Quando Alessandro Iaschy ha pubblicato la sua Andromeda in formato rivista, si sarebbe meritato un migliore risultato: invece credo sia stato costretto a chiudere l’esperimento dopo pochi numeri. Per fortuna, uno dei suoi migliori collaboratori è stato Ezio Amadini, di cui abbiamo già parlato molto bene, uno scrittore decisamente interessante. Qui pubblichiamo il suo primo racconto apparso su Andromeda. È un racconto distopico, cosa strana per Amadini che non ama questo genere, ma giudicatelo voi!
Camminava a fatica, lungo lo stretto passaggio ingombro di tutto, costretto a spostare detriti e oggetti coi piedi per far passare il pesante carrello che si tirava dietro.
Le ruote consunte cigolavano, mentre le due grosse damigiane, sbattendo una contro l’altra, producevano un accompagnamento aritmico e monotono.
Andare a prendere l’acqua continuava ad essere una delle operazioni più faticose e complesse, che doveva tassativamente essere portata a termine nei due giorni previsti dalle autorità.
Con il censimento di 2 anni prima avevano assegnato ad ogni gruppo umano un turno quindicinale ben preciso per l’approvvigionamento dell’acqua.
L’aria era calda e umida e l’uomo respirava affannosamente, ben sapendo che al ritorno, con le damigiane piene, sarebbe stato anche peggio.
Trascinava il carrello e teneva gli occhi bassi sulla strada, vagamente consapevole della presenza di altri che, come lui, arrancavano lentamente verso l’acqua.
Procedeva e pensava. Pensava alle autorità e al loro costante e fallimentare tentativo di ricostruire la civiltà e l’ordine, in un mondo in cui non era rimasto più nulla di ordinato.
Alzò lo sguardo per un momento verso l’imponente cupola di San Pietro che, miracolosamente intatta, si innalzava contro il cielo infuocato, reso perennemente rosso e turbolento dalla follia degli uomini.
Poi giù, lo sguardo a terra, un passo dopo l’altro, per andare a prendere l’acqua e sopravvivere per altri 15 giorni.
Curiosi animali lo spiavano dai bordi della strada. Forse erano stati gatti o cani, forse topi, ma adesso erano solo deformi mutazioni, risultato di un’evoluzione stravolta dagli eventi.
Forse un giorno avrebbero sostituito del tutto i pochi umani superstiti su quel pianeta ferito a morte.
Non lo sapeva né gli importava molto: doveva solo prendere l’acqua e vivere per altri 15 giorni.
***
Una leggera scossa sismica fece crollare detriti e pericolanti macerie tutto introno a lui. Si fermò, con i nervi tesi, aspettando il peggio. L’istinto di sopravvivenza era forse l’ultimo istinto che l’uomo ancora conservava.
Notò che il sisma aveva prodotto una apertura nel fianco di quello che una volta doveva essere stato un grande edificio.
Si guardò intorno indeciso. Valeva sempre la pena esplorare quei posti, specialmente se si poteva essere i primi a farlo. Era rischioso, poiché ci potevano essere crolli o inquilini pericolosi, ma la possibilità di trovare cibo o qualcosa di utile era una motivazione molto forte, soprattutto in chi, come lui, attribuiva un valore molto relativo alla propria vita.
Nascose il carrello alla meglio ed entrò.
Scavalcando ostacoli di varia natura e scendendo sempre più in basso, raggiunse quello che era stato il magazzino di un supermercato.
Emozionato, cominciò a riempire il suo lurido tascapane con quanto poteva… scatole di carne, tonno, latte condensato.
Era un’occasione unica nella vita di un superstite.
Di lì a poco udì i rumori prodotti da altri che scendevano verso quel grande tesoro. Ciò significava guai, e grossi. Si poteva uccidere per una scatola di carne.
Si nascose e lasciò che l’uomo e la donna che stavano entrando passassero oltre, poi sgattaiolò fuori.
Ma i suoi guai non erano finiti.
All’esterno lo aspettavano quelli che preferivano aggredire gli altri piuttosto che rischiare di avventurarsi in una trappola pericolante.
Erano solo due, magri e impauriti come lui, ma brandivano bastoni e i loro sguardi erano duri e minacciosi.
Il tascapane pesava abbastanza e poi doveva recuperare il carrello, quindi una fuga era fuori questione.
Con la forza della disperazione estrasse la prima scatola di carne e la scagliò con forza sul più vicino.
I due, sorpresi dal gesto, si fermarono indecisi, mentre quello colpito si asciugava un leggero filo di sangue dal volto. Ripresero ad avanzare sotto una pioggia di pesanti scatole e barattoli, più volte colpiti, fino a quando decisero di fermarsi per raccogliere il bottino.
A quel punto, col tascapane quasi vuoto, l’uomo riprese il suo carrello e si allontanò di corsa, guadagnando in fretta la relativa sicurezza della strada.
L’oscurità calava rapidamente, modificando il rosso del cielo in un colore sempre più scuro e opaco. Il sole non era più visibile dai tempi dell’olocausto, se non come una zona più chiara. Le stelle e la luna erano sparite per sempre. L’inverno nucleare che avvolgeva la Terra dava giorni rossastri e notti nere come l’inchiostro.
Di notte la temperatura scendeva di molto e restare fuori era pericoloso.
L’uomo, in fila da più di due ore, capì che non avrebbe raggiunto in tempo l’autobotte.
Presto avrebbero interrotto l’erogazione e i militari si sarebbero ritirati. Nessuno sarebbe rimasto ad affrontare la notte minacciosa e piena di pericoli.
La zona scelta per la distribuzione dell’acqua era una parte relativamente restaurata della città, una grande piazza facile da sorvegliare con fabbricati quantomeno puntellati tutto intorno.
Molti di quei fabbricati erano bui e disabitati, mentre solo in alcuni si scorgevano luci e soldati armati a guardia di coloro che vi abitavano.
Inutile tentare di chiedere ospitalità: la solidarietà umana era morta con la prima bomba.
Gli umani rimasti senza acqua cominciarono ad andare verso le rovine buie, per cercare un rifugio per la notte. Singolarmente o in piccoli gruppi, si tenevano ben lontani gli uni dagli altri. La notte era una minaccia generale e le rovine erano abbastanza grandi per dare accogliere tutti.
L’uomo si sistemò in un cunicolo abbastanza profondo, il cui unico accesso era facile da sorvegliare. Accese il fuoco proprio davanti all’ingresso, creando così la barriera contro gli intrusi e garantendo una buona evacuazione del fumo.
Mangiò il contenuto di una preziosa scatola e si preparò a passare la notte.
Entro poco sarebbe piovuto, come quasi sempre. La pioggia notturna lavava il mondo e ne permetteva la sopravvivenza, nelle poche zone non eccessivamente contaminate.
Ma nessuno si faceva molte illusioni. I pochi superstiti erano sterili, non si vedevano più bambini da anni e la consapevolezza che la razza umana era condannata gettava tutti nella depressione di una vita orientata al presente. Gli uomini si erano trasformati in animali capaci di vivere solo alla giornata. Non esistevano più le famiglie e nemmeno le coppie. Erano pochissimi coloro che sentivano ancora il richiamo del sesso. Vivevano per lo più singolarmente, seppure mai a troppa distanza gli uni dagli altri. Ma mai vicini.
***
La pioggia iniziò a battere il terreno e le rovine.
L’ululato del vento non tardò a farsi sentire, profondo, cupo e inquietante.
Il fuoco iniziò ad ondeggiare e a scoppiettare, mentre l’uomo lo alimentava timoroso che potesse spegnersi.
Ma quella notte sembrava diversa.
L’urlo del vento diventava sempre più forte, sembrava non dovesse finire mai di rinforzarsi. La pioggia era diventata un diluvio. Il piccolo fuoco aveva già da tempo perso la sua battaglia contro gli elementi della natura. La pioggia si era trasformata in diluvio, allagando tutto.
L’uomo, rannicchiato in fondo al cunicolo leggermente in salita, avvolto nella sua lurida coperta, guardava gli accecanti lampi che illuminavano la sua tana con gli occhi sbarrati dal terrore.
I tuoni erano così forti e intensi da far minacciosamente vibrare l’intero edificio.
Mai era stato così… mai. Il piccolo sisma, e adesso questo inferno.
Forse la Terra aveva deciso di scrollarsi di dosso gli umani una volta per tutte? Forse si, forse era anche giusto.
L’uomo rannicchiato sentiva crescere il terrore in se e aspettava la morte.
Lampi accecanti e tuoni formidabili scuotevano la sua anima, rimandandolo con i ricordi a quei giorni terribili quando i lampi e i tuoni erano stati voluti dagli uomini e non dagli dei.
Dei superati dai poteri dell’uomo e da esso derisi e dimenticati.
Il crescendo della tempesta fu indescrivibile, violento e terrorizzante.
Poi, di colpo, il silenzio.
Un silenzio assoluto, appena rotto dal rumore dello sgocciolio dell’acqua che cadeva dalle rovine.
Un silenzio nuovo, un silenzio che quell’uomo non aveva mai conosciuto prima.
Aprì gli occhi e vide una tenue luce entrare dall’apertura del suo cunicolo.
Luce. Eppure era notte e quella luce non era rossa. Era una luce notturna, una luce il cui ricordo si perdeva nella profondità della sua anima.
Si mosse per uscire. Doveva vedere.
Uscì e restò paralizzato dallo stupore.
Era la luce delle stelle.
Il cielo era nero e pieno di stelle. Miliardi di punti luminosi rischiaravano la piccola Terra ferita.
Dunque erano tornate, le stelle. Scacciate a forza dal cielo degli uomini, erano tornate.
L’uomo sentì le lacrime negli occhi, mentre si alzava confuso e malfermo sulle gambe.
Tra tutte, una stella brillava più forte e attirava la sua attenzione.
Si ritrovò incerto a camminare in quella direzione.
Altri uomini e donne sbucavano dai loro rifugi, incerti e confusi, e camminavano verso quella luce, nuova, misteriosa, inquietante, eppure così attraente.
Un lunga fila si era formata, uomini e donne da tempo privati della loro umanità, diffidenti, ora di nuovo vicini, pronti ad aiutare quello che, più debole, cadeva.
Una lunga fila di esseri sconvolti e confusi. Una lunga fila che finiva davanti ad una rovina isolata.
Uno alla volta entravano, per poi uscire sbalorditi, qualcuno persino capace di un sorriso.
L’uomo aspettò pazientemente il suo turno e, quando entrò, ciò che vide gli procurò un lungo e intenso brivido.
C’erano una donna e un uomo, come loro, ma diversi. Perché essi sorridevano e perché la donna stringeva qualcosa al petto.
Era un bambino, un bambino appena nato.
In un mondo di morte e di rassegnazione, era nato un bambino.
L’uomo si avvicinò ancora e, frugatosi nelle tasche, porse una scatola di latte condensato alla donna, orgoglioso per la preziosità del suo dono. La donna gli sorrise. Quel sorriso… ne avrebbe voluti ancora.
Spinto dalla massa degli altri, si ritrovò fuori, con ancora negli occhi il sorriso della donna e la vista del bambino.
Sopraffatto dall’emozione, quell’uomo cadde in ginocchio e pianse.
Pianse a lungo, con forza, pianse tutte le lacrime che in quei lunghi anni oscuri non era mai stato capace di versare.
Ezio Amadini, © Novembre 2001
Nato a Roma nel 1956, ha una laurea in Economia e Commercio. Figlio di un giornalista parlamentare e di una colta casalinga, entrambi divoratori di libri, ha avuto la straordinaria fortuna di crescere in un ambiente intellettualmente stimolante. Ha lavorato in Medio Oriente, per poi dedicarsi alla consulenza aziendale nel controllo di gestione e dei sistemi informativi.
Davvero bello.