In copertina un nostro divertissement tratto da La terza Fondazione. Il disegno è di Giuseppe Festino, tratto da “Il meglio di Jack Vance”, © Robot – Armenia Editore, Novembre 1977.

Tra le cose più divertenti fatte da Antonio Bellomi, certamente ci sono i suoi racconti gialli, con sapore fantascientifico. Uno dei suoi personaggi più riusciti è il planetologo Uriel Qeta, che avevamo già incontrato in una sua precedente uscita sulla nostra rivista. Mi dice Antonio che questi raccontini gli costano tantissima fatica, ma del resto il “nostro”, pur non troppo amante dell’esercizio fisico, non si lascerebbe certo spaventare da un po’ di fatica per scrivere un racconto. Il fatto è che richiedono molta ricerca e le soluzioni sono sempre piuttosto brillanti. Compresi i multipli indizi sbagliati, che debbono comunque essere logici partendo dalla sempre interessante sfida iniziale. Grazie Antonio per esistere!

Con un’improvvisa sterzata, Miguel Gutierrez evitò all’ultimo momento uno spuntone di roccia che gli si era improvvisamente parato innanzi, poi si asciugò col dorso della mano il sudore che gli colava dalla fronte. Nell’angusta cabina del trattore il caldo era soffocante, talmente denso e opprimente da sembrare quasi palpabile. Tutto aveva avuto inizio due giorni prima quando l’impianto di condizionamento si era guastato. Ora, mentre fuori, nel deserto marziano si poteva congelare istantaneamente, dentro la cabina del trattore il calore era insopportabile.

Tutta colpa degli Hyksos. Così aveva soprannominato lo sconosciuto popolo che un tempo aveva abitato Marte e che aveva prodotto la meravigliosa statuetta che aveva recuperato in fondo a un antico burrone.

Gli Hyksos. Ora lo stavano braccando. Lo sentiva. Sentiva il loro odio che lo inseguiva lungo le lande desolate di Marte mentre correva in cerca di rifugio nel più vicino insediamento terrestre. Ma non era sicuro che ce l’avrebbe fatta. Li conosceva bene. Da quando aveva recuperato la statuetta li aveva sentiti sbucare dal passato, come fantasmi reincarnati che desideravano solo distruggerlo e portargli via la cosa più preziosa che avesse mai recuperato in tutta la sua carriera di geologo.

La statuetta.

La vedeva ancora davanti agli occhi mentre la estraeva da un cumulo di detriti. e la ripuliva della polvere millenaria. L’aveva osservata con occhio incredulo per la somiglianza con l’antica Venere di Milo. Una meravigliosa creazione scolpita nel basalto rosso. Solo una civiltà superiore e un artista di eccelsa abilità poteva avere prodotto un capolavoro del genere. Sulle prime aveva avuto una reazione di incredulità, perché non risultava con certezza che su Marte ci fosse stata una civiltà preesistente all’arrivo dei terrestri, ma quella statuetta era la prova che smentiva tutti gli increduli. Su Marte c’era stata una civiltà ed essa aveva prodotto la Venere Rossa che lui aveva stretto tra le mani e che così aveva battezzata per il suo colore. La meravigliosa perfezione di quel corpo scolpito nel basalto l’aveva incantato. I suoi occhi lo avevano accarezzato con la dolcezza di un amante le curve di quel seno prorompente, quel grembo promettente di delizie e di fecondità, quelle lunghe gambe snelle…

In quel momento aveva provato una sensazione di euforia inesprimibile e il caleidoscopio di emozioni che gli era turbinato in testa per un momento gli aveva sconvolto le sinapsi.

Era stato allora che si era reso conto che, estraendo la statuetta dalla terra, aveva richiamato alla vita il misterioso popolo che l’aveva creata, gente crudele come gli antichi Hyksos che non voleva permettergli di portare la Venere Rossa tra i terrestri.

Era fuggito, ma aveva percepito di essere inseguito, finché si era deciso a nascondere la statuetta.

Sorrise mestamente. Non sapeva se sarebbe riuscito a raggiungere vivo una base terrestre, ma gli Hyksos non avrebbero avuto la Venere. L’aveva nascosta dove non l’avrebbero trovata, mai, tra le rosse sabbie di Marte.

Il sole stava calando, pallido e freddo, e sul pianeta scendevano rapidamente le prime ombre della sera. Era stanco e pensò che forse avrebbe fatto meglio a fermarsi e riposare, ma gli Hyksos avrebbero potuto raggiungerlo da un momento all’altro. Meglio proseguire.

Ma prima doveva fare qualcosa. La Venere di Marte non doveva scomparire di nuovo per migliaia di anni tra le sabbie del pianeta rosso. Doveva essere esposta nel museo di Mars-City e nei musei della Terra dove tutti l’avrebbero potuta ammirare. Arrestò il motore e per un attimo si stiracchiò, indolenzito. Le lunghe ore passate nello stretto abitacolo cominciavano a farsi sentire. Poi prese carta e matita e rifletté per un lungo istante. Era necessario lasciare un indizio affinché la statuetta venisse un giorno ritrovata, nel caso che gli Hyksos l’avessero raggiunto e ucciso. Ma doveva essere un indizio che solo un terrestre potesse decifrare.

Il pensiero lo fece sorridere. L’idea di ingannare sottilmente i suoi inseguitori era troppo divertente.

La soluzione gli si presentò di colpo e sorrise. Non gli era stato difficile. Dopo tutto era il professore Miguel Gutierrez dell’Università di Mars-City. Nessun Hyksos l’avrebbe messo nel sacco. Scrisse accuratamente gli indizi che avrebbero permesso solo a un terrestre di recuperare la statuetta e stava già per ripartire, quando pensò che se gli Hyksos l’avessero raggiunto avrebbero potuto trovare il foglietto e distruggerlo. Non gli restava che un’altra soluzione, una soluzione che in un primo momento aveva scartato, perché troppo pericolosa: trasmettere il messaggio al Centro Comunicazioni Marziane di Deimos. È vero che c’era il rischio che gli Hyksos lo intercettassero e risalissero alla sua posizione, nel quale caso la sua morte sarebbe stata certa, ma se non altro il messaggio con la chiave per ritrovare la Venere Rossa non sarebbe andato perduto e un giorno i terrestri avrebbero ritrovato l’antico manufatto.

Per prudenza regolò il trasmettitore in modo che non fosse possibile localizzare la zona di partenza della trasmissione, ma non era così sicuro che gli Hyksos non riuscissero a localizzarlo comunque. Sapeva che la loro tecnologia era molto più avanzata di quella terrestre.

Quando ripartì si sentiva euforico, ma a mano a mano che procedeva verso la base più vicina, in quel momento ancora tanto lontana, si sentì sprofondare di nuovo nello scoramento. Gli Hyksos l’avrebbero raggiunto e lui sarebbe morto. Ne era sicuro. Non avrebbe mai visto la sua meravigliosa Venere Rossa esposta nel più grande museo del pianeta rosso né in quelli della Terra.


«Caro, dottor Qeta, che piacere vedervi!» Zoltan Kun accolse calorosamente il planetologo che si era affacciato sulla porta aperta del suo ufficio, sbirciando all’interno. Il direttore del Grande Museo Marziano di Mars-City era un ometto di piccola statura, con un’incipiente calvizie e la pancetta evidente. Se l’aspetto fisico era alquanto insignificante, quella prima impressione era però smentita da uno sguardo penetrante che spiegava come mai fosse la massima autorità in fatto di reperti geologici marziani.

Uriel Qeta entrò quasi timidamente nell’ufficio ed era un tipo colossale, davvero enorme. Sulla Terra avrebbe avuto parecchia difficoltà a muoversi e per questo Uriel cercava di evitare i viaggi su quel pianeta. Oltre tutto il buon cibo di quei luoghi incoraggiava pericolosamente l’aumento della sua già considerevole stazza!

Ad ogni modo, il direttore gli corse incontro come si fa come un vecchio amico, anche se si erano incontrati di sfuggita solo una volta in passato, in occasione di una conferenza scientifica. I due assieme offrivano uno straordinario contrasto fisico.

«Accomodatevi, prego!» lo invitò a sedersi il direttore, indicandogli una comoda poltrona, dopo avergli stretto la mano. «Come ho saputo che eravate di passaggio a Mars-City non ho potuto fare a meno di chiedervi una visita.»

«Che ho accettato con vero piacere,» disse Uriel Qeta, sprofondando nella morbida poltrona indicata. «Devo confessare che il vostro messaggio mi ha molto incuriosito.»

Il direttore emise una risatina chioccia. «Eh, sì, credo di sapere come sollecitare l’attenzione degli studiosi, ormai,» disse con un sorriso disarmante. «Dopo anni di frequentazioni conosco quali sono i punti deboli degli scienziati.»

«La curiosità, non è vero?» chiese Uriel Qeta, che ancora stava chiedendosi come mai il direttore avesse chiesto di vederlo.

L’ometto tornò a sedersi dietro la scrivania. Sulla sua destra un’ampia vetrata dava su una spettacolare vista del rosso deserto marziano. Le pareti erano costellate di ripiani fitti di libri e di reperti geologici. La scrivania era assolutamente sgombra tranne che per un grosso sasso con un’etichetta d’ottone che diceva Monte Olimpo – Cima, segno che il direttore un tempo aveva partecipato a una scalata della celebre vetta. Sotto c’era incisa la data, ma dalla sua posizione Uriel Qeta non riuscì a leggerla. Immaginò però che fosse stato parecchi anni addietro.

 «Posso offrirvi qualcosa? Un caffè, una bibita? Un bicchierino di grappa marziana?»

Il planetologo si schermì. «Oh, no, grazie. Non è il caso. A proposito, non ho ancora avuto modo di visitare il vostro museo, ma da quanto ho visto entrando ne vale assolutamente la pena.»

Kun annuì con vigore mentre il suo viso si illuminava di fanciullesca soddisfazione. «Oh, certo e sarò ben lieto di accompagnarvi di persona. Vedrete che non sarà un’inutile perdita di tempo. Ma adesso immagino che vogliate sapere perché vi ho invitato qui.»

«Devo confessare che avete stuzzicato oltre misura la mia curiosità. Sicuramente non mi avete invitato solo per offrirmi una bicchierino di grappa marziana. O sbaglio?»

«Non sbagliate di certo,» confermò il direttore del museo. «Quindi verrò subito al sodo.»

Dopo un istante di raccoglimento Kun cominciò: «È una storia che è cominciata tre anni fa, quando un noto geologo marziano, il professor Miguel Gutierrez, è partito da Mars-City per una ricognizione geologica e non è più tornato. Non l’abbiamo sentito per vari giorni, fin quando non ci è giunto un messaggio delirante, poi più nulla. Non è mai rientrato e non l’abbiamo più ritrovato… fino ad oggi.»

Uriel Qeta accavallò le gambe, incuriosito. «È andato in ricognizione da solo?» chiese. «Solitamente le ricognizioni non vengono condotte da squadre di almeno due persone?»

Il direttore sorrise mestamente. «È evidente che non avete conosciuto il professor Gutierriez. Un uomo eccentrico, non amava lavorare con altri e quasi sempre usciva per le sue spedizioni da solo. Faceva a disfaceva a suo piacimento, ma i risultati che otteneva erano sempre di tale livello che lo lasciavamo fare. Come si dice in questi casi? Al genio non si comanda.»

Uriel Qeta emise una risatina educata di conferma. «Però c’è un punto che non capisco,» disse. «Se è uscito con un trattore, non può essere andato tanto lontano. L’autonomia di questi veicoli è alquanto limitata. Quindi non avrebbe dovuto essere molto difficile rintracciarlo entro il raggio d’autonomia del mezzo.»

«Assolutamente vero,» confermò il direttore. «Infatti abbiamo condotto le ricerche proprio seguendo questo criterio. Solo che non siamo riusciti a individuarlo.»

«Ma com’è possibile? Un trattore nel deserto marziano deve essere abbastanza facile da localizzare. E poi il trasponder di bordo…»

«Il trasponder era stato disattivato,» spiegò mestamente Kun. «Fra poco vi dirò perché. E in quanto alla localizzazione del trattore si è verificato un fenomeno rarissimo, ma non impossibile che non ci ha permesso il ritrovamento.»

Adesso l’attenzione di Uriel Qeta era calamitata. Stava per dire qualcosa, quando la porta dell’ufficio si aprì di una spanna e una testa femminile dai capelli nero corvino vi fece capolino. «Mi avete chiamato, direttore?»

Kun fece cenno alla donna di entrare. «Avanti, avanti, dottoressa Joska. Vi stavo aspettando.»

Uriel Qeta si alzò in piedi. Conosceva abbastanza bene la dottoressa Joska avendola incontrata diverse volte in occasione di simposi scientifici. «Che piacere vedervi, dottoressa.»

La donna lo salutò con un cordiale sorriso e si accomodò anche lei su una poltroncina a fianco del planetologo.

«Ho fatto venire qui la dottoressa Joska, dell’Ufficio Reperti, perché è stata lei all’epoca a occuparsi delle ricerche del professor Gutierrez.»  Il direttore si rivolse alla donna. «Prego, dottoressa, spiegate al dottor Qeta come mai allora non riuscimmo a localizzare il trattore di Gutierrez.»

«È stato per via di un fenomeno rarissimo qui su Marte,» cominciò la dottoressa Joska, rivolgendosi al planetologo. «Il trattore è stato ingoiato dalle sabbie fini.»

Uriel Qeta inarcò le sopracciglia, sorpreso. Le sabbie fini erano un fenomeno marziano assai insolito. Si trattava di depositi di sabbia i cui granelli avevano un diametro di gran lunga inferiore a quello della sabbia normale, sotto i quali esistevano dei vuoti, mai troppo ampi, che sostenevano la sabbia soprastante solo perché questa si era lievemente solidificata formando una specie di crosta. L’assenza di fenomeni tellurici faceva sì che non si producessero vibrazioni in grado di spezzare l’equilibrio architettonico della crosta. Ma bastava che un mezzo appena più pesante di un paio di uomini vi passasse sopra perché la crosta sprofondasse, ingoiando il mezzo, esattamente come avrebbero fatto delle sabbie mobili sulla Terra.

«Così il trattore del professor Gutierrez è scomparso alla nostra vista e non l’abbiamo mai più ritrovato… fino a qualche settimana fa. Il suo mezzo era sprofondato in un laghetto di sabbie fini e l’abbiamo ritrovato solo casualmente, perché una squadra di geologi ha fatto dei prelievi nel quadro di uno studio sulle sabbie fini. Per la precisione il ritrovamento è avvenuto nel cratere Albany.»

Un po’ perplesso Uriel Qeta osservò: «Tutto questo è molto interessante e spiega perché il povero professore non è stato localizzato allora, ma non perché avete chiesto la mia presenza. Non capisco in che cosa debba aiutarvi, a questo punto.»

«A ritrovare la Venere Rossa,» disse semplicemente il direttore del museo.

Uriel Qeta aggrottò la fronte. «La Venere Rossa?»

«La statuetta extraterrestre ritrovata dal professor Gutierrez,» spiegò la dottoressa Joska, intervenendo a sua volta. Poi vedendo che il planetologo continuava a non capire continuò: «Vedete, poco prima di scomparire il professor Gutierrez lanciò un messaggio al Centro Comunicazioni Marziane di Deimos. Un messaggio piuttosto sconclusionato in verità, in cui asseriva di avere ritrovato una statuetta di basalto rosso e di fattura sicuramente extraterrestre che assomigliava in modo straordinario alla Venere di Milo. Ma di averla nascosta perché era inseguito dagli Hyksos che volevano ucciderlo e riprenderla per non farla cadere in mano terrestri. Purtroppo aveva disattivato il trasponder per non essere localizzato dagli Hykson e così neanche noi siamo riusciti a individuarne la posizione.»

Uriel Qeta esalò un respiro incredulo. «Gli Hyksos? Cosa c’entrano gli invasori dell’antico Egitto con Marte? Qui non c’è mai stata una civiltà marziana né sono state mai trovate tracce di civiltà extraterrestri.»

«È vero,» ammise Kun. «Finora non sono state rinvenute tracce di civiltà diverse dalla nostra… ma il professor Gutierrez è sempre stato convinto che un giorno o l’altro le avremmo trovate. La sua era diventata una vera e propria ossessione. È per questo che era sempre in esplorazione col suo trattore. In quanto agli Hyksos, riteniamo che questo fosse stato un nome inventato da lui da assegnare agli extraterrestri.»

La dottoressa Joska si dimenò un po’ a disagio, continuando ad accavallare e disaccavallare le gambe, che come notò Uriel Qeta, erano decisamente snelle ed eleganti. «Forse il professor Gutierrez era un po’ fissato e troppo fantasioso, ma siamo sicuri che se ha detto di avere rinvenuto una statuetta, questo deve essere vero. E noi vogliamo ritrovarla a tutti i costi.»

«Ovviamente ritengo che non abbia spiegato chiaramente dove l’aveva nascosta, altrimenti non avreste avuto bisogno del mio aiuto,» dedusse il planetologo.

«Infatti.» Il direttore del museo allargò le braccia. «Nel suo messaggio il professor Gutierrez disse che avrebbe indicato il punto in cui aveva nascosto la statuetta in modo che solo un terrestre potesse capirlo. Così gli Hyksos non sarebbero riusciti a recuperarla.»

«E questo indizio sarebbe?»

La dottoressa aprì un foglio che teneva in mano e lesse: «Ho sepolto la Venere Rossa nel cratere dell’Almirante dei due mondi, nel punto esattamente centrale. Non fatela cadere in mano agli Hyksos!»

«Tutto qua?» chiese Uriel Qeta, alquanto stupito. «Non è un granché di indizio.»

«Infatti,» osservò Kun. «Il resto del messaggio, o almeno la parte precedente è un messaggio francamente farneticante in cui diceva di avere trovato la Venere Rossa, scolpita nel basalto rosso, ma di avere risvegliato, col suo ritrovamento, gli spiriti degli antichi Hyksos che adesso gli davano la caccia per riprendersi la statuetta.»

Uriel Qeta spostò ripetutamente lo sguardo dal direttore alla dottoressa Joska e viceversa, poi alla fine, con voce sommessa, chiese: «Non è che il nostro esimio professor Gutierrez fosse improvvisamente impazzito?»

«Non possiamo escluderlo,» disse il direttore Kun. «Ma siamo convinti che il professore abbia scoperto veramente qualcosa. E vorremmo vedere di cosa si tratta. Solo che le sue indicazioni non ci hanno portato a nulla.»

«L’Almirante dei due mondi…» mormorò Uriel Qeta pensoso.

La dottoressa Joska sorrise. «Questo indizio pensavamo di averlo risolto,» disse. «Ne abbiamo discusso e siamo giunti alla conclusione che l’Almirante dei due mondi indicato dal professor Gutierrez fosse Cristoforo Colombo. scopritore dell’America. Il fatto che venga chiamato Almirante, cioè ammiraglio, lo specifica abbastanza chiaramente, in quanto questa era appunto la carica di cui è stato insignito. E c’è appunto un cratere chiamato Colombus. Purtroppo al centro di esso, dove abbiamo scavato, non abbiamo trovato nulla.»

«Forse gli Hyksos se la sono portata via,» scherzò Uriel Qeta.

«Forse,» ammise la dottoressa con un sorriso agrodolce. «Solo che noi agli Hyksos non ci crediamo. Anche perché a bordo del trattore del professore abbiamo constatato che c’era stata una perdita di gas dall’impianto elettrico, per cui riteniamo che i fumi abbiano generato allucinazioni nel cervello del professor Gutierrez.»

«Che quindi potrebbe essersi sognato tutta la faccenda,» ripeté di nuovo il planetologo. «Ma voi non lo credete.»

Il direttore del museo assentì col capo. «Infatti. Anche se in preda ad allucinazioni siamo convinti che il professore non può essersi sognato tutto quanto. No, siamo convinti che abbia trovato veramente qualcosa. La Venere Rossa. Ma dov’è che l’ha sepolta? E c’è ancora un punto oscuro. Il cratere Columbus si trova alle coordinate –29 gradi di latitudine Sud, 166 gradi di longitudine Est, cioè molto lontano dal cratere Albany in cui è sprofondato il professore, che si trova alle coordinate 23,3 gradi di latitudine Nord e 49,8 gradi di longitudine Est. Non è possibile che col suo trattore sia arrivato fino al cratere Columbus e poi sia tornato indietro. Ma del resto l’indicazione è chiara.»

Ci fu un attimo di silenzio, poi la donna aggiunse: «In effetti abbiamo anche dato un’altra interpretazione. La prima sonda terrestre che ha toccato indenne il suolo marziano è stata la Viking 2 che è caduta nel punto di 48 gradi latitudine Nord e 226 gradi di longitudine Ovest. Anch’essa avrebbe potuto essere considerata in un certo senso l’Almirante dei due mondi, Terra e Marte, ma un sopralluogo nella zona non ha prodotto alcun risultato. La statuetta continua a rimanere nascosta.»

Il direttore del museo si alzò in piedi e si mise a passeggiare nervosamente avanti e indietro. «Capite, dottor Qeta, noi siamo convinti che la statuetta esista e vogliamo assolutamente ritrovarla. Lo dobbiamo al professor Gutierrez che anche con la sua fissazione maniacale rimane un genio e lo dobbiamo a Marte. Se la Venere Rossa esiste, come, ripeto, è nostro convincimento, essa deve trovare la giusta collocazione in questo museo.»

Dopo un lungo istante in cui nessuno dei tre parlò, Uriel Qeta sollevò lo sguardo e disse: «Forse c’è anche un’altra possibilità che non avete considerato. Potrei avere una mappa dei crateri di Marte?»

Il direttore si girò di scatto e dalla libreria dietro di lui prese un grande volume che squadernò davanti a Uriel Queta. «Ecco qua. Qualche idea?» chiese ansioso.

«Forse.»

Uriel Qeta girò lentamente le pagine, soffermandosi alla fine su una grande tavola. Poi sollevò gli occhi verso Kun. «Il professore si chiamava Miguel Gutierrez,» disse. «Arguisco che fosse di origine spagnola o sudamericana.»

La dottoressa Joska annuì. «Sì, qualche volta ne ha parlato. I suoi trisnonni abitavano in Argentina. Perché fate questa domanda?»

Uriel Qeta le sorrise e puntò il dito su un punto della carta. «Perché il cratere indicato dal professore potrebbe essere proprio questo. Se io fossi in voi farei subito una ricerca in loco.»


«La Venere Rossa,» disse in tono reverenziale il direttore Zoltan Kun, posando la statuetta di basalto rosso sul piedistallo predisposto al centro della sala d’onore del museo. «Il dottor Gutierrez aveva ragione. Ricorda molto la Venere di Milo.»

La dottoressa Joska aveva gli occhi lucidi, come del resto le altre persone dietro di lei.

Uriel Qeta condivideva anche lui quel momento di eccitazione, ma sentì anche di dovere frenare la fantasia. Intanto la statuetta era un blocco di basalto rosso rozzamente abbozzato che solo assai vagamente ricordava un’immagine umana. Ci voleva molta immaginazione per paragonarla alla Venere di Milo. È vero, i contorni suggerivano quel paragone, ma il planetologo non si sentiva di escludere che quell’oggetto fosse solo il prodotto della levigazione casuale delle acque che un tempo erano corse su Marte su un blocchetto di basalto rosso. Forse. O forse il professore aveva avuto ragione e c’era stata veramente una civiltà marziana e uno scultore aveva cominciato ad abbozzare una statua, che poi aveva interrotto per chissà quali accadimenti. Impossibile dirlo al momento. Ma magari, un giorno, altre scoperte avrebbero portato alla luce nuovi reperti che avrebbero cambiato completamente quanto era scritto sui libri che parlavano di Marte e della sua storia.

Un cronista del Mars Tidings si avvicinò a Uriel Qeta col videoregistratore palmare in azione. «Dottor Qeta,» lo sollecitò, «volete spiegare ai nostri lettori come avete fatto a individuare il cratere segnalato dal professor Gutierrez?»

Uriel Qeta sorrise davanti alla microtelecamera. «Un’intuizione,» spiegò. «E la conoscenza della storia non disgiunta dall’amore per le lingue. Per gli anglosassoni Cristoforo Colombo è Christopher Columbus, ma per spagnoli, portoghesi e sudamericani è Cristóbal Colón e il cratere Colón si trova alle coordinate 23 gradi di latitudine Nord e 47,1 gradi di longitudine Est, proprio a poca distanza dal punto di ritrovamento del povero professor Gutierrez. Evidentemente il professore , la cui lingua madre era lo spagnolo, ha pensato nella sua lingua in quei momenti in cui la sua mente era alterata dai gas provenienti dall’impianto guasto.»

«Pensate che la Venere Rossa sia veramente opera di un antico artista marziano?» chiese un’altra giornalista.

Perché distruggere quella speranza?

«È possibile,» rispose Uriel Qeta. «Forse un giorno il futuro ce lo dirà.»


Prima pubblicazione NOVA Sf n. 76 – Perseo Libri – Bologna – Ottobre 2006
Copyright © 2007 A. Bellomi
Antonio Bellomi
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ha svolto la sua attività nel campo dell’editoria per più di cinquant’anni. Ha diretto numerose testate dedicate al giallo, alla fantascienza, all’horror, al western e al fumetto. Ha scritto praticamente per ogni genere di letteratura popolare, dal giallo alla fantascienza, dal western alla narrativa per ragazzi e ha pubblicato più di trecento racconti su una miriade di periodici.