

Un altro esempio: La sagola (pubblicato in Le vie delle stelle, Edizioni Scudo 2015). Il teletrasporto di cui gli sceneggiatori di Star Trek usano e abusano, potrebbe mai funzionare? Quanto meno sarebbe necessaria una condizione che costoro bellamente ignorano: mettiamo che si possa scomporre un corpo nelle sue componenti subatomiche da spedire altrove alla velocità della luce, perché non viaggino nello spazio sotto forma elettromagnetica per l’eternità, sarebbe necessario perlomeno un ricevitore che le intercetti e ricostruisca il corpo originario, ma questo ricevitore qualcuno deve portarlo nel luogo di destinazione, con mezzi ovviamente diversi dal teletrasporto stesso.

Un altro esempio ancora: nei laboratori di fisica nucleare hanno prodotto l’elemento zero della tavola periodica, il cui atomo non contiene protoni né possiede elettroni, ma è composto da due neutroni accoppiati. Si può ricavare un racconto da uno spunto del genere? Leggete L’ultimo segreto nell’antologia Nuove storie marziane (Edizioni Scudo 2020), poi ne riparliamo.

Scrivere fantascienza: eterocefalo glabroLe scienze biologiche possono costituire fonte d’ispirazione altrettanto bene delle scienze fisiche: ad esempio, un tema molto stimolante è questo: nonostante che l’umanità viva oggi in agglomerati di milioni di persone, gli istinti di base che regolano la nostra socialità sono ancora quelli adatti a piccole comunità di poche decine di antropoidi, e questo fatto è all’origine della serie quasi infinita di conflitti e di delitti che riscontriamo nel nostro mondo. Perché comunità così numerose possano funzionare davvero, sarebbe necessario che le funzioni riproduttive fossero monopolio di un numero limitato di individui, come avviene per gli insetti sociali (api, formiche, termiti) ma anche per certi mammiferi, come l’eterocefalo glabro africano, ma la tendenza è presente in misura minore anche nei canidi, soprattutto nei licaoni. Si può immaginare una comunità umana di questo tipo? Io l’ho fatto nel racconto La madre nell’antologia I mondi di domani (Edizioni Scudo 2018). Certo, lo stesso tema è stato trattato da Frank Herbert nel romanzo L’alveare di Hellstrom e da John Windham nel racconto Considera le sue vie, ma non vi sembri presuntuoso che lo dico: in maniera meno rigorosa del sottoscritto.

Altro tema intrigante, quello del parassitismo, soprattutto colpisce la capacità che hanno alcuni parassiti di modificare il comportamento dell’ospite, questo avviene soprattutto nel caso di animali che sono ospiti temporanei del parassita, che completerà poi il suo ciclo evolutivo in un animale che di solito è un predatore del primo. Il racconto che ho scritto, sviluppando questo spunto, è esattamente Ospite temporaneo (pubblicato nel 2013 su “Delos n. 154, e poi nel 2021 nell’antologia Incontri alieni, Edizioni Scudo. Si tratta anche di uno dei miei pochi racconti pubblicati all’estero: è infatti apparso in Francia nel 2015 sul sito “Un/e auteur/e de nouvelles”).

In tutta franchezza, mi domando, senza cadere nei polpettoni dei primordi della fantascienza che erano illeggibili descrizioni di macchinari, come si faccia a scrivere in modo più “scientifico” di così.

Onestamente, ho provato un paio di volte a scrivere dei racconti nella maniera in cui procederebbe uno scrittore “normale”, cioè basandomi su di un ambiente e l’interazione dei personaggi, ci ho provato un paio di volte, e in entrambi i casi, ne sono usciti due racconti di heroic fantasy, L’occhio verde e soprattutto L’occhio di Savankala, quest’ultimo si inserisce nel ciclo del Mondo dei Ladri creato da Michel Asprin, e da parte mia è stata una vera performance, perché ho inserito nel racconto quasi tutti i personaggi del ciclo. L’occhio verde è stato pubblicato in Daghe e malie, antologia Fanucci del 1988, poi nella mia antologia personale Il risveglio della spada, Edizioni Scudo 2012, dove compare anche L’occhio di Savankala, ma appunto, in questi due casi non si tratta di racconti di fantascienza.

A parte queste due eccezioni, voi a questo punto probabilmente vi domanderete come sia possibile, con l’impostazione che vi ho descritto, passare all’heroic fantasy e all’horror? Ci sono vari trucchi: io ad esempio ho spesso tratto spunto dalla mia inveterata e malsana passione per i giochi di parole e gli anagrammi, ad esempio, il nome di una delle “divinità” tolkieniane, Orome, si presta a essere anagrammato sia come Romeo, sia come Omero, da questo spunto è nato il racconto Memorie ancestrali, ancora, arcobaleno in tedesco si dice Regenbogen, mentre in francese è arc-en-ciel, due parole dal suono molto diverso, la prima potrebbe appartenere al linguaggio dei nani di Tolkien, la seconda, molto più dolce, ha un suono elfico. Uno spunto sufficiente per scrivere la storia dell’amore fra un nano e una fanciulla elfica, Regenbogen e Arcenciel, appunto. Un altro gioco di parole francamente più banale: armadio-arma-di-Dio, mi ha fornito lo spunto per scrivere il racconto L’arma di Dio, che non è di ispirazione tolkieniana, ma che nel 2006 ha vinto il premio Silmaril della Società Tolkieniana Italiana. Tutti e tre questi racconti li trovate ora nell’antologia Il risveglio della spada, Edizioni Scudo 2012.

Per l’horror vale la stessa cosa: ad esempio, prendete i nomi arcaici di alcuni animali: lione (leone), liopardo (leopardo), liofante (elefante), liocorno (unicorno, potrebbe essere il rinoceronte), c’è sempre questo prefisso, lio-, un passo in più ed ecco spuntare il Liomo, l’uomo ferino che ho fatto sorgere dalle sabbie del deserto africano, qualcosa un po’ a mezzo tra un licantropo e un wendigo (il racconto lo trovate nell’antologia Incubi e prodigi, Edizioni Scudo 2012).

Ancora, e se i famosi giardini pensili di Babilonia fossero stati in realtà giardini pRensili con piante tentacolari e animate, veri e propri vampiri vegetali, è quello che scopre a sue spese un marine tornato dall’Iraq che mette incautamente a dimora un antico seme ivi trovato nel racconto Bottino di guerra nell’antologia I canini sulla giugulare (Edizioni Scudo 2017).

Si può giocare con le lettere ma anche con i numeri. Prendete un segno un po’ ambiguo: potrebbe essere un 2 con il tratto orizzontale inclinato oppure una R cui manca il tratto verticale. Mi sono gingillato a lungo con questa idea tentando di scrivere una storia gialla in cui una persona in punto di morte riesce a scrivere il nome del proprio assassino mascherandolo come un numero: 80221, ossia BORRI, ma non c’è niente da fare, non sono portato per la crime story. Alla fine, per non buttare via l’idea, l’ho trasformata in una storia fantastica a cavallo fra fantascienza e horror, facendo intervenire un altro vampiro vegetale, e trovate pure lui in I canini sulla giugulare, specialmente se andate A pranzo dagli zii.

Racconti-idea o come dice qualcuno, racconti a tesi, racconti basati su idee scientifiche per quanto riguarda la fantascienza, di vario genere, soprattutto legati ai jeux d’esprit per quanto riguarda la fantasy e l’horror.

So che esistono corsi di scrittura creativa dove, dietro il versamento di compensi non sempre modici, insegnerebbero a produrre narrativa, ma ammetto di non averne mai frequentato uno. Il mio è un lavoro da autodidatta, ma credo che per la maggior parte degli scrittori valga esattamente lo stesso.

Sono sicuro che esistono metodi di scrittura, di creazione letteraria migliori del mio, che producono risultati più validi, ma ciò che vi ho descritto è quel che conosco e faccio.

Adesso mi fermo qui. Franco Giambalvo e Giorgio Sangiorgi sono riusciti a indurmi a fare quel che un bravo mago non dovrebbe mai fare, cioè svelare i propri trucchi.

 

scrivere fantascienza sesta parte

Immagine scelta da Giorgio Sangiorgi, che ringraziamo.