Aspettando gli alieni, nasce quando Alessandro Iaschy aveva deciso di pubblicare la sua Andromeda “formato rivista”. Purtroppo fu poi costretto a chiudere l’esperimento, dopo pochi numeri, non certo per suo difetto. Ezio Amadini, scrittore decisamente interessante, che qui leggiamo nel suo secondo racconto apparso su Andromeda, dopo quel Roma Anno Zero, che i nostri lettori hanno già letto, aveva anche partecipato a uno di quei pochi numeri usciti.
Il fatto accadde quando ero ancora un pilota dell’Aviazione dell’Esercito degli Stati Uniti, di stanza nel Pacifico, nella primavera del 1945.
Fu un evento talmente incredibile che ancora oggi faccio fatica a credere che sia realmente accaduto.
Mentre volavo appena sopra le nuvole su un piccolo idrovolante preso in prestito durante quella mia breve licenza, notai un improvviso calo di luce e capii di essere entrato in un cono d’ombra.
Tentai di sbirciare verso l’alto per capire cosa si fosse frapposto tra il mio aereo e il sole, ma senza successo a causa dell’esiguo angolo di visuale di cui godevo.
Allora decisi di mettere il velivolo in volo rovesciato e… restai quasi paralizzato dallo stupore, o forse dalla paura.
Un’enorme massa scura e metallica sovrastava il mio aereo, procedendo alla stessa velocità. Era così grande e così vicina che non riuscivo neanche a vederne i contorni.
Pensai dapprima a un dirigibile, ma andavo troppo veloce per uno di quei grossi palloni; poi pensai a qualche nuova diavoleria giapponese e, infine, pensai semplicemente che ero spacciato.
Mentre aspettavo la morte, osservai una grande sezione di quella cosa aprirsi lentamente, mostrando al suo interno null’altro che la più assoluta oscurità.
Poco dopo il motore del mio areo si spense e l’elica smise di girare, ma non avvertii l’accelerazione della inevitabile caduta: al contrario, l’aereo ruotò su sé stesso per rimettersi in volo dritto, salì lentamente verso l’alto fino a essere inghiottito da quella gigantesca bocca nera, e infine si posò delicatamente su un qualche tipo di pavimento.
Non so dire per quanto tempo restai così, seduto immobile nel mio aereo, immerso nell’oscurità più assoluta, perché persi i sensi dopo pochi minuti.
***
Galleggiavo nel nulla, avvolto dal silenzio.
Tentai di aprire gli occhi, lentamente, permettendo a una tenue luce soffusa di filtrare attraverso le palpebre socchiuse. Lentamente, l’immagine iniziò a comporsi, dapprima sfocata, poi sempre più nitida: era l’immagine di un soffitto bianco, piatto, liscio, privo di qualsiasi irregolarità.
Girai la testa verso sinistra, ma non vidi nulla di diverso dalla continuazione del soffitto che diventava parete, con la stessa monotona assenza di dettagli.
Allora girai la testa verso destra e notai delle apparecchiature la cui natura non riuscii a comprendere. Erano anch’esse bianche, con degli schermi sui quali scorrevano simboli colorati per me del tutto privi di significato.
Provai a far leva sulle braccia per alzarmi, ma esse sprofondarono nel nulla e il mio busto non si mosse di un millimetro. Nello stesso momento, quasi in risposta al mio tentativo di muovermi, la luce si intensificò e qualcosa iniziò a lampeggiare in cima all’apparato che avevo appena osservato.
Quella di galleggiare nel nulla non era stata solo una sensazione sognata durante l’oblio, ma era ciò che stavo realmente facendo.
Con mia grande sorpresa mi resi conto che il mio corpo fluttuava a mezz’aria, senza la possibilità di spostarsi, non avendo nulla contro cui fare leva.
Prigioniero senza catene, senza legacci… prigioniero del nulla.
Poco dopo, con un sibilo simile a quello del passaggio di aria compressa in un tubo, una sezione della parete bianca davanti a me si aprì ed entrò una… una figura apparentemente umana.
Il seno pronunciato mi suggeriva di classificarla come appartenente al genere femminile, così come le lunghe gambe snelle, la vita stretta e la capigliatura fluente, di colore arancione.
Tuttavia la sua pelle era celeste, gli occhi erano d’oro e simili a quelli di un gatto e l’ampia fronte era adornata da due notevoli protuberanze ossee.
Il naso era quasi inesistente, mentre la piccola bocca era decisamente simile a una bella bocca di donna terrestre.
Sorrise, mostrando una serie di piccoli denti candidi e pronunciò qualcosa in una lingua del tutto incomprensibile.
Immagino che il mio sguardo da ebete in preda al panico le suggerì che non avevo capito niente, perché subito dopo l’aliena si batté una mano sulla fronte, si avvicinò e applicò rapidamente un piccolo oggetto esattamente sotto la mia gola, servendosi di uno strano strumento a forma di pistola.
Solo allora mi resi conto, con un certo sgomento, di essere completamente nudo.
«Benvenuto tenente, come si sente? È probabile che avverta un lieve giramento di testa, ma le passerà molto presto. È solo una sgradevole conseguenza del processo di adattamento ambientale,» disse l’aliena in tono gentile, sempre sorridendo.
«Lei mi capisce? Dove sono? Lei chi è? Cosa mi ha messo sotto la gola? Perché non mi posso muovere? Dove sono i miei vestiti? Cosa mi è successo…?»
«La prego, tenente, cerchi di calmarsi.» L’aliena interruppe sul nascere la valanga di domande che, con tono sempre più disperato, avevo iniziato a rovesciarle addosso. «Non si agiti. Lei è un pilota da caccia, pensi al suo addestramento militare e si mantenga tranquillo. Io sono un medico, mi chiamo Olla e mi sono occupata del suo adattamento ambientale.
Quello che le ho impiantato sotto la gola è un traduttore universale istantaneo, che ci sta permettendo di comunicare. Lei si trova su un’astronave scientifica e non corre alcun pericolo. Presto avrà tutte le spiegazioni che desidera.»
Così dicendo, Olla si avvicinò all’apparato che avevo visto prima, sul quale armeggiò per alcuni secondi. Subito dopo, una specie di grande mensola uscì dalla parete, posizionandosi sotto di me, e il mio corpo smise di fluttuare; in fondo alla mensola c’erano i miei abiti, ma… come notai subito… non la mia pistola d’ordinanza.
“Si metta seduto, tenente”, mi invitò Olla. “Stia così per qualche minuto, e quando non avvertirà più sensi di vertigine si alzi in piedi e si rivesta. Faccia con calma, ha tutto il tempo che vuole. Quando sarà pronto la verrò a prendere io.»
Poi toccò qualcosa sull’apparato, che lentamente sparì nel pavimento, e uscì lasciandomi solo, seduto sulla tiepida mensola di metallo.
***
I miei abiti da civile erano puliti e stirati, ma del tutto privi di qualsiasi odore: di certo non erano stati lavati con detersivi terrestri.
Mentre mi rivestivo, cercavo con tutte le forze di accettare una verità impossibile: ero stato rapito da una razza aliena.
Subito mi vennero in mente tutte le assurde storie che avevo sentito sul triangolo delle Bermude, sui tanti piloti e marinai scomparsi e mai più ritornati.
Il panico iniziò a farsi strada dentro di me, serrandomi lo stomaco come un serpente che stritolasse la preda. Tirai un profondo sospiro e, seguendo il consiglio di Olla, feci ricorso a tutto ciò che avevo imparato durante il severo addestramento militare fino a riuscire a calmarmi e a ricompormi.
«Se avessero voluto uccidermi o vivisezionarmi lo avrebbero già fatto,» mormorai tra me, cercando di rincuorarmi. «Sono un ufficiale dell’Aviazione degli Stati Uniti, devo mantenere un contegno adeguato e poi, in fin dei conti, qui rappresento l’intera razza umana.»
Appena fui pronto Olla ricomparve come per miracolo, sempre sorridente.
«Bene tenente, vedo che si è ripreso perfettamente. Posso immaginare il suo stato d’animo, ma si tranquillizzi. Qui nessuno vuole farle del male. Vogliamo solo fare due chiacchiere con lei.»
«Mi avete rapito solo per fare due chiacchiere? Vi stavate annoiando di brutto!» ribattei, con un po’ di feroce ironia.
«Le chiediamo solo un po’ di pazienza, tenente,» rispose Olla, ignorando il mio sarcasmo. «Dopo che avrà parlato con il Comandante Ramak sarà libero di decidere se restare ancora un po’ con noi o tornare dov’era. Solo qualche minuto di pazienza.»
Restai in silenzio mentre seguivo quella strana e gentile creatura lungo bianchi e anonimi corridoi.
Tanto valeva fare buon viso a cattivo gioco, visto che non sembravano avere cattive intenzioni. Non subito, quanto meno.
***
Fui accompagnato in un’altra stanza bianca e anonima come la precedente. Olla armeggiò su un piccolo riquadro inserito in una delle pareti e dal pavimento, spuntarono lentamente un tavolo e quattro sedie.
«Si accomodi, tenente,» mi invitò. «Il Comandante Ramak e lo Scienziato Spokan ci stanno per raggiungere.»
Mi ero appena seduto quando una sezione di una delle pareti si aprì con il solito rumore di sbuffo di aria compressa ed entrarono due nuove, quanto inquietanti figure.
Scattai nuovamente in piedi, un po’ per educazione e un po’ per la radicata abitudine al rispetto del grado: in fin dei conti, uno dei due era il comandante.
Quello enorme si presentò come Ramak, capitano dell’astronave e responsabile della missione. Mi porse la mano alla maniera terrestre e sorrise, mostrando due pronunciati canini degni di un grande felino.
Di sembianze umanoidi, era alto almeno due metri e venti centimetri, massiccio come un toro, tanto che calcolai dovesse pesare almeno 160 Kg. La pelle scura formava strane grinze sul collo e sul viso, gli occhi da gatto erano quasi del tutto neri, il grande naso adunco troneggiava in mezzo al viso allungato, mentre una folta chioma di lunghi e crespi capelli neri scendeva fino alle spalle.
La fronte sporgente ricordava le ricostruzioni dell’uomo di Neanderthal che avevo visto sui libri di scuola e poi c’erano quei terribili denti da tigre. Sebbene sorridesse, Ramak faceva davvero paura: sembrava l’incarnazione dell’orco cattivo delle favole che mia nonna mi raccontava da bambino.
Contraccambiai stretta di mano e sorriso, ma ero certo che la mia espressione tradisse tutta la mia paura.
Lo Scienziato Spokan era l’esatto contrario di Ramak.
Non raggiungeva il metro e mezzo di statura, era talmente magro da apparire quasi gracile e aveva sembianze umane, tranne per le lunghe orecchie pelose e appuntite che gli adornavano la testa. Mi salutò con un curioso gesto della mano, senza accennare alla tipica stretta terrestre.
Ci sedemmo tutti e quattro intorno al tavolo.
«Per prima cosa, tenente, le porgiamo le nostre scuse per il modo in cui l’abbiamo prelevata,» iniziò Ramak, pacato e in tono amichevole. “Immagino che lei capisca bene che non avevamo molte alternative.»
«Ormai sono qui, Comandante Ramak,» risposi, tentando di ostentare noncuranza e sicurezza. «Al momento sono più interessato alle vostre intenzioni, specie per quanto concerne il mio rilascio.»
«Rilascio? La prego, tenente, non si consideri prigioniero,» esclamò subito Ramak, mostrandosi turbato e dispiaciuto. «Lei è libero di andare via quando vuole, anche subito, se non è interessato a questa conversazione. Sarà nostra cura rimetterla in volo con il suo aereo in tutta sicurezza, mi creda!»
«Come le dicevo, Comandante Ramak, ormai sono qui,» replicai, sentendomi già più tranquillo, «e per quanto emozionato, impressionato e forse anche spaventato, mi piacerebbe capire anche perché sono qui.»
«Molto bene, tenente,» annuì Ramak, mostrando i suoi terribili denti da predatore nel suo inquietante sorriso, «ci contavamo. Il mio aspetto la turba, vero? Le incuto timore… non dica di no, tenente, glielo leggo sul volto. In un certo senso è proprio di questo che le vogliamo parlare. Ora lo Scienziato Spokan le spiegherà tutto. Le chiediamo solo di avere pazienza e di aspettare a porre le sue domande.»
Nonostante l’aspetto così esile, la voce dello Scienziato Spokan era profonda, quasi baritonale, calda e melodiosa. Qualcosa in quella voce trasmetteva una sensazione di pace e di serenità, sensazioni di cui avevo estremo bisogno.
«Come lei avrà certamente compreso, Olla, Ramak e io proveniamo da tre mondi diversi o, se preferisce, apparteniamo a tre diverse razze aliene. Su questa astronave ci sono complessivamente 178 esseri, provenienti da 57 mondi.
La maggior parte ha sembianze umanoidi, ma alcuni sono del tutto diversi da noi, e altri hanno forme così diverse da risultare perfino sgradevoli alla vista. Tuttavia conviviamo, comunichiamo, ci rispettiamo, ci aiutiamo e ci proteggiamo a vicenda. Ci creda o no, è così in tutta la parte conosciuta ed evoluta di questa galassia.»
Spokan fece una pausa, tanto per lasciarmi assimilare ciò che aveva appena detto. Poi continuò: «La missione di questa astronave è di osservare l’evoluzione della razza umana terrestre che, dal punto di vista tecnologico, sta progredendo a una velocità quasi incredibile.
Quello che ci preoccupa, tuttavia, è la natura della razza umana, che appare ancora molto primitiva. State scoprendo l’energia nucleare, ma appena pochi anni fa, nel 1939, il vostro grande scienziato Albert Einstein, su pressione di alcuni suoi stimati colleghi, ha scritto una lettera al Presidente Roosevelt informandolo della possibilità di ottenere dall’energia nucleare potentissime armi di distruzione.
Sappiamo anche che il suo Paese, tenente, sta costruendo armi di questo tipo e ne ha già testata una in gran segreto. Riteniamo molto probabile che simili armi saranno utilizzate già nel corso del presente conflitto mondiale.»
«La guerra è quasi finita, Scienziato Spokan, Hitler è caduto e l’Impero del Giappone è ormai al collasso e…» tentai di ribattere, ma fui subito interrotto da Spokan che, imperturbabile, riprese la sua piccola conferenza.
«La prego, tenente, per adesso si limiti ad ascoltare, poi potrà fare le sue osservazioni e porre le tante domande che le saranno venute in mente.
La razza umana è ancora soggetta alla paura della diversità: da quando esistete, avete generato conflitti scatenati non solo dalla necessità di garantire la disponibilità di risorse, ma anche da odio razziale, religioso e, in generale, dalla paura di chi non è sufficientemente simile a questo o a quel raggruppamento umano. Come può ben immaginare, questo vostro atteggiamento preoccupa molto la Comunità Galattica,» concluse.
Restai in silenzio, cercando di capire cosa mi stavano dicendo. Io di energia nucleare non ne sapevo nulla, meno che mai di armi basate su tale energia. Quanto alla fisica, le mie conoscenze erano limitate a quel poco di meccanica dei fluidi necessaria al conseguimento del brevetto di volo. Mi sentivo estremamente confuso e non sapevo cosa dire, tuttavia mi resi conto che qualcosa dovevo dire, dal momento che i tre alieni mi stavano fissando in paziente attesa. Mi feci coraggio.
«Io non so niente di energia nucleare, Scienziato Spokan, forse avreste dovuto rapire… cioè prelevare… uno dei nostri scienziati, magari quell’Einstein, non so. Mi state dicendo che siamo troppo aggressivi e pronti alla guerra… immagino che abbiate ragione, visto che io stesso ne ho appena combattuta una, ma cosa dovrei fare? Perché sono qui?» Posta quella ovvia domanda, fu il mio turno di restare in silenzio ad aspettare un chiarimento.
«Lei è qui per aiutarci, tenente. Secondo le nostre previsioni i terrestri inizieranno a esplorare lo spazio molto presto: valutiamo concreta la possibilità che mettiate piede sul vostro satellite naturale entro pochi decenni. I vostri scienziati di questo secolo hanno gettato tutte le basi teoriche per lo sviluppo delle tecnologie che renderanno possibile il viaggio interstellare mediante la curvatura dello spazio.
Ormai è solo questione di tempo… un secolo, forse due… e poi vi troverete faccia a faccia con la Comunità Galattica. Questo ci preoccupa molto, tenente, perché l’idea di terrestri aggressivi in grado di dominare l’energia nucleare e quella prodotta dall’annichilazione della materia con l’antimateria ci fa molta paura.
Una razza incapace di accettare le diversità presenti al suo stesso interno che possibilità avrà di convivere con diversità così grandi come quelle che troverete nel resto dell’Universo? Lei stesso è rimasto impressionato dall’aspetto di Ramak e, mi creda, ci sono in giro esseri di gran lunga più impressionanti di lui! Già oggi nel vostro immaginario considerate gli alieni sempre e solo come una terribile minaccia!»
Di nuovo restarono in silenzio.
Mi sentii in grande disagio, con la netta sensazione di essere del tutto fuori luogo e inadeguato alla situazione.
«Non siamo poi così cattivi,» iniziai, cercando di difendere da solo l’intera razza umana. «Inoltre, sappiamo evolverci. Tra uno o due secoli avremo certamente imparato a vivere in pace. Questa guerra è stata devastante e credo che ci insegnerà molto…»
Fui però interrotto di nuovo dall’intransigente logica di Spokan.
«Le guerre non sono buone insegnanti, mi creda. Non avete imparato a rispettarvi e convivere in pace negli ultimi 5000 anni, da quando, cioè, avete iniziato a considerarvi civili, capaci di scrivere, di fare calcoli e di organizzarvi in strutture sociali sempre più complesse.
Cosa le fa credere che cambierete nei prossimi 200 anni, ammesso che non vi distruggiate da soli nel frattempo? Se quando raggiungerà la capacità di piegare lo spazio la razza umana non avrà modificato a sufficienza il suo approccio verso la diversità, e drasticamente ridotto il tasso di aggressività, noi… la Comunità Galattica,… saremo costretti a fare in modo che i terrestri non possano lasciare il loro sistema solare. E non sarà affatto una bella cosa, tenente.»
Ecco l’ultimatum, finalmente erano arrivati al vero nocciolo della questione: vi stiamo osservando e dovete imparare a comportarvi bene, oppure vi chiuderemo le porte dello spazio, o peggio. Sì, ma perché lo stavano dicendo a me?
«Perché lo dite a me? Cosa credete che io possa fare? In che modo vi potrei aiutare?» chiesi, infine, quasi disperato.
I tre alieni si scambiarono un’occhiata che a me sembrò di intesa, come se si fossero detti, “ecco, comincia a capire”… ma io, in verità, non stavo capendo niente e mi sentivo sempre più affranto.
Per fortuna, Spokan ricominciò a parlare con la sua melodiosa voce rassicurante e mi riscosse dai brutti pensieri.
«Noi riteniamo che sia necessario avviare un processo educativo riguardo all’idea che i terrestri hanno delle razze aliene. Non pretendiamo di cambiare la vostra evoluzione, né impediremo la vostra auto distruzione, se non sarete in grado di evolvervi.
Nel caso ce la facciate, però, vogliamo che siate pronti al contatto con le altre razze. Per questo stiamo segretamente contattando alcuni terrestri che ci aiuteranno in questo senso. Scienziati, scrittori, filosofi, comunicatori. Pochi e scelti con la massima attenzione.»
«Sì, ottima idea, ma io non sono uno scienziato, uno scrittore o un filosofo. Come rientro in tutto questo?» protestai debolmente.
«La stiamo osservando da tempo e i nostri esperti, con i loro sofisticati sistemi di valutazione, hanno individuato in lei il giusto potenziale,» rispose Spokan, abbozzando per la prima volta qualcosa di vagamente simile a un sorriso.
«E cosa dovrei fare per educare la razza umana all’idea di incontrare gli alieni?» insistetti, sempre più disperato.
«Questo lo dovrà capire da solo, tenente. Nel frattempo, le faremo fare un viaggio per la Galassia, così potrà rendersi conto e capire meglio di cosa stiamo parlando,» replicò Ramak, con quel suo terribile sorriso da predatore.
«Un viaggio per la Galassia?» ripetei da ebete. «Ma quanto tempo ci vorrà? Io… c’è gente che mi aspetta.» Proprio non sapevo più cosa dire.
«Non si preoccupi, tenente, in realtà non ci muoveremo da qui. Sarà un viaggio virtuale che faremo nella nostra sala olografica. Le piacerà molto, ne sono certa. Venga, ci segua,» concluse la gentilissima Olla, sorridendo come al solito e prendendomi per mano.
***
Il viaggio fu straordinario e forse non ci sono parole adatte per descriverlo. Come per magia fui trasportato in giro per la Via Lattea, viaggiando per centinaia di anni luce in mezzo a miliardi di stelle.
Visitai pianeti di ogni tipo, dei quali potevo toccare le rocce, le piante, l’acqua e perfino sentire gli odori. Mi bastarono pochi minuti per dimenticare completamente di essere in una sala olografica e convincermi che tutto ciò che vedevo, sentivo e percepivo fosse reale.
Mai avrei immaginato tanta meravigliosa diversità così abbondantemente distribuita tra le stelle.
Vidi animali di ogni tipo e fattezza, piante e fiori di indescrivibile bellezza e poi mari, deserti, montagne, fiumi e laghi le cui forme e i cui colori non avrei mai potuto nemmeno immaginare. Ammirai cieli notturni costellati da numerose lune colorate e cieli diurni nei quali l’alternanza di più soli non consentiva mai il giungere della notte.
Scoprii con grande stupore in quante infinite forme la vita fosse in grado di germogliare, persino laddove sembrava impossibile che potesse farlo.
E conobbi migliaia di razze aliene, da quelle così evolute da saper governare inimmaginabili fonti di energia a quelle ancora ai primi stadi della loro vita, che, lasciate indisturbate, venivano osservate segretamente. Umanoidi e non, capaci di comunicare, di commerciare e di vivere pacificamente nel più complesso tessuto sociale che si potesse immaginare.
Solo alla fine mi resi conto che Olla mi aveva tenuto la mano tra le sue per tutto il tempo.
«Era per tenere le sue condizioni fisiche sotto controllo, tenente,» spiegò con un sorriso, lasciandomi libera la mano. Peccato. Perdere quel rassicurante contatto caldo e delicato mi procurò un inaspettato senso di dolore.
«Adesso ha visto, tenente, adesso sa cosa rischiate di perdere,» riprese lo Scienziato Spokan. «Nessuna razza può proseguire la propria evoluzione se resta da sola, questo ormai lo abbiamo imparato tutti. I pianeti sono piccole e vulnerabili culle della vita, ma la vita appartiene all’universo intero e solo in esso può espandersi e replicarsi all’infinito.»
Ero estasiato e a malapena sentivo e capivo ciò che l’alieno mi stava dicendo. Finalmente ripresi piena coscienza di me e posi la prima domanda.
«Davvero non ci sono mai stati conflitti o guerre nella galassia?» Su questo punto ero davvero incredulo.
«Si dice che ce ne siano state… e di terribili… molti millenni or sono, ma da allora le razze che popolano questa Galassia hanno imparato a gestire le conflittualità e a prevenirle, isolando tutte le specie che sono giudicate pericolose».
«Come i terrestri,» osservai in tono amaro, per poi riprendere ad appagare la mia curiosità.
«Oggi vivete tutti in pace e in totale armonia? E cosa fate? Quali sono i vostri scopi ultimi?» chiesi.
«Anche nella Comunità Galattica ci sono leggi, regolamenti e forze di polizia, tenente: individui con indole criminale esistono ovunque, purtroppo. La lotta tra il bene e il male non è finita, ma si è notevolmente ridotta di scala. Quanto agli scopi ultimi, ogni razza ha i propri.
Ci sono popoli felici di prosperare nel commercio, altri che amano curare all’inverosimile il loro pianeta, altri ancora che si dedicano alla meditazione nelle forme più pure ed estreme. E poi ci sono quelli che amano espandere la loro conoscenza, che amano esplorare e vagare nell’universo alla ricerca di nuovi mondi e di nuove razze, arrivando laddove nessuno è mai giunto prima.»
«Così saremo noi umani, credo, se sopravvivremo a noi stessi,» risposi, con un filo di voce.
«Adesso lei sa, tenente… sa che la Terra è solo un piccolo sassolino ai confini di questa Galassia e che l’umanità non è sola nell’universo. Tuttavia, sa anche che l’umanità non è pronta a varcare i confini del proprio sistema solare, a prescindere dalle conoscenze tecnologiche che riuscirà ad acquisire. Si adoperi affinché la razza umana si prepari e sia pronta per quando il grande momento arriverà,» concluse Spokan.
«Dio solo sa quanto lo desidero, ma non so come potrò farlo, Scienziato Spokan,» risposi, quasi disperato.
«Confidiamo che troverà il modo di dare il suo contributo, tenente. I nostri esperti sbagliano raramente.»
***
Dopo il meraviglioso viaggio Ramak e Spokan tornarono alle loro faccende, lasciandomi di nuovo solo con Olla.
Fui rifocillato con delizioso cibo terrestre e poi ricondotto nella stanza nella quale mi ero svegliato. O almeno così supposi, dal momento che gli ambienti che avevo visitato erano tutti piuttosto simili.
«Bene, tenente,» disse Olla, «come vede non le abbiamo rubato troppo tempo. Adesso lei sa cose che solo pochi terrestri conoscono. Cerchi di non dimenticarci e, se può, si adoperi per la sua razza. Addio, mio giovane amico.»
Mentre cercavo qualcosa di importante e commovente da replicare, combattendo contro il desiderio di abbracciarla, lei mi regalò il suo ultimo sorriso e tutto cambiò.
Di colpo ero di nuovo nel mio aereo, sulla stessa rotta e alla stessa quota in cui mi trovavo al momento del contatto con la nave aliena.
Il cambiamento fu talmente rapido che quasi mi convinsi di aver semplicemente sognato tutto, di essermi addormentato per qualche minuto mentre pilotavo.
Una rapida occhiata all’orologio di bordo mi tolse però ogni dubbio: erano passate quasi otto ore dal mio decollo e quell’aereo non aveva nessuna possibilità di restare in volo così a lungo.
Quindi doveva essere tutto vero.
Istintivamente, portai la mano sotto la gola e sentii sotto le dita una piccola cicatrice nel punto dove Olla mi aveva impiantato il misterioso traduttore.
Era tutto dannatamente vero.
***
Pochi mesi dopo, esattamente il 16 luglio, ci fu l’esplosione della prima bomba atomica americana nel poligono di Alamogordo, nel Nuovo Messico.
Nello stesso mese mi congedai con onore, e con il grado di capitano, dall’Aviazione degli Stati Uniti, totalmente stufo di guerre e di armi.
Meno di un mese dopo, esattamente il 6 agosto, noi americani sganciammo una bomba atomica sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo da una seconda bomba sulla città di Nagasaki.
Spokan aveva avuto ragione su tutta la linea.
Passai i successivi 4 anni lavorando come pilota civile per una compagnia aerea, con l’intenzione di girare un po’ il mondo per provare a conoscerlo meglio.
Tuttavia, non smisi mai di pensare a Olla, a Ramak e a Spokan, alla straordinaria avventura che mi era capitata e alla incredibile missione che lo Scienziato Spokan mi aveva voluto affidare. Con il tempo iniziai anche a elaborare una strategia, affascinato dal nuovo e potente mezzo di comunicazione chiamato televisione che stava, rapidamente, entrando in ogni casa.
Dall’abbozzo di una strategia generale passai a predisporre concreti piani attuativi, curando sempre più nel dettaglio il complesso progetto che stavo faticosamente elaborando, anche durante i lunghi anni in cui prestai servizio nel corpo di polizia della città di Los Angeles.
Negli anni ’50 Iniziai a scrivere soggetti per la televisione, molti dei quali a sfondo fantascientifico, facendomi rapidamente conoscere nell’ambiente.
Ma fu solo verso la fine del 1965 che mi decisi a lanciare, finalmente, il mio grande progetto.
***
Dopo quasi mezz’ora di attesa, la segretaria mi fece accomodare nell’ufficio di un importante dirigente della NBC che non avevo mai incontrato prima.
Notai che aveva sul tavolo il grosso incartamento del mio progetto, completo di sceneggiature, bozzetti e perfino del modellino dell’astronave.
Senza indugiare oltre, l’indaffarato manager andò subito al dunque.
«Sarò sincero con lei e le dico subito che sono molto perplesso riguardo a questo progetto in cui umani e alieni convivono in pace, in cui gli alieni non sono nemici malvagi da abbattere in tutti i modi.
La fantascienza è roba per bambini, e i bambini vogliono battaglie ed eroi. Inoltre trovo intollerabile questo personaggio con le orecchie a punta. Non so, sono davvero molto perplesso. Infine, come la vorrebbe chiamare questa sua strana serie, signor… mi scusi, ma non ricordo il suo nome.»
Sospirai, sentendomi abbattuto e deluso, ma poi squadrai le spalle e guardai quell’ottuso manager dritto negli occhi, intenzionato a lottare fino alla fine, così come ero certo che avrebbero voluto Olla, Ramak e Spokan.
«Mi chiamo Eugene Wesley Roddenberry, signore, e questa serie TV la vorrei chiamare Star Trek.
© Ezio Amadini 28/11/2016
Nato a Roma nel 1956, ha una laurea in Economia e Commercio. Figlio di un giornalista parlamentare e di una colta casalinga, entrambi divoratori di libri, ha avuto la straordinaria fortuna di crescere in un ambiente intellettualmente stimolante. Ha lavorato in Medio Oriente, per poi dedicarsi alla consulenza aziendale nel controllo di gestione e dei sistemi informativi.