In questa sezione contiamo di pubblicare dei piccoli racconti inviati da scrittori italiani, o concessici da Editori che in qualche modo credono in noi. Questo è un racconto di Antonio Bellomi, già pubblicato, che però ci è parso divertente e che ospitiamo molto volentieri.

© Racconto di Antonio Bellomi
Le immagini sono tratte da
“Il meglio di Jack Vance”, © Robot – Armenia Editore, Novembre 1977
e sono © di Giuseppe Festino, pubblicate con la sua autorizzazione.

antonio_bellomiDevo dire che non ho mai avuto una passione per Isaac Asimov come scrittore di fantascienza. Anzi lo trovavo freddo e noioso. Però mi ha entusiasmato coi suoi racconti gialli dei Vedovi Neri e quelli dello Union Club. Ecco cosa mi ha spinto ha scrivere a mia volta la serie di racconti del Club Pigreco e quelli che hanno per protagonista Uriel Qeta, ispirato chiaramente a Wendell Urth, nonché nel bene e nel male a me stesso, così come è molto ispirato a me stesso, e molto di più anzi, il personaggio di Jack Azimov del Club Pigreco, con tutte le sue idiosincrasie e golosità. Insomma, mi piace prendermi in giro.

La sequenza spezzata

«Grazie di essere venuto.»

Il commissario Kim Sukyung accolse calorosamente l’arrivo di Uriel Qeta e fece cenno all’agente sulla porta di lasciarlo passare. Il Commissario Capo dei Laboratori di Luna-City aveva il viso imbronciato, come solo può averlo una persona sotto pressione, che non vede una via d’uscita ai propri problemi. I suoi sentimenti in quel momento erano assolutamente trasparenti e la proverbiale impassibilità attribuita agli orientali assolutamente inesistente.

abercrombieUriel Qeta varcò la soglia del laboratorio di astronomia e strinse la mano al commissario. Quando questi l’aveva chiamato mezz’ora prima al visifono era stato esplicito. «Ho urgente bisogno di voi,» aveva detto. E detto dal commissario capo della Polizia di Luna-City voleva dire che il guaio che lo aspettava era grosso. Non era la prima volta che Uriel Qeta veniva interpellato come consulente dal commissario Sukyung e ogni volta che ciò era avvenuto era stato per un buon motivo. In pratica cioè, il commissario non sapeva che pesci pigliare.

Qeta si guardò attorno incuriosito. Si era aspettato di vedere un morto per terra, come gli era stato preannunciato, ma sul lindo pavimento di vetrex non si vedeva alcun corpo, né vivo né morto. Il commissario colse la sua espressione sorpresa e sorrise. Un sorriso molto tirato a dire il vero. «No, il morto non è in questa stanza, ma nel laboratorio vero e proprio in fondo a questo locale. Sono sicuro che voi potrete darmi una mano. Non vi avrei scomodato se non si fosse trattato di una faccenda molto urgente. Devo risolvere il caso entro tre ore al massimo.»

«E vi serve un planetologo?» chiese Qeta perplesso. «Io sono un esperto di pianeti, non un detective. Siete proprio sicuro che vi possa aiutare? È la prima volta che mi chiamate per un caso di omicidio. Le altre volte si trattava di darvi una mano a risolvere qualche problema più di carattere scientifico.»

Sukyung allargò le braccia mentre lo guidava in fondo al corridoio, dove si apriva un altro locale, più ampio, dalla cui porta aperta si intravedeva un grande tavolo e scaffali colmi di barattoli e provette. «Questa volta purtroppo c’è un morto di mezzo e ho pensato che l’acume che avete dimostrato in altre occasioni possa tornare utile anche adesso,» gli rispose. «Il morto, o meglio dovrei dire la persona assassinata, perché di omicidio si tratta, è il professor Helios Olmedo, il responsabile del Laboratorio di Astronomia e Astrofisica, che voi conoscete bene per motivi professionali. Spero proprio che riusciate a trovare qualche indizio che a noi è sfuggito, perché devo confessare che in questo momento brancolo nel buio e il tempo stringe.»

Il morto giaceva a terra dietro il bancone. Indossava il camice bianco e dal collo gli spuntava la parte terminale di un dardo di ceramica. Il viso era contratto, come se i nervi facciali avessero subito un’improvvisa paralisi.

«Avvelenato?» chiese Qeta come vide il dardo.

Il commissario annuì. «Esattamente. Vedete quel dardo? È un tipo di dardo che viene sparato con una pistola in ceramica ad aria compressa del tipo in uso sulle navi spaziali per sedare i tipi più rissosi. Solo che noi usiamo dardi soporiferi, mentre questo che ha ucciso il professor Olmedo era sicuramente avvelenato con una potente tossina.»

Qeta girò attorno al tavolo per esaminare meglio il cadavere. Nonostante i suoi centoventi chili di peso, si inginocchiò con agilità per osservare meglio il corpo, agevolato in questa operazione anche dalla bassa gravità lunare. «Avete già potuto stabilire l’ora della morte?»

«Un paio d’ore fa al più,» rispose Sukyung. «E il tempo è di primaria importanza in questa indagine. Come sapete, per spostarsi attraverso i vari livelli di Luna-City e aprire determinate porte occorre usare la propria chiave magnetica che a seconda del livello di sicurezza dà accesso a certi punti piuttosto che ad altri. Ma gli accessi sono tutti registrati dal computer centrale e in teoria si dovrebbe riuscire a seguire gli spostamenti di ogni persona con una certa precisione.»

Qeta terminò l’esame del corpo, poi si rialzò. Il commissario lo guardava speranzoso. «Qualcosa non torna, vero?»

Sukyung sospirò. «Purtroppo no. La porta di questo laboratorio è stata aperta dall’assassino con una chiave passe-partout contraffatta.»

«Contraffatta?»

«Esattamente. Il suo numero di codice registrato dal computer non corrisponde ad alcuno dei passe-partout in uso a Luna-City.»

«Questo farebbe pensare a un professionista, vero?» chiese Qeta, girando l’occhio per il laboratorio. «Una pistola in ceramica, adatta a superare i rivelatori di metalli, un dardo avvelenato, che non rientra nella dotazione normale della polizia lunare, un passe-partout contraffatto…»

«È esattamente quello che abbiamo pensato noi,» confermò Sukyung. «Ma abbiamo qualche traccia.»

«Questo è interessante,» disse Qeta. Ora aveva alzato lo sguardo e il suo occhio stava ispezionando il soffitto. «Quali sarebbero queste tracce?»

L’espressione di Sukyung era lievemente soddisfatta. «Siamo riusciti a ridurre il numero dei potenziali assassini a tre soltanto. Grazie all’uso delle chiavi magnetiche, gli spostamenti di tutti gli indiziati sono stati esaminati e ricostruiti. In pratica sono rimaste solo tre persone senza una traccia ricostruibile dei loro movimenti nelle ultime quattro ore e l’assassino deve trovarsi tra queste. Ne siamo sicuri al cento per cento. Si tratta…»

Qeta fece un gesto per interromperlo e alzò invece il braccio verso il soffitto. C’era un minuscolo occhio elettronico puntato verso di loro in quel momento. «Quella è una telecamera di sorveglianza, vero? Immagino che abbiate già controllato la registrazione.»

Sukyung fece una smorfia. Se considerava quella domanda un po’ offensiva non lo diede a vedere, però. «Certo, è stata la prima cosa che abbiamo fatto, ma il raggio d’azione della telecamera non copre tutto il locale e l’assassino si è posizionato in uno dei punti ciechi. Da lì ha sparato senza venire ripreso. Ho una copia del nastro su uno dei monitor del laboratorio. Lo volete vedere?»

«Ma certo.» Qeta si guardò attorno, vide un monitor acceso sul lato destro della stanza e fece per avviarsi in quella direzione, poi si voltò di scatto come se fosse stato improvvisamente colpito da un’idea e tornò a esaminare il tavolo dietro al quale giaceva il cadavere del professore.

«Avete notato qualcosa?» chiese Sukyung avvicinandosi a lui.

Qeta puntò il dito sul tavolo. C’erano cinque barattoli di vetro numerati allineati su un lato, e l’ultimo, invece di essere in piedi come gli altri, era coricato sul fianco. «Sembra che il professore stesse lavorando su questi campioni quando è stato ucciso. Evidentemente aveva in mano l’ultimo barattolo che gli è sfuggito nel momento in cui è stato colpito.»

«È esatto,» confermò Sukyung. «Ma potrete vedere tutta la scena sul monitor.»

I due uomini raggiunsero il monitor e Sukyung premette alcuni pulsanti. Immediatamente sullo schermo comparve un’inquadratura del laboratorio. Davanti al tavolo c’era il professor Olmedo, che improvvisamente sollevò la testa, stupito. Un istante dopo la sua espressione mutò, ma Qeta non riuscì a capire se fosse davvero preoccupata. Probabilmente era in quel momento che l’assassino era entrato. Forse aveva intuito qualcosa, ma non ne era ancora sicuro, o forse non voleva fare intendere alla persona che aveva capito che cosa stava per succedere.

Con fare indifferente il professore si voltò e prese dallo scaffale dietro di sé alcuni barattoli che cominciò a disporre ordinatamente sul tavolo. Si comportava come se la presenza dell’altra persona non lo preoccupasse. Che non avesse ancora capito che l’intruso era venuto per ucciderlo? I suoi gesti erano calmi e metodici, come se stesse predisponendo gli oggetti per qualche esperimento. Nulla faceva pensare che temesse di venire ucciso dalla persona che era entrata.

«Peccato che non ci sia il sonoro,» osservò Qeta. «Se avessimo potuto sentire che cosa si sono detti, probabilmente sarebbe tutto più facile.»

Ora il professore aveva finito di disporre i barattoli sul tavolo.

«Ecco, questo è il momento il cui viene colpito,» preannunciò il commissario.

Un istante dopo il viso del professore si contrasse mentre un dardo di ceramica gli penetrava nella giugulare. I nervi facciali gli si irrigidirono di colpo e parve che all’uomo mancasse l’aria, mentre cadeva di schianto.

«Paralisi con asfissia,» sentenziò Sukyung. «Morte quasi istantanea.»

«Tornate indietro un momento col nastro,» chiese Qeta. «Voglio rivedere la scena.»

Il commissario lo guardò stupito, ma non disse nulla e rimandò la scena sullo schermo. Di nuovo comparve il professore che trafficava coi suoi reperti lunari.

«Ah!» esclamò Uriel Qeta. «Proprio come pensavo. L’avete notato?»

«Notato cosa?» chiese Sukyung. «Si vede che il professore viene colpito mentre sta disponendo i barattoli sul tavolo e cade a terra paralizzato. O mi è sfuggito qualcosa?»

Qeta lo guardò pensieroso, come se stesse seguendo un suo treno di pensieri. «Se riguardate il nastro con più attenzione, vi accorgerete di una cosa. Il professore non è stato colpito mentre disponeva i barattoli sul tavolo, ma dopo, quando già aveva finito.»

«E allora?» La perplessità di Sukyung fu evidente. «Durante o subito dopo che importanza ha? Il momento era quello della sua uccisione.»

«Riguardate il nastro,» lo sollecitò Qeta.

Con un sospiro non troppo convinto il commissario rifece partire il nastro per la terza volta e per la terza volta ricomparve il professore che maneggiava i barattoli.

«Fermate l’immagine qui,» ordinò a un certo punto Qeta. «Non notate ancora niente di strano?»

Sukyung esaminò l’immagine poi sussultò e si voltò a guardare Qeta, sbalordito. «Ma certo, come ha fatto a sfuggirmi?»

Qeta annuì, indicando l’immagine. «Vedete, in questo punto il professore ha terminato di disporre i cinque barattoli sul tavolo, ma l’ultimo non gli è sfuggito di mano mentre veniva colpito. Il quinto barattolo l’ha coricato lui stesso, accuratamente, su un fianco. E dopo, solo dopo, cinque o sei secondi più tardi, è stato colpito dal dardo fatale.»

Ci fu un attimo di silenzio. Poi Sukyung disse piano: «Il professore ha capito che la persona che era venuta nel suo laboratorio voleva ucciderlo e ci ha lasciato un messaggio. Per farlo si è servito degli unici oggetti che in quel momento aveva sottomano, i barattoli coi campioni lunari.»

Qeta si voltò per tornare verso il tavolo. «Esaminiamo quei barattoli. Sono loro la chiave che potrà darci le risposte che cerchiamo.»

I barattoli erano i normali contenitori che servivano a custodire campioni lunari: polveri e frammenti di roccia. Ogni barattolo era contrassegnato da un numero che designava un file con tutti dati relativi al prelevamento: luogo, ora, profondità, équipe e altri dati ancora.

Qeta esaminò le etichette. «I numeri identificativi sono 4 – 7 – 10 – 16 e 28,» osservò. «Bisognerà esaminare i file relativi a questi campioni, forse in essi troveremo l’indizio che ci porterà all’assassino, ma…» scosse la testa pensieroso. «C’è una cosa che non capisco.»

Sukyung fece un cenno d’assenso. «Il barattolo disposto sul fianco, vero? Perché non l’ha messo in piedi come gli altri?»

«Appunto.» Qeta si appoggiò con le punte delle dita sul tavolo. «Il barattolo rovesciato deve avere un significato particolare, ma in questo momento mi sfugge proprio. Eppure il professore doveva considerarlo un elemento assai importante.»

Sukyung guardò l’orologio. «Ci restano solo due ore e mezza, dottor Qeta. Il tempo stringe. Dobbiamo esaminare questi file.»

Uriel Qeta lo guardò. «Già, me l’avete detto anche prima. Perché tutta questa urgenza?»

«Perché i tre sospetti si imbarcheranno tra due ore e mezza sul traghetto per la Terra e una volta usciti dalla nostra giurisdizione sarà tutto più difficile, sempre che l’assassino non decida di scomparire del tutto. In fin dei conti non sappiamo perché ha ucciso, quindi, ignorando il movente, non sappiamo neppure che cosa farà in seguito.»

«Giusto,» convenne Qeta. «Ma forse prima dei file dei barattoli, sarebbe utile sapere qualcosa di più sulle tre persone sospettate. Avete qui le loro schede?»

«Seguitemi.»

Il commissario guidò Uriel Qeta nella prima stanza e gli fece cenno di accomodarsi in una poltrona davanti a una scrivania su cui c’erano tre dossier. «Ecco le schede dei sospettati. Se volete esaminarle, io intanto devo dare degli ordini ai miei uomini.»

Mentre il commissario si allontanava Qeta prese in mano il primo dossier.

Dottor Miguel Menem, 35 anni, geologo. Brillante studioso di un’importante università di Bogotà. Esperto in pietre marziane. Celibe, nessun precedente penale.

Il secondo dossier riguardava la dottoressa Danielle Tietz, 29 anni, biologa, ricercatrice presso il Centro Governativo di Esobiologia di Dallas, virologa. Nubile, nessun precedente penale.

Il terzo dossier era intestato al dottor Roy Mobuto, 38 anni, astronomo, specializzato in radioastronomia presso l’osservatorio di Arecibo. Sposato con una collega di Arecibo. Nessun precedente penale.

Uriel Qeta sospirò. Gli altri dati contenuti nei dossier non davano l’impressione di potere essere molto d’aiuto. Forse i file dei campioni avrebbero potuto offrire qualche indizio più risolutivo. Era sempre più convinto che la chiave dell’enigma fossero proprio quei cinque barattoli numerati 4 – 7 – 10 – 16 – 28. Ma che mistero si celava in essi?

Quando il commissario tornò i due uomini esaminarono i file relativi ai campioni contenuti nei barattoli. Si trattava di normalissimi campioni di polvere e roccia lunare. Variava un po’ la composizione a seconda dei punti di prelevamento, ma non suggeriva nulla di particolare. In quanto alle équipe che avevano effettuato i prelievi, erano le solite che avevano operato in passato e tra i loro componenti nessuno aveva un nome che anche solo lontanamente assomigliasse a quello di qualcuno dei sospettati.

«Insomma, siamo al punto di partenza!» sbottò esasperato Sukyung. «Ormai manca solo un’ora alla partenza del traghetto e l’assassino rischia di farla franca. Un’ipotesi che mi fa imbufalire.»

«4 – 7 – 10 – 16 – 28,» mormorò Uriel Qeta, sempre più pensieroso. «Eppure sono convinto che sia in quei numeri che si nasconde il nome dell’assassino.»

«Se sostituissimo i numeri con le lettere?» ipotizzò il commissario. Prese carta e matita e scrisse le lettere dell’alfabeto e sopra di esse i numeri, 1 per “a”, 2 per “b” e così via. Il risultato fu “d g j p”. «Già, le lettere sono solo ventisei, quindi al numero 28 non corrisponde nulla.»

«E dgjp non ha alcun significato,» osservò Qeta. «I numeri potrebbero corrispondere ai numeri atomici della tabella di Mendelejev, ma anche in tal caso vedo già che non ci direbbero niente.»

In quel momento l’espressione di Sukyung era decisamente rabbiosa. Non era uomo che amasse perdere, come Uriel Qeta aveva avuto modo di constatare in tanti anni di frequentazione. «Non posso lasciarmi sfuggire quell’assassino!» esclamò. «Dobbiamo inchiodarlo.»

«Eppure il messaggio doveva essere abbastanza chiaro. Il professor Olmedo deve avere pensato che l’avremmo compreso facilmente,» osservò pensieroso Uriel Qeta. «Cinque barattoli numerati, l’ultimo rovesciato. Come se volesse troncare qualcosa… un punto fermo…»

Di colpo il suo viso si illuminò. «Ma certo, come ho fatto a non capirlo subito? Il professore era un astronomo… e il barattolo rovesciato indica che quei numeri non sono cinque e basta, si tratta di una sequenza interrotta!» Il volto del planetologo trasudava entusiasmo mentre si rivolgeva verso il capo della polizia di Luna-City. «Ci sono! Questi numeri fanno parte di una sequenza molto nota agli astronomi. Si tratta della sequenza di Bode: 4 – 7 – 10 – 16 – 28 che prosegue con i numeri 52 – 100 – 196 – 388. Il professore ha capito di non avere il tempo di predisporre tutti i barattoli sul tavolo, ma se ne avesse collocati solo cinque non avremmo intuito che si trattava di una sequenza. Invece collocandone uno rovesciato ci ha fatto capire che si trattava di una sequenza interrotta. Sì, non ci sono dubbi, si tratta proprio dei numeri della Legge di Bode, quella che ci dà le distanze dei pianeti dal sole, ponendo a 10 la distanza Sole-Terra.»

Uriel Qeta balzò in piedi, in preda all’entusiasmo. «Corriamo ad arrestare il suo assassino prima che si imbarchi sul traghetto!»

Anche il commissario Sukyung si alzò in piedi, ma la sua espressione era assolutamente perplessa. «D’accordo, se ne siete così sicuro. Ma la Legge di Bode non mi dice proprio nulla. I numeri non mi danno alcuna indicazione e la parola Bode neppure. Quindi, chi arrestiamo? L’astronomo?»

Il planetologo era già alla porta. «Non pensateci e muovetevi. Ve lo spiegherò mentre raggiungiamo il traghetto. Ah, che brillante soluzione ha trovato il professor Olmedo!»

«Dottoressa Tietz?»

La bella donna dai capelli rossi che stava per imboccare il Cancello 3 d’imbarco ai traghetti per la Terra si voltò con un sorriso smagliante. «Sì?»

Il tono del commissario Sukyung era gentile ma fermo. «Se voleste essere così gentile da seguirci un momento in ufficio…»

L’espressione della donna mutò lievemente, tradendo sorpresa, mista a un pizzico di preoccupazione, la precisa reazione che avrebbe chiunque si veda fermare dalla polizia un attimo prima di imbarcarsi su un traghetto spaziale. «Il mio traghetto sta per partire,» rispose cortesemente, con solo una lieve traccia di nervosismo nella voce.

«Vi prego,» insistette Sukyung, facendole cenno in direzione di un corridoio laterale. «Manca ancora mezz’ora alla chiusura dei portelli. Farò in modo che ci sbrighiamo rapidamente.»

«Se proprio insistete.» Il tono della donna era sostenuto ora. Quasi offeso.

Quando entrò nell’ufficio della Polizia Lunare non accennò a sedersi, lo fece solo quando Sukyung la invitò a farlo con un gesto imperioso.

Seduto in un angolo, Uriel Qeta la osservò attentamente. La dottoressa Tietz non mostrava la minima traccia di paura. Era sicura di sé, indispettita quel tanto che ci si poteva aspettare da una persona normale e preoccupata quel tanto che era giusto esserlo senza dare adito a sospetti per la troppa sicurezza.

«Insomma, posso sapere perché mi avete trascinata fin qui? Io ho un traghetto da prendere.»

«Temo proprio che ciò non sarà possibile,» rispose secco il commissario Sukyung, mentre apriva una cartelletta davanti a sé. «Dottoressa Tietz, voi siete in stato di fermo, perché sospettata per l’omicidio del professor Olmedo.» La sua espressione era severa, ma il tono di voce era stranamente pacato e distaccato. Più che accusare sembrava che stesse affermando un incontrovertibile dato di fatto.

Gli occhi verdi della donna sprigionarono un lampo incendiario. «Volete scherzare? Non sapevo neanche che il professore fosse morto.»

Era una dura quella donna. Una professionista. Il suo comportamento era perfetto. Reazioni calibrate. Normali. «Voi avete assassinato il professor Olmedo,» ribatté Sukyung in tono deciso. «Il professore si è accorto che stava per essere ucciso e ha lasciato un messaggio. Non vi conviene negare, perdereste solo il vostro tempo e lo fareste perdere a me.»

Uriel Qeta vide la biologa trasalire leggermente. Per la prima volta gli parve di scorgere un’incrinatura nella corazza di lei, ma fu solo un attimo fuggente. «Sciocchezze. Quale sarebbe questo messaggio? Non avete prove di quanto dite.»

Sukyung non rispose. In effetti si stava chiedendo se la prova che gli aveva fornito Uriel Qeta avrebbe retto in tribunale. Da parte sua era convinto del significato del messaggio, ma c’era sempre il rischio che un buon avvocato riuscisse a smontare la tesi dell’accusa. Quello che ancora mancava era un riscontro diretto.

La donna si alzò di scatto. «Io me ne vado.» Si girò, ma la voce di Sukyung la fermò. «Non cercate di uscire. La porta è bloccata. Ve lo ripeto, sedetevi.»

«Mi farete perdere il traghetto.»

«Penso che non perderete solo quello,» ribatté tranquillamente Sukyung e si mise a sfogliare il dossier che aveva davanti a sé con placida indolenza.

«Se pensate di farmi perdere la calma e indurmi a confessare ciò che non ho fatto con questo vostro atteggiamento indisponente, vi assicuro che vi sbagliate,» disse rabbiosamente la dottoressa Tietz. «Questo abuso di potere vi costerà caro.»

Sukyung non si prese neppure il disturbo di risponderle.

Uriel Qeta li osservava divertito. Sapeva perché il commissario cercava di tirare per le lunghe. In quel momento la squadra scientifica della Polizia Lunare stava perquisendo il bagaglio della biologa alla ricerca di qualche prova che la incriminasse direttamente per l’omicidio del professore. Magari l’arma stessa del delitto, anche se dubitava che una professionista avrebbe conservato con sé un oggetto così compromettente. Ma a volte anche i professionisti commettono errori.

Passò mezz’ora nel più completo silenzio. La dottoressa Tietz sedeva rigida sulla sedia con il viso simile a una maschera di pietra. E Sukyung continuava a fingere di leggere i documenti che aveva davanti a sé nella più completa indifferenza.

Il cicalino sulla porta suonò e Sukyung premette un pulsante. Entrò un agente della squadra scientifica con in mano un piccolo ovoide di metallo. «Abbiamo trovato questo. Era ben nascosto in una riproduzione dell’Obelisco del primo allunaggio.»

«Un souvenir lunare?» chiese con ironia il commissario, prendendo in mano l’ovoide e mostrandolo alla dottoressa Tietz.

La biologa questa volta non era riuscita a nascondere un trasalimento rivelatore. «Chiunque venga sulla Luna acquista una copia di quel celebre monumento,» disse con indifferenza.

Sukyung scosse la testa. «Mi riferivo a questo ovoide.»

«Mai visto prima.»

«Eppure è stato trovato nel vostro souvenir.»

La donna sollevò le spalle. «Ce l’avrà messo qualcuno. Come sapete questi souvenir sono cavi per risparmiare sul peso.»

Aveva sempre una risposta pronta, pensò Uriel Qeta. E le risposte erano anche logiche. Difficilmente sarebbe stato possibile coglierla in fallo con una semplice schermaglia verbale. Sukyung riprese a sfogliare il suo incartamento e la donna ritornò alla sua maschera impenetrabile.

Alcuni minuti dopo entrò nell’ufficio un altro agente, un tenente questa volta. Si rivolse a Sukyung. «Abbiamo controllato. L’ovoide proviene dal laboratorio del professor Olmedo. Fa parte della raccolta di campioni di spore aliene custodite in un armadio blindato del Laboratorio di Astronomia. Manca un ovoide e il numero di serie dell’ovoide mancante corrisponde a quello riportato sull’ovoide trovato nel bagaglio della dottoressa Tietz.»

«Ripeto che io non ne so nulla,» scattò la biologa.

Uriel Qeta provò un brivido. Così era stato quello il motivo dell’uccisione del professore. Rubargli un campione di spore trovate incapsulate in meteoriti alieni. Quelle spore non erano mai state portate sulla Terra. Molte erano innocue, ma altre erano potenzialmente letali. Liberate sulla Terra avrebbero potuto diffondersi e moltiplicarsi con virulenza ed essere più letali del botulino stesso.

Il commissario Sukyung sollevò l’ovoide con precauzione, esaminandolo con occhio preoccupato.

«Contiene la spora HV-35,» aggiunse il tenente. «È la più letale finora rinvenuta nei meteoriti. In mano a terroristi sarebbe una formidabile arma di distruzione di massa.»

«Per la quale qualsiasi gruppo terrorista sarebbe disposto a pagare una somma enorme,» osservò Sukyung riportando lo sguardo sulla biologa. «Chi siete veramente voi, dottoressa Tietz? Per conto di chi lavorate? Quanto vi hanno pagato per portare questo campione sulla Terra?»

«Sono la dottoressa Danielle Tietz,» rispose meccanicamente la biologa. «Lavoro come biologa presso il Centro Governativo di Esobiologia di Dallas.» I suoi occhi verdi scoccarono un lampo di sfida. «E non sono una terrorista né lavoro per loro.»

Sukyung posò delicatamente l’ovoide d’acciaio, quasi temesse che potesse spezzarsi e diffondere le sue spore letali per tutta Luna-City. «Oh, sono sicuro che un’indagine approfondita riuscirà a trovare un legame tra voi e qualche gruppo terrorista. Quando si sa dove cercare, si riesce sempre a trovare qualcosa.»

«Un ovoide rinvenuto nel mio bagaglio, che in quel momento non era con me, non significa assolutamente nulla,» ribatté in tono sprezzante la donna. «Ripeto, chiunque potrebbe avercelo messo.»

«L’avete già detto,» commentò placidamente il commissario Sukyung. «È vero che una prova non basta, ma due prove possono segnare la differenza tra un’assoluzione e una condanna. Ora vi dirò come penso che siano andate le cose. Voi siete venuta sulla Luna, o meglio avete brigato per farvi mandare sulla Luna, per sottrarre al Centro di Biologia Planetaria la spora HV-35, ma a causa della strettissima sorveglianza non ci siete riuscita. Allora avete ricordato che anche nel Laboratorio di Astronomia sono custoditi i campioni di spore aliene e avete pensato, giustamente, che in quel luogo la sorveglianza sarebbe stata minore. Generalmente non si associa l’astronomia a sostanze letali. Non so ancora come, ma siete riuscita a sottrarre l’ovoide dopo avere ucciso il professore. O è stato prima e avete ucciso il professore perché non associasse la vostra presenza alla scomparsa delle spore?»

«Sciocchezze,» disse la biologa in tono sempre più sprezzante. «Ma parlavate di un’altra prova. Qual era… ah, già… il supposto messaggio del professor Olmedo.»

Sukyung spostò lo sguardo verso Uriel Qeta che per tutto quel tempo non aveva aperto bocca. «Forse è giunto il momento di spiegare alla dottoressa come il professore è riuscito a incastrarla prima di morire.»

Uriel Qeta si alzò e si avvicinò alla donna dominandola con la sua massiccia mole che sembrò fare effetto sulla biologa, perché nei suoi occhi passò un rapidissimo guizzo di paura. Non certo perché temesse una minaccia fisica, ma perché negli occhi del planetologo aveva letto la sua condanna.

«Immagino che avrà scritto il mio nome nel sangue, come in un pessimo romanzo giallo,» disse la donna. Il suo tono era beffardo, ma i suoi occhi erano seri, molto seri.

Qeta scosse la testa. «No, niente sangue. Anzi di sangue non ce n’era proprio e voi lo sapete benissimo perché l’avete ucciso con un dardo avvelenato piantato nella giugulare. No, niente scritte, solo barattoli.»

Questa volta Danielle Tietz trasalì in modo visibile e non riuscì a nasconderlo.

Qeta sorrise. «I barattoli, eh? Sorpresa, vero? Non ci avete minimamente badato quando il professore li ha disposti sul tavolo.»

«Cosa volete che ne sappia io di barattoli? Io in quel laboratorio non ci sono mai entrata.»

Sukyung l’interruppe. «Chi ha mai parlato di laboratorio? Io non ve l’ho detto.»

La donna sollevò le spalle. «L’ho dato per scontato. Mi avete parlato di un tavolo e di barattoli. Era logico dedurre che parlavate del laboratorio del professor Olmedo.»

Uriel Qeta le sorrise serafico e si sedette sulla sedia accanto a quella di lei. «Ve lo concedo, dottoressa. Non sarà certo questo suo lapsus a incastrarvi, bensì la Legge di Bode.»

Questa volta dall’espressione della donna fu evidente che non capiva davvero. «La Legge di Bode? Cos’è?»

Il planetologo fece un gesto di noncuranza. «Ah, già, dimenticavo. Non siete un’astronoma.» In tono professorale proseguì: «La Legge di Bode è determinata da una sequenza di numeri che indicano la distanza dei vari pianeti del sistema solare dal sole. Per ottenerla si scrivono i numeri partendo da 0 e 3, quindi li si raddoppia ogni volta, in modo da ottenere 0 – 3 – 6 – 12 – 24 – 48 – 96 e così via e infine si somma 4 a ogni numero ottenuto. La sequenza diventa 4 – 7 – 10 – 16 – 28 – 52, eccetera eccetera. Assumendo pari a 10 la distanza Sole-Terra, si ha così 4 per la distanza di Mercurio, ossia 4 decimi della distanza Sole-Terra, 7 per Venere, 16 per Marte, 48 per la zona degli asteroidi, e così via, tutti valori con ottima approssimazione, almeno fino a un certo punto.»

«E questi valori indicano il mio nome?» C’era incredulità nella voce della biologa. Incredulità vera, non finta. Glielo si leggeva chiaramente negli occhi.

Uriel Qeta scosse la testa, sorridendo. «Oh, no, i numeri non c’entrano nulla col vostro nome. Servivano solo per indicarci che si trattava della Legge di Bode, e questa sì che ha rivelato la vostra identità.»

Sukyung non perdeva d’occhio la biologa e si divertì a vedere l’espressione confusa della donna. Un sospettato confuso, che non sa dove l’accusa vada a parare, è sempre in posizione di svantaggio.

La dottoressa Tietz guardò Uriel Qeta senza capire. «Bellissima la vostra lezione, dottor Qeta, ma io che c’entro con Bode? Io mi chiamo Tietz, Danielle Tietz.»

Qeta annuì. «Giusto, è appunto per questo che il professore vi ha incastrata.» Fece una pausa mentre un’espressione di trionfo appariva nei suoi occhi solitamente severi. «Perché vedete, cara dottoressa Tietz, questa Legge, per uno di quei misteriosi casi della sorte, è passata alla storia come la Legge di Bode, ma in realtà era stata scoperta prima di lui da un astronomo di nome Titius, tanto è vero che molti la chiamano, più giustamente, Legge di Titius-Bode.»

«Oh,» la donna sorrise ironica, poi scrollò le spalle. «Adesso capisco, io mi chiamo Tietz, che assomiglia molto a Titius. Così mi volete condannare sulla base di un’assonanza. Mai sentito nulla di più ridicolo.»

«Oh, no, l’assonanza non c’entra.» Uriel Qeta scosse la testa. «Dovete sapere che Titius è il nome latinizzato dello scopritore di questa Legge, ma il vero nome di questo celebre astronomo e fisico prussiano nato nel 1729 era Johan Daniel Tietz. Daniel Tietz, proprio come voi… Danielle Tietz.»

Il planetologo guardò con benevola ironia la biologa che sembrava avere perso di colpo ogni combattività. «Quando si dice il caso, mia cara… perfino il vostro nome combacia esattamente. E adesso non pensate che sia venuta l’ora di vuotare il sacco?»

Antonio Bellomi
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ha svolto la sua attività nel campo dell’editoria per più di cinquant’anni. Ha diretto numerose testate dedicate al giallo, alla fantascienza, all’horror, al western e al fumetto. Ha scritto praticamente per ogni genere di letteratura popolare, dal giallo alla fantascienza, dal western alla narrativa per ragazzi e ha pubblicato più di trecento racconti su una miriade di periodici.