Caccia Subacquea a Venezia:
Il diritto di caccia consiste nella facoltà di
inseguire e di catturare animali viventi nella
loro naturale libertà e, quindi, considerati
res nullius. Gli elementi fondamentali di questo
diritto sono costituiti dall’esistenza di un
animale e dalla sua occupazione, cioè dalla
presa di possesso da parte dell’uomo con
l’intenzione di acquistarne la proprietà.
Mancavano pochi minuti alle sei. Vico Aponal ripose nella rete un’altra chimera di almeno otto chili. Il giovane ritenne che poteva bastare, tentare di catturarne un’altra significava ritardare il ritorno di almeno mezz’ora e al mercato di Rivo Alto i prezzi migliori venivano spuntati da chi arrivava prima.
Risalì affiorando sullo specchio immobile della laguna. In superficie trovò la stessa oscurità del fondo. Sputò il boccaglio, chiuse subito la bombola per risparmiare ossigeno, si strappò dal viso le frange appiccicose di sudarie che gli si erano accumulate addosso nell’emergere, quindi cominciò a guardarsi intorno alla ricerca della barca. I polmoni gli si riempirono di aria calda, umida, pregna dell’odore caratteristico delle alghe prima dell’alba, quando il calore del sole non ha ancora trasformato gli strati superiori in giganteschi grumi collosi di materia in putrefazione.
Novembre stava per finire.
Intorno a lui la laguna si stendeva come una prateria, immota e nera. Lenzuoli di nebbia fluttuavano pigri a pochi centimetri dalla superficie. La visibilità non superava i cinque metri.
Schiacciò il grosso pulsante sul bordo dell’orologio. Il quadrante si trasformò in un microradar che segnalò la barca a settantadue metri leggermente sulla dritta. L’ultima chimera, nel suo strenuo tentativo di fuga, lo aveva trascinato parecchio in direzione dell’antica bocca di porto di San Nicolò.
Il giovane risistemò il boccaglio e si immerse nuovamente. Il tappeto d’alghe si richiuse morbidamente sopra di lui. Riaffiorò quando l’eco della barca la indicava a un paio di metri sulla verticale, agganciò al bordo la rete con i pesci, slacciò le bombole deponendole sul trasto, poi superò a fatica la fiancata e si lasciò cadere sul fondo piatto. Vi rimase qualche minuto supino, a occhi chiusi, per riacquistare le forze. Il cielo era un immenso telo di caligine. Sopra quel telo c’erano le stelle, ma lui non le aveva mai viste a causa del denso strato di vapori. Nemmeno il sole e la luna aveva mai visto, se non come due macchie, l’una rossastra e l’altra lattea
Vico Aponal aveva trentaquattro anni.
Quella notte non gli era andata male, aveva rimediato cinque pesci e un cadavere. I pesci erano quattro chimere e una razza. Il cadavere era quello di un uomo, nudo e gonfio, quasi intero. Da quanto aveva potuto capire dai tatuaggi sull’unico braccio rimasto, si trattava quasi sicuramente di un Abusivo. Addosso non gli avevano lasciato nulla da poter recuperare, così lo aveva ributtato in acqua. Difficile trovare un cadavere che non fosse già stato ripulito.
Accese lo Yamagishi. Il fondo largo e piatto della barca la faceva scivolare senza difficoltà sullo strato di alghe. Alta sulla poppa, l’elica intubata tagliava con un ronzio fischiante il silenzio che precedeva l’alba.
Il mercato del pesce era rimasto nella stessa zona dove prima c’era l’antica Pescaria, vicino al mercato ortofrutticolo, del quale ovviamente non era rimasta traccia sia perché si trovava a livello del suolo, sia per mancanza di materia prima: frutta e ortaggi venivano importati e andavano a finire direttamente sulle tavole dei Gastaldi e dei Famigli nella Città Alta. Anche l’antica Pescaria, un tempo, era a livello del suolo, sotto il porticato del palazzo gotico. Adesso si trovava nei saloni del primo piano, trasformati in mercato ittico. La laguna era arrivata agli ultimi gradini della scala esterna, otto metri sopra il primitivo livello stradale.
Vico non fu il primo ad arrivare, due barche erano già attraccate alle bifore. Nel vasto salone impregnato di freschin i due pescatori stavano contrattando per vendere la loro merce. Aveva fatto bene a decidere di non cercare un’altra chimera, già i prezzi cominciavano a calare. Alla fine il giovane lasciò la Pescaria abbastanza soddisfatto dei ventisei ducati e settantacinque soldi.
Durante il ritorno la nebbia si fece un po’ meno fitta. I campanili e i piani alti delle case non ancora del tutto crollate apparvero come ombre vaganti di dannati. La ragnatela di passaggi aerei intrecciati tra gli ultimi piani delle case alte si scorgeva con difficoltà. La Città Alta era ancora immersa nel buio e nel silenzio, l’esigua popolazione appartenente alle Corporazioni e alle Scuole di Mestiere si sarebbe alzata solo verso mezzogiorno. Al contrario, la Città Bassa era già operosa; all’interno dei pianterreni e dei primi piani abitati, invisibili sotto l’acqua nera, si stava svolgendo un’attività di formicaio.
Vico superò il campanile di San Marcuola, poggiò a sinistra mantenendo in vista la cupola di San Simeon Piccolo e si diresse rallentando in direzione dell’altro campanile, quello di San Simeon Grando. Spense il motore appena la cima della torre uscì dal buio. Subito la barca abbassò la prua, frenata dalle macchie d’alghe e di rifiuti. Manovrata dall’abile mano di Vico, si affiancò alla boa marcata col numero anagrafico. Lui buttò muta e attrezzatura da pesca dentro la sacca, tutto il resto lo lasciò a bordo; nessuno della Città Bassa avrebbe rubato nulla, rispettando una legge non scritta ma inviolabile. E chi abitava nella Città Alta non aveva certo bisogno di quelle povere cose.
A oriente la nebbia cominciava a impregnarsi di rosso, rendendo più netti i fili neri dei passaggi aerei e i contorni della vicina Ca’ Marin, frastagliati dalle protuberanze abitative dei Famigli appese all’esterno come colonie di cnidari polipoidi.
Vico si immerse seguendo il cavo della boa. Il piano stradale era mediamente a sei metri. L’antico selciato non era più visibile, coperto dalla lenta ma continua pioggia di rifiuti, alghe, macerie. Digitò il codice. Il portello si aprì creando piccoli vortici che fecero danzare il materiale in sospensione. Appena il portello si chiuse alle sue spalle, la pompa ansimò per liberare la camera stagna dall’acqua. Faceva sempre più fatica. Vico doveva decidersi a sostituire quella vecchia Mikasu altrimenti sarebbe stato costretto a cambiare l’intero sistema, e affrontare la spesa per un Mitsubishi, l’unico a dare garanzia, sarebbe stato un grosso problema. D’altra parte, il sistema di accesso era la necessità principale.
Vivere nella Città Bassa costava molto. Il diritto di vivere doveva essere pagato attraverso servizi, baratti, piccoli commerci e con la cessione del primo figlio, una sorta di jus primi filii. Al momento della consegna il bambino doveva essere in perfette condizioni fisiche altrimenti il compenso non sarebbe stato pagato. Quella variante di caccia subacquea imponeva che solo a consegna avvenuta si potesse pensare a un figlio di proprietà, ma le condizioni economiche rendevano la cosa molto difficile. Ed era questo lo scopo dei Gastaldi, un freno al rinnovamento generazionale pur considerando che la progressiva scomparsa della Città Bassa avrebbe segnato anche la fine del loro lucroso commercio di bambini. Ma seguivano la politica dei loro predecessori: pensa a te, chi verrà si arrangerà.
Quando l’acqua fu espulsa del tutto, si aprì il secondo portello, quello che immetteva nell’abitazione vera e propria.
Vico fu investito dalla voce angosciata di Veniera: – Sono venuti… sono venuti a prelevare Orso!
Lui non rispose. Posò l’attrezzatura, poi si passò una mano sul viso come per togliersi dagli occhi e dalla mente un po’ di sporcizia. La donna continuava a parlare concitata mentre lui sistemava le bombole, si spogliava e si avviava alla doccia ansioso di usufruire della sua razione di acqua riciclata.
– … due uomini… e c’era anche una donna, sembrava una giapponese…
– Coreana. È Kim-Soo.
Veniera lo fissò. – Conoscevi pure il giorno che venivano a prelevare nostro figlio?
Vico premette il pulsante. Appena l’acqua sprizzò dal bulbo cominciò subito a frizionarsi per sprecarne il meno possibile.
– Almeno a noi Vaga poteva concedere un po’ di respiro! – Gridò la donna.
– Che differenza fa qualche giorno in più, è la legge che deve essere cambiata.
Veniera gli si avvicinò stringendo i pugni. – Non ce la faccio più a sentire le tue stupide teorie! Cosa hai fatto in tutti questi anni, eh? Eccolo il risultato! – La donna allargò le braccia per indicare il loro rifugio di due stanze. – Potremmo vivere nella Città Alta come tutti quelli che guardano la realtà in faccia, Vaga ti farebbe ponti d’oro ma tu no, tu sei il ribelle, l’eroe che ha scelto di vivere nella merda che quelli ci scaricano sulla testa! E adesso… Orso non c’è più… – Si coprì la bocca con la mano come per trattenere i singhiozzi..
L’acqua cessò di sprizzare dal bulbo. Sul bianco corpo magro di Vico i peli neri apparivano come tracce di sporco non deterso. – Lo sai che questo luogo è una scelta precisa. – Mormorò mentre si strizzava i lunghi capelli.
– Come no – replicò con rinnovata energia Veniera. – La conosco a memoria la ragione della tua scelta, ma al tuo amico Francesco Fontebon tagliarono una mano e gli cavarono gli occhi e poi lo sbatterono fuori dalla città, e da ottocento anni a questa parte le cose sono un po’ cambiate, o non te ne sei accorto?
– A Fontebon e a Tiepolo non andava il doge Gradenigo e a me non va il doge Giulio Vaga. Sono cambiati i tempi ma non la sostanza. Devi avere fiducia in quello che faccio, per me sarebbe un grande aiuto avere la tua fiducia, è l’unica cosa che ti chiedo.
Veniera sembrò afflosciarsi. Appoggiò il viso sul petto bagnato di Vico. – Non ho scelto io di vivere – disse con voce diventata all’improvviso opaca. – Ma dal momento che mi trovo in questo mondo incomprensibile vorrei vivere con un po’ di serenità. È umano cercare di alleviare il dolore. La realtà è questa, Vico, niente può cambiarla, devi rendertene conto.
Lui la allontanò tenendola per le braccia e la guardò negli occhi. – È proprio qui la differenza. Tu consideri la vita come un obbligo da compiere passivamente, io invece la considero un diritto e quindi non posso fare a meno di tentare con ogni mezzo di renderla mia.
Veniera scosse la testa. – Parliamo di obblighi, di diritti e di doveri… e poche ore fa hanno portato via nostro figlio. Possibile che tu non riesca a vedere quanto orribile sia tutto questo! Orso non lo rivedremo più… – La sua voce si spense.
– Orso è il contributo per poter continuare a vivere e quindi a combattere. È chi rimane immobile che contribuisce a mantenere questo stato di cose.
La donna colpì Vico al viso con la mano aperta. – Che schifo! Non sei che uno schifoso bastardo, un miserabile figlio di puttana! – Poi corse a chiudersi nell’altra stanza, il centro del loro mondo dove dormivano, mangiavano, facevano l’amore, guardavano attraverso la TV le immagini di un mondo che ormai rotolava senza speranza verso la catastrofe totale.
Per ragioni di economia i vani abitabili dovevano essere ridotti al minimo, abbandonando all’acqua il resto della casa. Nella Città Bassa vivevano all’incirca duecentocinquanta persone, per la maggior parte anziani non più in grado di lasciarsi alle spalle quelle misere condizioni. Gli altri si arrangiavano come potevano, rendendo servizi a quelli della Città Alta o raccogliendo alghe che, essiccate, venivano vendute come composto allucinogeno. Ma l’attività principale era la pesca delle chimere e degli altri pesci mutati dalle acque eutrofizzate delle lagune per i mercati delle terreferme.
Vico si stese accanto a Veniera. La donna fissava un punto indefinito della parete. Adesso lui avrebbe potuto muoversi, ma non era ancora il momento di mettere Veniera a conoscenza del progetto, non l’aveva fatto nemmeno quando lei aveva tentato di suicidarsi.
Nella piccola casa sommersa a San Simeon Grando nessuno parlava, il silenzio era interrotto solo dal ronzio dei sistemi: filtri che riciclavano acqua, aspiratori che catturavano aria dalla superficie, espulsori che mandavano i gas all’aperto in un’inesausta colonna di bollicine, un rumore di sottofondo ossessivo ma essenziale come la voce del proprio corpo, perché la sua assenza avrebbe significato la fine. E poi c’erano i rumori che la laguna provocava premendo sui muri in un abbraccio senza sosta, fruscii e chioccolii e ansiti.
– Ci andrai adesso da Vaga? – Chiese Veniera senza staccare gli occhi dalla parete.
– Sì.
La donna chiuse gli occhi. Non avrebbe mai immaginato che la decisione di Vico di andare dal Gastaldo non era per tentare di riavere Orso.
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Benché le Corporazioni fossero quattro, quella che in pratica governava sui resti della città era la Corporazione degli Abusivi. Il loro Gastaldo era Giulio Vaga. Esempio emblematico di dissacrazione degli antichi valori era il luogo scelto da Vaga come propria abitazione. Subito dopo la morte di suo padre, avvenuta improvvisamente in modo mai chiarito – era comunque opinione diffusa che fosse stato lui stesso a farlo fuori -, si era insediato nell’ex Palazzo Ducale. Il nome del Gastaldo era Bartolomeo, ma uno dei suoi Famigli gli aveva suggerito di cambiarlo in Giulio. Sempre su suggerimento del ruffiano, il Gastaldo fece sua la frase di un altro uomo famoso e ordinò di sistemarla sulla sommità del Palazzo Ducale sotto forma di gigantesca insegna di neon rosso: TUTTO PASSA, I VAGA NO. Lo spazio abitativo di Giulio Vaga era la parte superiore della Sala del Maggior Consiglio. Si era fatto costruire un soppalco poiché l’acqua aveva invaso anche quel luogo leggendario.
Vico si stava avvicinando con la sua barca alla zona di San Marco.
Attraverso l’atmosfera nebbiosa, il sole appariva come una macchia dipinta. Tutto sembrava dipinto intorno a lui, fissato in un’immobilità fuori dal tempo. La barca scivolava sull’acqua macchiata d’alghe dalla quale emergevano antenne TV, sfiatatoi, prese d’aria, boe luminose per segnalare la presenza di vita in abitazioni sommerse
A mano a mano che San Marco si avvicinava, le boe luminose si diradarono fino a scomparire del tutto. La zona che un tempo aveva rappresentato il centro del potere era stata occupata dai rappresentanti delle Corporazioni, discendenti di uomini che in cinquecento anni erano riusciti a trasformare una distesa di fango in un impero. Lungo i fianchi dei palazzi si intrecciavano i passaggi aerei. I Famigli non abitavano nel palazzo del rispettivo Gastaldo, e la necessità di vicinanza per ragioni logistiche era stata risolta agganciando la propria abitazione ai muri esterni del palazzo o di costruzioni adiacenti. Si trattava di sistemi prefabbricati in plastica fosforescente prodotti dalla Watanabe Houses and Fittings Co. di Tokyo, leader mondiale nel campo dei moduli abitativi. Le costruzioni che offrivano maggiori opportunità di ancoraggio erano i campanili. Un modulo Watanabe agganciato a una cella campanaria si trasformava in proprietà di alto prestigio. Aperture sui lati del campanile ad altezze diverse comunicavano con la rete di passaggi aerei. Le antiche scale interne delle torri erano un’ottima soluzione per raggiungere il livello desiderato.
Vico Aponal spense lo Yamagishi. Sullo sfondo si alzavano le estremità delle due colonne dell’ex molo di San Marco. I capitelli marmorei sorgevano dall’acqua come due bianchi iceberg.
– Salute, Vico! – Esclamò Grisostomo, uno dei Famigli di guardia, all’apparire del giovane. – Vuoi vedere il Gastaldo?
– Sì. – Vico superò il guardiano e si inoltrò nel passaggio il cui lato esterno si apriva sulla piazzetta.
– Non so se lo troverai – gridò Grisostomo. – Non è momento adatto questo, dovresti saperlo. – La risata che seguì quelle parole fece mareggiare il corpo lardoso dell’uomo. Nella sala del Maggior Consiglio c’erano altri due guardiani. Uno era Girolamo Venier detto Fame, l’altro era uno nuovo. Fu quest’ultimo a bloccare Vico. Gli appoggiò una mano aperta sul petto.- Che vuoi, sotomarin?
Fame si avvicinò. – Lascia perdere, è tutto regolare. Salve, Vico. Se vuoi vedere il Gastaldo devi aspettare – gli strizzò l’occhio. – È occupato.
Vico non voleva intrattenersi con quei tipi. Andò a sedersi il più lontano possibile. La sala glielo permetteva con i suoi cinquantaquattro metri di lunghezza e venticinque di larghezza. Sedette su una panca appoggiata alla parete proprio sotto quanto rimaneva del Paradiso di Tintoretto. Dell’immensa tela era visibile solo la parte superiore, e figure e colori erano un amalgama di muffe.
Dopo una decina di minuti una porta si aprì, ne uscì un ragazzo nudo che attraversò la sala di corsa, le braccia svolazzanti, e scomparve all’interno di un’altra stanza inseguìto dall’inconfondibile voce stridula di Giulio Vaga. – Stronzo! Sei un stronzetto manco buono di startene ritto! Non sei buono di niente, dopo tutto quello che ho fatto per impararti. Di’ a tuo padre che ti tenga giù coi sotomarini, hai capito? Non voglio più vederti qua! – Il Gastaldo gridava dalla soglia. I due Famigli sghignazzavano.
Giulio Vaga fece per rientrare e in quel momento vide Vico. – Guarda guarda chi si vede, Vico el sotomarin. Vieni, Vico, vieni. – Il corpo massiccio e glabro del Gastaldo era avvolto malamente in una vestaglia rossa con fregi dorati. La cintura annodata arrivava appena a circondare i fianchi a barile. Dai revers traboccava la bianca flaccida carne del petto. Mentre si avvicinava a Vico i lembi della vestaglia si aprivano sulle gambe magre da trampoliere. In tutto quel biancore risaltava la lunga capigliatura nera, inanellata in grossi boccoli unti. La fronte altissima lasciava nuda gran parte del cranio. Non si trattava di calvizie, l’attaccatura dei capelli era talmente alta da far pensare a una parrucca scivolata all’indietro.
Il Gastaldo passò un braccio intorno alle spalle di Vico e lo fece entrare nella stanza.
– Non si riesce più a trovare un fio che valga. Dove andremo a finire, povera Venezia! Ma mettiti a sedere. È un bel tòcco che non ci vediamo. Vuoi ‘na presa di coca?
Vico rifiutò con un gesto della mano.
– Puoi chiedere di tutto, qui sei a casa tua. Vuoi ‘na donna?
– No, no. Sono venuto solo per farti una domanda.
Giulio Vaga sprofondò in una gigantesca poltrona accanto a un tavolo sul quale c’era una fruttiera colma di pesche, pere e uva. Vico ricordava vagamente il sapore di quei frutti. Il Gastaldo, dopo aver riunito i bordi della vestaglia con l’intenzione di coprire per quanto possibile il vasto corpo nudo, era rimasto in silenzio ad aspettare che il giovane parlasse piluccando distrattamente un grappolo d’uva bianca. Sulla parete di fronte all’entrata si apriva un grande balcone al quale si accedeva salendo due gradini.
– Questa notte i tuoi uomini sono venuti a prendere Orso.- Disse Vico senza perdere tempo in preamboli.
Il Gastaldo fece un lieve cenno di assenso. – Sì, è quella troia di Kim-Soo che fa tutto. Le ho dato carta bianca per ‘sti mestieri. A me mi basta che rispetti i tempi. C’è stato qualche casino?
– No, nessun problema. Solo che Veniera contava di poter tenere il bambino ancora un po’.
Vaga gettò il grappolo d’uva sulla tavola, si pulì le dita sulla vestaglia, sputò una buccia. – Lo sai che non è mica possibile. I tempi devono essere rispettati. Quando i piccoletti di Tokyo arrivano vogliono trovare la merce altrimenti cambiano aria. Capisci? Se perdo il lavoro coi piccoletti qua va a finire tutto a puttane. È per caso questa la domanda che volevi farmi?
– Sì. Volevo sapere se potevamo tenere Orso almeno fino alla consegna. Quando sarà?
– Ma la consegna è stanotte! Vi ho lasciato el fantoin fino all’ultimo momento proprio perché sei te.
– Questa notte – ripeté a bassa voce Vico. – E sarà Kim-Soo a farla?
Il Gastaldo scoppiò a ridere: – La troia? Scherzi, sotomarin? Per ‘ste cose non mi fido manco della mia ombra. Sarà il Gastaldo in persona, il qui presente Giulio Vaga a fare il lavoro, stanotte alle due in punto. – Poi rimase a fissare Vico. – Perché non ci vieni anche te, eh? Porto sempre due uomini, uno di loro potresti essere te. Sarebbe un’ottima occasione, Vico, che ne dici? Così ti presento a Yuki e Isoo e cominci a entrare nel commercio, e chissà che poi non ti decidi a fare il grande passo.
Vico guardò in direzione del balcone.
– Ma non ne hai ancora le balle piene a startene lì giù in mezzo alla merda! – Esclamò Vaga. – Il tuo posto è qua, accanto a me che in fin dei conti sono anche tuo padre. Io non sono buono a pensare che un giorno non sarai te a prendere il mio posto. Te sarai il Gastaldo Giulio Vaga II. Lo conosci il motto della nostra famiglia, noi non passiamo mai.
Vaga si versò del vino in un bicchiere dal gambo lunghissimo, sottile, un autentico prezioso vetro di Murano. Lo vuotò in un unico sorso, poi ruttò. Indicò il bicchiere a Vico: – Prova almanco una volta a usare roba del genere, una volta sola, e non sarai più buono di farne a meno. Tutto quello che vedi potrebbe essere tuo. Sarà mica che devo costringerti? Io voglio che sei te a convincerti che il tuo posto è qua.
– Non sono fatto per il commercio, lo sai.
– Ma col tempo si impara tutto, basta volere. Potresti cominciare con qualche monàda, articoli poco impegnativi. Ecco, guarda. – Il Gastaldo si alzò e si avvicinò a un quadro appoggiato al muro accanto alla tavola. La vestaglia si allentò ma lui lasciò che fluttuasse intorno al grosso corpo lardoso, sudato, femmineo nelle rotondità del seno, dei fianchi e del ventre. Il sesso, curiosamente piccolo, pendeva da un cespuglio di peli grigi.
– Vedi ‘sta roba? – disse rivolto a Vico. – Dicono che è un Tiziano. Ne resta ben poco ma i piccoletti di Tokyo lo vogliono lo stesso. Hanno dei sistemi di riproduzione che io non ci capisco un cazzo ma insomma è una clonazione, sembra che hanno trovato che anche le cose inanimate c’hanno una specie di DNA, quella roba che ci abbiamo noi dentro. Ecco, potresti cominciare con ‘na puttanata così. Ti fa schifo anche questo? ‘sti qua sono quadri, mica bambini, anche se a quei putei gli facciamo il meglio regalo, cioè passare dalla merda a…
– Lascia perdere questo argomento, non fare l’ipocrita con me.
– Ipocrita? Cristo, ma lo sai cosa vuol dire per un fio andare a vivere nelle case di chi ha in mano il mondo intiero? E siamo fortunelli di essere veneziani perché avere un veneziano puro sangue a servizio è il massimo, è un segno di potenza che apre porte e balconi. Vuoi che ci portiamo sulle spalle ‘sta po’ po’ di storia millenaria solo per la gloria del cazzo?
– Quanti sono i bambini che non vanno a servizio dei padroni del mondo…
– Aspetta…
– … e vengono venduti ai mercanti di organi che ne clonano i pezzi a seconda della richiesta del mercato?
– Un momento. – La voce del Gastaldo si era fatta ancora più stridula. – Io me ne sbatto i coglioni del tuo solito moralismo da quattro soldi. Devo governare ‘sto angolo merdoso di mondo e per governarlo bene ci vuole ‘na barca di ducati, così vendo prodotti a chi me li paga di più. Il mio compito finisce qua, che stronzate vai predicando, eh? Yuki e Isoo rappresentano la Nippon Commodities Import Export e io vendo alla Nippon Commodities alga secca, quadri e un fottio di altri prodotti tra i quali anche mano d’opera. In cambio compro cose che servono pure a voialtri che vi ostinate a vivere in mezzo alla merda, sistemi di riciclaggio dell’aria e dell’acqua, filtri, camere stagne… – Il Gastaldo prese Vico per un braccio. – Vieni. – Disse avvicinandosi al balcone.
Salì i due gradini e aprì le grandi finestre a tessere di vetro policromo. Il panorama era la distesa immobile della laguna nel punto in cui una volta nascevano il Canal Grande e il Canale della Giudecca. Adesso c’erano solo alcuni riferimenti che emergevano dall’acqua, i capitelli delle due colonne del molo, la grande sfera segnavento, un tempo laminata d’oro, della punta della Dogana, e ancora, sullo sfondo, poco visibile per la nebbia, la metà superiore del campanile di San Giorgio con la cupola della chiesa palladiana, ciò che rimaneva dell’isola di San Giorgio Maggiore.
Il Gastaldo indicò sulla sinistra le grandi boe luminose che tracciavano la via per la bocca di porto di San Nicolò: – Stanotte alle due io sarò là, ‘na buona occasione per te. Posso presentarti ufficialmente alla delegazione dei piccoletti come mio successore, Giulio Vaga II. – Il Gastaldo fece un largo gesto con le mani a indicare la vastità grigia che sfumava davanti a loro. – Pensaci. Dalle due di stanotte tutto quanto potrebbe essere anche tuo, al mio fianco come signore e padrone di Venezia e del Golfo Padano. Perché, parliamoci chiaro, gli altri Gastaldi non valgono un cazzo.
Vico rimase in silenzio a guardare la collana di boe luminose che si dissolveva in lontananza.
– E poi c’è un altro aspetto – aggiunse il Gastaldo protendendo il ventre nudo contro le antichissime colonnine di marmo intarsiato che contornavano il balcone. – Te non devi essere così egoista con la tua donna. Per te la situazione sarà anche sopportabile perché sei stato te a scegliere di vivere nella merda, ma per ‘na donna è dura, non capisco come ce l’abbia fatta per tanto tempo avendo a portata di mano tutto ‘sto bendiddio. – Mentre parlava, il Gastaldo aveva cominciato a pisciare, le mani appoggiate sui fianchi, il corpo proteso all’infuori. Il getto di urina che usciva tra due colonnine si frantumava in gocce prima di raggiungere l’acqua.
– Capisci? – Diceva il Gastaldo osservando il getto giallastro. – È anche ‘na questione morale. Sarà pure femmina ma dopotutto è la tua compagna. Ha già tentato ‘na volta di tirar i spaghi, vuoi che ci riprovi? Dovresti avere un poco della mia sensibilità invece di dire stronzate che non stanno né in cielo né in terra.
Vico si girò per rientrare.
– Allora – chiese il Gastaldo riannodandosi la cintura. – Ti vedo stanotte?
– Può darsi. – Il giovane si avviò verso la porta. Sentì alle spalle la risata di suo padre. – Dài, che stavolta è quella buona!
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La traccia sul monitor al polso di Vico appariva chiarissima. L’aveva vista avvicinarsi lentamente e quindi fermarsi a una ventina di metri. Lui era arrivato in anticipo perché doveva prima trovare un buon grumo di alghe e sistemare la barca al riparo dai radar. Poi aveva cominciato ad attendere nel buio totale, gli occhi fissi sul monitor. Alle due meno cinque apparve una seconda eco. Dalla bocca di porto di San Nicolò filtrava il segnale acustico delle boe ma le loro luci non riuscivano a forare i banchi di nebbia insufflati nelle lagune. Vico si avvicinò ancora di qualche metro, avvolto nel grumo d’alghe. Riusciva a sentire le voci del Gastaldo e dei due uomini della scorta. Il contorno della barca si faceva sempre più nitido. Di tanto in tanto udiva le voci dei bambini. Uno di loro si era messo a piangere ma subito fu fatto tacere.
Improvvisamente la radio cominciò a gracchiare. Uno degli uomini del Gastaldo dette disposizioni in codice. La seconda traccia sul monitor si avvicinò lentamente fino a quando le due imbarcazioni accostarono.
Una leggera corrente di riflusso tendeva ad allontanare Vico ma bastava qualche colpo di pinna per compensare e mantenere la distanza di una decina di metri. Adesso poteva vedere con sufficiente chiarezza i movimenti all’interno delle barche. I giapponesi erano arrivati a bordo di un motoscafo d’altura, segno che la nave-madre era in attesa in rada.
Cominciò a piovere. Le operazioni a bordo dei due natanti avvenivano alla luce di torce elettriche. I raggi luminosi si spostavano a scatti sulle strutture delle imbarcazioni e sui corpi lucidi degli uomini e dei bambini. Vico contò sei bambini mentre venivano fatti salire sul motoscafo. Tentò di riconoscere Orso ma non gli fu possibile. I pochi anni di vita del bambino erano stati condizionati in funzione di quel momento, e quindi, come per tutti i bambini della Città Bassa, anche per lui non c’erano state occasioni per rendersi conto del mondo di superficie, non c’erano stati giochi con altri bambini, confronti. Quella era la loro prima emozionante avventura.
Adesso, nell’abitazione a San Simeon Grando erano entrati millecinquecento ducati e la possibilità per Vico e Veniera di avere un altro bambino che, questa volta, sarebbe stato di loro proprietà.
Dopo il trasbordo e un rapido intrecciarsi di ordini, il motore dell’imbarcazione giapponese si ridestò. Vico si trovava a quattro o cinque metri. Quando il motoscafo mise la prua in direzione della bocca di porto, anche la barca di Vaga si apprestò a ripartire. Vico adesso era a meno di due metri. Vedeva il grosso corpo di suo padre occupare quasi per intero il trasto di prua, gli altri due erano a poppa accanto all’elica intubata.
Vico alzò la cerbottana mirando a quello che stava per avviare il motore. L’uomo si accasciò. Nella barca ci fu un attimo di smarrimento. L’altro uomo si chinò sul compagno. Il motoscafo dei giapponesi intanto era già scomparso nella nebbia.
– Ma che gli ha preso a quello! – Sentì suo padre gridare.
– E che ne so, stava per accendere il mot… – Non riuscì a completare la frase.
– Cristo! – Imprecò il Gastaldo. – Si può sapere che cazzo sta succedendo! – Si avviò faticosamente a poppa. Vico accostò la barca e si issò a prora. L’improvvisa oscillazione dello scafo fece quasi perdere l’equilibrio al Gastaldo che non sapeva cosa fare: le sue guardie del corpo erano prive di sensi stese sul fondo della barca e adesso qualcuno era salito a bordo. Portò la mano sotto la casacca.
– Tranquillo, Giulio, sono Vico.
– Vico! Sei proprio te, Vico? Ma sei arrivato in ritardo, ormai i piccoletti… e poi, dov’è la tua barca? – Non riusciva a capire. Rivolse lo sguardo ai due uomini che non davano segno di vita. – Per la madonna, ma cos’è tutto ‘sto casino! I miei uomini…
– I tuoi uomini se ne sono andati, Giulio. Li ho fatti fuori io.
Il Gastaldo rimase immobile a guardare Vico che lo stava raggiungendo a poppa.
– Perché? – Chiese poi con voce chioccia.
Vico non rispose. Afferrò uno dei due corpi e lo gettò fuori bordo, poi fece lo stesso con l’altro. – Un po’ di spazio. Questi ormai non ti servono più. Loro i soldi dei bambini non li avevano mica, vero?
Il Gastaldo seguiva i gesti di Vico come sotto ipnosi. Quando anche il secondo uomo scomparve dentro l’acqua nera sembrò destarsi di colpo. – Di’ un po’, sotomarin, non è per caso che hai scoperto qualcosa su quei due? Forse volevano ficcarmelo tra le chiappe e andarsene con i miei ducati, è così?
– No. Ieri mi hai chiesto quando mi sarei deciso. Ecco, mi sono deciso. Speravo di poter salvare Orso ma purtroppo la tua gentilezza nel lasciarcelo fino all’ultimo momento è stata la sua condanna. Avrai anche lui sulla coscienza.
– Ma… che vuoi dire, io non ci capisco mica…
– Se stai zitto te lo dico in due parole. Vedi, si dà per scontato che i figli seguano la strada dei genitori. Questa specie di regola senza senso è ancora più valida qui perché non c’è scelta, o su o giù. Ma a me è sempre piaciuto leggere, conoscere com’era questo luogo in passato, quindi non potrò mai diventare Giulio Vaga II. Quello che voglio dire è che non sono nato nel periodo giusto, cioè prima che questa città fosse distrutta da voi e ridotta in letamaio.
– Voi? E chi sarebbero ‘sti voi?
– I Bancarellari, i Taiwan, gli Abusivi, quelli che hanno dato nome alle Corporazioni, uomini come te, il cui unico scopo è arraffare più danaro possibile con qualsiasi mezzo e nel minor tempo. Eliminando chi non è d’accordo.
Il Gastaldo fissava muto quel giovane di fronte a lui che era suo figlio. Sentiva dentro di sé un conflitto di sensazioni tra le quali si stava facendo strada una grande rabbia.
– Sta a sentire te adesso, figlio di troia – sbottò finalmente il Gastaldo battendo l’indice sul petto di Vico. – Io c’ho un nome che è ‘na tradizione e non me ne frega un cazzo se te non prenderai il mio posto, me ne sbatto di uomini come te. Quei due che hai appena ammazzato valevano cento volte di più, loro avevano un par di coglioni così e andavano dritti al sodo, mica erano insulsi sognatori che stanno meglio a farsi cagare sulla testa chiusi come pantegane nelle loro fogne. E te sei la pantegana da fogna più grossa perché hai preferito farti cagare sulla testa piuttosto di essere un capo figlio di capo. Io non so di che puttanate stai farneticando, so solo che da sempre il sistema per farsi strada nella vita è questo qua e se è durato tutti ‘sti anni significa che’l va bene così, almanco fino a quando non ne scopriranno uno più buono, ma sta certo, sotomarin, che ci saranno sempre quelli che potranno permettersi di cagare in testa agli altri.
Vico annuì. – Hai toccato il punto. Forse è venuto il momento di cambiare il sistema.
– E chi sarebbe quello che lo cambia, te?
– È necessario. Sono l’unico in grado di farlo.
– Di’ un po’, Vico, ma te sei andato fuori di testa? Cos’è ‘sta storia del cambiamento, hai forse intenzione di far fuori anche me?
– Te l’ho detto, è necessario, fa parte del disegno.
Il Gastaldo sentiva consolidarsi il dubbio che suo figlio fosse proprio impazzito. In questo caso doveva cambiare tattica, non poteva permettersi di prenderlo di petto, doveva assecondarlo e guadagnare tempo, queste erano le uniche cose da fare e doveva farle bene, assecondarlo e guadagnare tempo. Sorrise, poi allargò le braccia. – Vico, quanto male che mi fa quello che hai detto! Avrò fatto dei sbagli… ma ti sembra bello pensare di far fuori tuo padre?
– Anche vendere bambini come pezzi di ricambio non è bello.
– Cristo santo… io non vendo bambini a pezzi! Isoo Iketani e Yuki…
– Inutile continuare, Giulio. Ormai le cose vanno avanti da sole. Vorrei non doverlo fare ma credimi, è necessario.
– Ma mi vuoi spiegare che cazzo è ‘sta maledetta stronzata della necessità!
– Tu e io siamo due simboli, Giulio. Se vieni ammazzato da uno qualsiasi sarebbe un’eliminazione da parte di una fazione avversa. Io invece sono tuo figlio, il cambiamento deve avvenire dallo stesso ceppo per essere un vero cambiamento. È come se ti suicidassi e con te morisse l’idea.
Il Gastaldo ascoltava muto. Il filo di paura che si era infiltrato si stava espandendo a ogni parola di suo figlio. Il quale aveva già ucciso due uomini e stava portando avanti un piano con lucida freddezza. Quindi non restava che agire, anticiparlo.
I due uomini si affrontavano in piedi sulla piccola barca, lucidi di pioggia, contornati dal buio e dalla nebbia. Il Gastaldo cercava di capire quale azione potesse bloccare l’avversario prima che facesse la prima mossa.
Ma ormai era troppo tardi.
In un’unica fulminea sequenza Vico si spostò all’indietro e verso la sponda, la barca si inclinò fino a sfiorare con il bordo la superficie dell’acqua. Il Gastaldo non riuscì a mantenere l’equilibrio e cadde annaspando. Il suo corpo incontrò la lama di Vico che lo penetrò fino al manico. Tutto si svolse in una manciata di secondi. Poi Vico accese lo Yamagishi per andare a recuperare la sua barca.
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Dell’antico Arsenale erano visibili solo le estremità delle torrette e alcuni tratti delle mura merlate. Tutto sembrava morto ma anche lì, qualche metro sotto la superficie, c’era attività. Con una differenza: in altre zone cittadine la presenza sommersa era nota e costituiva addirittura un elemento di simbiosi; la presenza nelle viscere dell’Arsenale era sconosciuta e silenziosa, e si stava sviluppando con ritmo costante. Si stava sviluppando da ventisette anni.
Vico Aponal si ingolfò nelle brume che avvolgevano le mura del dantesco Arzanà de’ Viniziani. Il perimetro murario aveva creato una sorta di lago nel quale l’acqua non era soggetta al periodico gioco di flusso e riflusso, quindi si erano sviluppati estesi banchi di infiorescenze che avevano raggiunto spessore e consistenza tali da permettere di camminarvi sopra. Con il passare del tempo lo spazio delimitato dalle mura era diventato un microcosmo dove s’era sviluppata anche una fauna totalmente nuova.
Nessuno si addentrava nella zona dell’Arsenale, almeno da vivo. Eventualmente ci arrivava da morto. Quando ci si voleva disfare di un cadavere lo si abbandonava tra quelle mura: ci avrebbero pensato le strane creature che vi abitavano a farlo scomparire, ossa comprese. A volte capitava che un corpo o parte di esso riuscisse a districarsi dai grovigli vegetali prima di sparire del tutto, e, trascinato da inesplicabili correnti sottomarine, sgusciasse attraverso una delle numerose brecce e arrivasse nelle zone di pesca o nelle aree abitate. Ma succedeva molto raramente.
Fu verso questa inquietante area cittadina che Vico Aponal si diresse nel buio di quella notte di fine novembre. Aveva legato con una cima la barca del Gastaldo alla sua, e adesso stava avvicinandosi alla sommità delle mura orientali che spuntavano dall’acqua come la gigantesca chiostra di denti di un mostro sommerso. Poggiò leggermente a dritta dove la fila di denti si interrompeva per qualche metro, il motore al minimo. La barca del Gastaldo lo seguiva docilmente con il corpo di Giulio Vaga steso sul pagliolo, coperto da un telo.
Appena superato il muro di cinta Vico spense il motore. La pioggia era aumentata. Grosse gocce si schiacciavano sulle superfici di plastica delle due imbarcazioni. Il motore non serviva per manovrare all’interno dell’Arsenale. Vico estrasse il remo e cominciò a puntare la pala sulla massa di alghe, prima su un fianco, poi sull’altro. I fondi piatti delle due imbarcazioni scivolavano frusciando sulla vegetazione.
Dopo una ventina di metri, la parete butterata di una torretta uscì dal buio. Un largo tratto a pelo d’acqua era costituito di assi di legno inchiodate. Vico infilò una scheda in una fessura mascherata. Le assi si alzarono scoprendo un passaggio attraverso il quale fece passare le due barche. Le pareti interne della torre erano metalliche.
Con l’inserimento della scheda aveva avuto inizio una sequenza automatica. La falsa parete tornò al suo posto, subito dopo un sistema di pompe liberò l’interno dall’acqua fino a far posare le imbarcazioni sull’antico selciato. Un’altra lastra mobile si alzò. Due giovani erano in attesa.
– Vico! Da dove arrivi con tutto quel naviglio? – Chiese ridendo uno dei due, ma si fece subito serio. Fissando la barca del Gastaldo mormorò: – Ma quella è una delle barche…
– Chiamate Manin – tagliò corto Vico. – Voglio vederlo subito, da solo.
I due giovani avevano capito che qualcosa di estrema importanza era nell’aria. Dopo pochi istanti arrivò un uomo alto, sottile, con lunghi capelli grigi che arrivavano quasi alle spalle. Un filo di barba gli incorniciava il viso. Gli occhi erano scuri e fondi. Dimostrava una sessantina d’anni. I due uomini si guardarono in silenzio per qualche attimo, poi Vico indicò col pollice il corpo alle sue spalle coperto dal telo. – Lì sotto c’è Giulio Vaga, il Gastaldo degli Abusivi. L’ho ucciso dopo che aveva consegnato sei bambini ai giapponesi. Ho fatto fuori anche gli uomini della scorta. Voglio che mostri il cadavere ai ragazzi.
Lo sguardo di Manin passava da Vico al telo dentro la barca. – Bene – disse. – Allora è venuto il momento di muoverci.
– Quando vuoi, il capo sei tu.
Manin si avvicinò e gli strinse il braccio. I suoi occhi neri luccicavano. – Vieni.
– No, adesso devo tornare da Veniera. Ha aspettato troppo tempo, è ora che anche lei sappia.
– Certo, capisco. Ma tu… non hai cambiato idea?
Vico scosse la testa. – La mia parte l’ho fatta. Io non sono fatto per il comando, non sono un capo, sarei solo d’impaccio.
Due donne si stavano avvicinando. Erano entrambe anziane, oltre i sessant’anni, entrambe in stato avanzato di gravidanza. Salutarono Vico.
– Quando nasceranno? – Chiese lui.
– Da ieri ogni momento è buono. – Disse una delle due.
– Entro la settimana ne nasceranno una ventina – aggiunse allegramente l’altra. – Poi ci metteremo di nuovo a covare. – Si allontanarono ridendo.
– Va bene – disse Vico a Manin. – Adesso avrai parecchio da fare. Augura ai ragazzi la migliore fortuna.
– I ragazzi sono tutti con te.
I due uomini spinsero la barca del Gastaldo fuori dalla base della torretta, quindi Vico risalì a bordo della sua. Si salutarono con un ultimo cenno della mano. Appena la paratia chiuse la camera stagna, l’acqua cominciò a fluire.
Era ancora notte quando Vico ormeggiò alla boa di San Simeon Grando. Finalmente avrebbe potuto dire a Veniera tutto quello che aveva dovuto nasconderle da sempre.
La trovò riversa sul letto. Il suo corpo era freddo.
– Non è giusto – mormorò con voce spezzata. – Non è giusto… non è giusto…
Gli avvenimenti stavano precipitando. Non aveva mai considerato la possibilità che Veniera riuscisse nel suo intento proprio quando avrebbe potuto godere il risultato di tanti anni di sacrifici e di rinunce, quando finalmente avrebbe potuto conoscere il suo uomo.
Chiamò Saverio. Sul monitor apparve la faccia assonnata dell’amico. – Qual è il problema? – Chiese subito.
– Veniera.
– Vuoi dire che… ha tentato ancora?
– C’è riuscita.
– Cristo! Ne sei proprio sicuro?
– Puoi pensarci tu?
– Certo. Quando è successo?
– Sono tornato e l’ho trovata sul letto. Stavolta ha usato Maxidrom, un flacone intero. Chissà come ha fatto a procurarselo.
– Entro un’ora sono da te.
– Sarebbe bastato un giorno, un fottutissimo maledetto giorno e non l’avrebbe fatto… avrebbe partecipato con noi… oh Cristo, un giorno soltanto!
– Che vuoi dire, non capisco…
– Niente. – Vico spense il monitor.
°°°°°°°
Erano da poco passate le cinque del pomeriggio. La cappa fuligginosa che gravava sui resti della città aveva anticipato il buio della notte. Vico stava dirigendosi al largo senza una meta precisa. Saverio era venuto un’ora dopo la telefonata e aveva provveduto a preparare il corpo di Veniera, poi l’aveva portato con sé e avrebbe avvisato per la cremazione. Vico era rimasto a lungo nella casa vuota, circondato dai borborigmi dei sistemi di sopravvivenza, fino a quando aveva sentito la necessità di abbandonarla. Così era salito in superficie, aveva staccato la barca e si era allontanato usando i remi.
La distesa di acqua nera aveva la consueta immobilità, le luci che filtravano dagli ultimi piani rivelavano l’inesausta attività godereccia dei Gastaldi e dei Famigli. Ancora nessun segnale dalla zona dell’Arsenale, ma era solo questione di tempo. Daniele Manin aveva subito preso in mano la situazione dando inizio alla fase uno.
Sotto le acque stagnanti dell’antichissimo Arsenale, cuore e braccio della Dominante, una nuova generazione di uomini e donne aveva avuto ventisette anni di tempo per crescere e prepararsi. Le poche coppie giovani che abitavano nella Città Bassa erano le uniche ad avere la possibilità di creare nuove forze, ma dovevano prima generare figli per l’ammasso.
Per le donne anziane il problema non esisteva, non potevano più offrire nulla ai Gastaldi. Alcune di loro si limitavano a sparire. E iniziavano una nuova giovinezza tra le mura merlate dell’Arsenale.
Ventisette anni prima, un uomo di nome Alvise Salvador aveva posto le basi per un piano a lunga scadenza contando sull’ignoranza del potere e sulla sua indifferenza nei confronti di chi non rappresentasse una fonte di guadagno. Un giorno scomparve e nessuno seppe più nulla di lui. Il suo cadavere fu trovato dopo un paio di settimane ma era talmente sfigurato che la sua identificazione fu puramente un timbro su un foglio.
Quell’uomo dato per morto aveva scelto di scomparire e di cambiare il proprio nome in Daniele Manin dando avvio, negli spazi delle immense strutture dell’Arsenale, a un’attività sommersa sia in senso metaforico che reale. Le donne non più feconde offrivano il proprio utero per ospitare ovuli fecondati. I risultati migliorarono col tempo, con l’esperienza e con l’organizzazione. Quando Vico dette luce verde a Daniele Manin, ottantatré giovani tra maschi e femmine erano pronti a muoversi sapendo perfettamente quello che dovevano fare.
Apparve il contorno sghembo del campanile di Santo Stefano. La Torre dell’Orologio e il campanile di San Marco, seppur vicini, non erano ancora visibili. Vico continuò a remare lentamente fino a quando la mole del campanile e le cupole della basilica apparvero davanti a lui come grosse macchie. Lo sciacquio del remo che si immergeva era l’unico rumore.
Decise di proseguire fino all’imboccatura del bacino, da quella posizione avrebbe potuto osservare la zona dell’Arsenale. Ma poi cambiò idea. Legò la barca al capitello della colonna di Marco. La struttura marmorea con il corpo massiccio del leone alato incombeva sopra di lui. Si arrampicò sulla sommità del capitello e sedette ai piedi dell’enigmatico animale, appoggiando le spalle a una delle grosse zampe anteriori. Il muso dell’animale, devastato dalle piogge acide, era orrendo.
Vico si sentiva sopraffatto dalla realtà. Fino al giorno prima era un normale abitante della Città Bassa, con una moglie, un figlio e, nonostante tutto, un padre. Adesso era solo. Pensava a Orso che si trovava assieme ad altri bambini nella stiva di una nave, destinato a diventare servitore status symbol in qualche casa esotica o, forse, materiale di ricambio per i corpi dei padroni del poco mondo rimasto.
Dalla nebbia cominciò a filtrare il bagliore dei primi incendi.
© Renato Pestriniero, 1996, 1998, 2000, 2020.
Ha pubblicato oltre un centinaio di opere fra romanzi, racconti e saggi. I suoi libri sono stati tradotti nelle principali lingue europee. Al suo attivo ha inoltre esperienze come pittore e soggettista radiofonico e televisivo. Su un suo racconto di fantascienza, Una notte di 21 ore, è basato il film Terrore nello spazio di Mario Bava (1965).