Ringrazio l’amica Tea C. Blanc che, dopo avermi letto particolarmente pessimista in una mia esternazione su Facebook, ha detto che mi avrebbe regalato il racconto che stava finendo di scrivere: questo. Sapeva di farmi un grandissimo regalo.

Ma chi è Tea? Tea è molteplice. Oltre ad avere un lavoro ufficiale con cui vivere, si interessa di letteratura, redazione, arte grafica, rapporti editoriali, scoperta di talenti… Non credo esistano in Italia molti operatori letterari e artistici con le caratteristiche di Tea, né con la sua abilità! E nemmeno autori col suo afflato. I suoi racconti sono sempre molto sofisticati e, assieme ai romanzi, possiedono un’anima di mistero all’inglese, con finale a sorpresa: la citazione ad Alice, in questa sua storia, lo conferma. Abbiamo un progetto comune, per il momento accantonato, che esplora proprio quest’anima dell’Inghilterra profonda. Ho parlato del progetto con qualche Editore, ma nessuno di loro ha capito di cosa si trattasse.

Ma voi lettori, che siete meglio di loro, godetevi questa storia, perché non ne troverete molte altre dello stesso valore in giro per la fantascienza.

F.G.

 

Il muro, di Tea C. Blanc

 

«Quando io uso una parola», disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante,
«essa significa esattamente quello che decido io… né più né meno.»

«Bisogna vedere», rispose Alice, «se lei può dare tanti significati diversi alle parole.»
«Bisogna vedere» replicò Humpty Dumpty, «chi è che comanda… ecco tutto.»
(Lewis Carroll: Alice Attraverso lo specchio; 1871)

 

Risiedevo in una catapecchia sul limitare rialzato di un vasto prato antico, dove gli fanno cerchio una parte dell’abitato e un bosco. Dalla mia posizione potevo vedere solo la sommità della selva, perché le case che si ergono lungo la strada interna del paese mi impedivano una visuale completa.
La mia abitazione poggiava a ridosso di un’alta e vecchia massicciata, a tratti ricoperta di edera, che si spinge fino alla strada di raccordo con altri villaggi vicini.
Questo muro mi è molto caro perché, nonostante non l’abbia mai varcato – lo potevo vedere solo dal disotto, – delimita il giardino della mia amica.

Una notte piangevo e urlavo forte, era un gran brutto periodo.
Non riuscivo più a trovare un motivo per continuare, una faccia di qualche interesse. Soffrivo di solitudine. Dicono che col tempo al confino forzato subentri l’abitudine, io non mi sono mai rassegnato.
Ero così offeso dalle condizioni in cui versavo che a ogni calata delle tenebre, quando il mondo tornava muto e sospeso, cominciavo un lamento di sangue. Andavo avanti per ore – non so cosa fosse quella malinconia, avvertivo una presenza di morte.
All’improvviso una porta cigolò al di là dell’alta massicciata e subito dopo risuonarono alcuni passi. Fu quella la notte in cui emise per la prima volta il suo richiamo. In realtà non furono parole.
«Sssshhhh…» pronunciò, dolce e decisa. Di colpo tacqui, sorpreso.
Poi accadde. Cominciammo a chiacchierare e a conoscerci, e solo in un secondo momento mi resi conto che stavamo parlando in silenzio. Lei poteva captare i miei pensieri!
All’inizio lo fece con un po’ di fatica. Quando ne compresi il motivo dovetti spiegarle che la telepatia di cui mi servo comunica per immagini, e non con parole. Il che è molto comodo e veloce, come sai, perché per trasmettere i fatti di un’intera giornata, per esempio, si impiegano pochi secondi. Tant’è che le nostre conversazioni non avevano mai bisogno di prolungarsi.
Dopo di allora ci demmo convegno quasi ogni sera. Io lanciavo un urlo, lei usciva dalla porticina e si accendeva una sigaretta. Percepivo fino oltre il muro folate di tabacco aleggiare sul prato digradante. Ci raccontavamo un po’ di tutto.

Mai ci incontrammo – il muro era troppo alto perché lei potesse sporgersi. Del resto, mi bastava vederla accoccolata sotto il tiglio che a fine fioritura tappezzava di corolle inebrianti il tetto e le immediate vicinanze della mia stamberga. Spesso la invitai a venire da me, lei aveva promesso di farlo – è arrivata un pomeriggio dell’estate scorsa quando, poco prima, ero stato posteggiato nel cortile interno. Giorno di pulizie.
Non me la presi per l’occasione mancata. Le nostre chiacchierate serali mi parevano già una enorme fortuna insperata, perché era un’interlocutrice vivace. Il suo cervello emanava immagini limpide, dirette e precise: mi raccontava un mucchio di cose, di come è il mondo là fuori, che cosa fanno e cosa mangiano. Per me, imprigionato dentro una brutta vita, ascoltarla era un delirio di felicità. Quante volte mi ha regalato parole rincuoranti, durante i nostri numerosi appuntamenti!
«Mi spiace che ti trovi in questa prigione» dichiarò una sera, mentre la luna stava per alzarsi. «È che viviamo in un mondo strano. Innaturale, lo chiamo.»
«Prigioniero, dici?» le risposi. «Da quel che ho capito, anche per te non è molto diverso, in fondo.»
Lei rise e pensò alla sua vita, in modo che vedessi anch’io.
«Mmhhh» replicai, quando bloccò il flusso delle immagini, «hai ragione. Non contano il luogo, o come vanno le cose. Quel senso acuto di svelamento a cui segue la pace», lei lo aveva descritto con un lampo per dare il senso di illuminazione, «lo puoi raggiungere anche nelle condizioni di vita più sfortunate.»
«Proprio così» confermò.
Con un saluto rientrò in casa, ma subito, ripensandoci, tornò fuori con una domanda pressante.
«Dimmi, qual è la cosa che ti farebbe più felice, amico mio?»
Ricusavo di pensare al mio sogno. Stetti in silenzio per un poco, intimidito all’idea di esternare quello che reputavo un segreto. Lei aspettava.
«Correre per il bosco. Non l’ho mai visto» infine confessai.

I nostri convegni procedevano senza ostacoli. Chi avrebbe potuto intuirli? Conversavamo in silenzio senza vederci, ognuno al di là di un lato del muro, e ci lasciavamo trasformati; almeno, così io mi sentivo. Il desiderio di morte si era dileguato.
Un mese fa, però, avvenne un angosciante imprevisto.
Per molte notti l’avevo chiamata invano, finché una sera colsi la figlia parlare con un uomo. La voce si diffondeva dalla finestra aperta e il turbamento in cui era avvolta le provocava emozioni disordinate. Ne approfittai per capire cos’era successo; così riuscii a leggere nei suoi pensieri.
La mia amica era stata imprigionata!
Non compresi bene il perché, so che era andato storto qualcosa dove lavora – lo ha detto per difendere la verità! intanto gridava inferocita la ragazza all’interlocutore. Vidi gli esiti della verità: due uomini l’avevano legata e caricata su un furgone. La figlia ripeteva ossessiva: «La costringono a dormire giorno e notte, alimentata attraverso un ago, e non mi permettono di vederla.» Di più non riuscii a scoprire.
Puoi immaginare l’abbattimento in cui caddi alla rivelazione. Nei giorni seguenti mi rifiutai di mangiare.
Ma la settimana scorsa la mia amica è tornata! Ne sentii la presenza in cucina.
Aspettai con ansia la sera per tornare alle nostre conversazioni, così continuai a urlare finché non uscì dalla porticina dietro casa.
Mi lanciò il suo solito segnale: «Sssshhhh!»
Cominciai a riempirla di domande, a festeggiarla, se avessi potuto l’avrei abbracciata; ma lei non rispondeva.
Solo dopo molti tentativi, con uno sforzo immane, riuscì a mandarmi un unico quadro terribile di dove era stata. Poi la sua mente si spense come l’arrivo dell’imbrunire.
Le notti seguenti, a ogni mio richiamo arrivava puntuale, ma la sua testa continuava a riflettere il colore della nebbia. A poco a poco mi accorsi che non poteva più parlarmi. Le avevano rotto qualcosa.
Dopo, piansi per ore e i miei lamenti risuonavano dell’eco che rimandava la vallata erbosa.

L’altra notte è arrivata dalla strada. Si è inoltrata nel sentiero che porta alla mia catapecchia, confondendosi tra le ombre degli alberi e lanciandomi il suo adorabile sussurro.
«Sssshhhh…»
Aveva in mano un ferro lungo, doppio. Mormorando parole umane, con un taglio secco ha spezzato la catena e il collare.
«Vai, amico mio. Vai a correre nel bosco…» bisbigliava sorridendomi.
Le ho leccato la mano, felice di toccarla, le ho asciugato con la lingua le guance pallide e bagnate, mi sono avvolto dell’amato odore.
La sua mente non riluceva più di colori, ma lo spirito era imbattuto. Accarezzava il pelo del mio mantello e mi abbracciava.
«Vai, vai prima che arrivi qualcuno e ci incatenino di nuovo» tornò a dirmi.
E io me ne andai, sapendo bene quali sarebbero state le conseguenze se fossi stato ricatturato. Ma non era importante. La notte era giusta.
«Ahuuuuuuhhhh!!!»

 

dedicato all’amico Giuseppe, amante dei libri

 

Il racconto “Il muro” è World © di Tea C. Blanc. All rights reserved

Il muro, di Tea C. Blanc