Questo racconto di Mario Luca Moretti è qui, in attesa della pubblicazione da tantissimo tempo. Quando Mario me lo ha proposto, assieme ad altri racconti suoi, ho subito pensato che questo fosse il migliore di tutti.
E allora? Perché non uscire subito con questa storia?
Colpa mia: ho chiesto a Mario Luca Moretti di limarla in un paio di punti, di evidenziare un paio di particolari, perché volevo che fosse davvero perfetta per chi l’avrebbe letta.
Mario Luca Moretti riesce qui in un’operazione che (lo confesso) non credevo possibile: fare della fantascienza parlando della provincia italiana! Fruttero e Lucentini, veri e propri sdoganatori della fantascienza qui da noi, molti anni fa, avevano scritto: “Un disco volante non può atterrare a Lucca,” intendendo chiaramente che sarebbe stato “ridicolo” ambientare una storia di fantascienza in un luogo qualsiasi dell’Italia. Soprattutto nella provincia.
Ebbene, Mario Luca ci fa vedere come questa convinzione fosse decisamente sbagliata! Qui i marziani atterrano dalle parti di Bergamo, eppure ne esce una storia molto intrigante, che non lascia mai la presa sul lettore, in un’atmosfera vagamente gotica.
Il pathos è davvero al massimo in qualsiasi momento. Una storia molto, ma molto bella. Bravo Mario!
F.G.
LA notte di S. Lorenzo è stata l’altroieri, pensò Anna Galuppi, quindi cos’è quella? Una stella cadente in ritardo?
Non rimase molto a pensarci, comunque. Si accodò alle sue colleghe che uscivano dalla filanda Mazzetti & Figli dopo l’orario di lavoro, stanche morte come lei, e smise di pensarci. Ma dopo qualche secondo ci pensò di nuovo perché la sua collega Silvana le disse: «Sa’ lé chela lì, ‘na stela da San Lurens in ritaardi?» Da quelle parti la gente non aveva molta fantasia, e se il 12 agosto si vedeva cadere una stella, subito si pensava tutti quanti la stessa cosa.
CESARE Bisletti era davvero contento. Dalla terrazza del suo studio osservava il cielo stellato con il suo nuovo cannocchiale Zeiss, fresco arrivo dalla Svizzera. Funzionava che era una meraviglia, e quella sera il cielo era limpidissimo. L’aveva inaugurato la sera precedente, la magnifica notte di S. Lorenzo del 1908. Ma anche quella era piena di soddisfazioni per un astronomo dilettante quale si piccava di essere.
Dalla terrazza aveva anche una splendida vista delle sue terre, ereditate dal padre Arturo, un ex-contadino arricchito che li aveva comprati dopo anni di fatiche e sacrifici. Li aveva messi in affitto ad altri contadini che li coltivavano. Al padrone davano come affitto una rendita che andava da un minimo fisso, in caso di raccolti magri, a un massimo del 50% in caso di raccolti abbondanti. In quel modo Arturo Bisletti era diventato l’uomo più ricco del paese di Chiazzate, a metà strada fra Milano e Bergamo.
Con quella dote aveva sposato Gemma Galbiati, figlia dell’uomo a cui aveva spodestato il titolo di uomo più ricco del paese, il conte Cesare Galbiati. Gemma era donna di grandi virtù culinarie e ricca cultura umanistica, ma di scarso senso pratico. Tolti i succosi pranzi, Arturo condivideva poco con la moglie, sposata solo per unire le ricchezze con quelle dei Galbiati. Ma dalla loro unione nacque comunque un figlio, Cesare, che, con grande angoscia del padre, prese dalla madre il gusto per le arti e le lettere, aggiungendovi quello delle scienze astronomiche, senza mutuare dal padre il pallino degli affari. Arturo, poco prima di morire, affidò proprietà e patrimonio ad un contabile di sua fiducia, temendo che Cesare li avrebbe dilapidati col suo disinteresse e la sua inettitudine per qualunque attività imprenditoriale o anche solo lavorativa.
Difatti era il ragionier Ravizza a mandare avanti l’azienda di famiglia, lasciando Cesare, scapolo a 30 anni, soldi a sufficienza per permettersi una vita agiata ma senza altri eccessi che l’acquisto di apparecchi per l’osservazione del firmamento e costosi libri stranieri sull’argomento. Già perché Cesare, fin da piccolo, aveva mostrato anche la capacità di apprendere con facilità le lingue straniere. Arturo per un certo periodo nutrì il progetto di usare questo talento del figlio per avviare dei commerci con l’estero, ma restò deluso anche in questo.
Questa dell’astronomia era diventata ormai la passione dominante di Cesare, a cui di recente s’era aggiunta quella di strambe teorie misteriche sull’esistenza di esseri intelligenti abitanti altri pianeti e stelle lontane, costruttori di civiltà evolute e persino superiori alla nostra. Ravizza, ogni volta che incontrava Cesare a fine mese, gli faceva un dirigente rendiconto mensile… al quale il possidente non sembrava mai molto interessato. Finito il rendiconto, da qualche tempo Cesare attaccava con le sue strane teorie su questi esseri ultraterreni, che, ne era sicuro, prima o poi sarebbero venuti sulla nostra Terra ad insegnarci cose preziose e mirabolanti. L’ultima volta, non sapendo resistere alla tentazione di motteggiarlo, Ravizza gli chiese: «E come verranno fin qui? Volando?» Cesare rimase a guardarlo in silenzio, poi, come folgorato da una rivelazione, rispose con uno sguardo estasiato: «Ma certo, caro Ravizza, ecco come arriveranno fin qui: volando su qualche apparecchio capace di sfidare la forza di gravità e le distanze siderali, anzi su una specie di… di…» Cesare si interruppe come alla ricerca di termini adatti, poi aggiunse: «…di nave astrale! Ecco sì! Su una nave che va nel cielo invece che per i mari!»
Ravizza si accomiatò ringraziando il cielo che il povero Signor Arturo non fosse qui a vedere la rovina del suo figliolo. E chiedendosi cosa ne sarebbe stato di quello sciagurato in mano ad un amministratore meno onesto di lui.
Cesare in realtà non si curava delle preoccupazioni del contabile e quella sera si concentrava sulle mirabiliie catturate dalla prodigiosa lente. E quando vide la stessa stella cadente vista da Anna e Silvana, trasecolò dallo stupore.
IL gregge di Antonio Radaini entrava lento nell’ovile dove avrebbe passato la notte. Antonio, con pazienza, rimase sulla porta, stanco della giornata ma ancora vigile su ognuno dei suoi capi. Quando fu entrato l’ultimo, Antonio constatò con sollievo che non ne mancava uno. Con tenerezza quasi paterna, li guardò accucciarsi uno accanto all’altro nel loro lurido recinto, e ascoltò i loro belati rassicuranti. Poi richiuse il recinto, legando con cura la corda che faceva da lucchetto. Con lentezza tornò nell’aia della fattoria che faceva da casa a lui, alla sua famiglia e ad altre tre. L’afa estiva era mitigata da un venticello piacevole. Antonio guardò in alto. Il cielo stellato era sempre un bello spettacolo e quella sera era davvero limpido. Come la sera prima… Vedere le stelle che cadevano… Si ricordò quando da bambino rimase incantato per la prima volta a guardare quelle strisce colorate che scendevano veloci dal cielo. Uno dei momenti più belli della sua vita. Un suo amichetto cercò di rovinarglielo prendendolo in giro perché se ne stava col naso in aria. Per tutta risposta Antonio gli fece sanguinare il suo, di naso, e in abbondanza. Da allora nessuno gli aveva più riso in faccia di quella sua abitudine, anche se qualcuno lo faceva alle spalle.
Antonio fu sul punto di incamminarsi verso casa, quando vide un’altra stella cedente. Ne fu sorpreso. Ma ancor più quando vide che questa stella si faceva sempre più grande… e che non era una stella.
PER un attimo il bagliore fu accecante nella lente del cannocchiale. Poi si si smorzò, ma Cesare fece in tempo a capire dove andava a cadere. Non era una stella! Aveva una forma precisa! Una specie di cono tronco, con una cupola in cima. La sua base era in fiamme, e faceva continui semigiri su se stesso, come una trottola rotta.
Poi scomparve dietro una collina che sovrastava i suoi campi di grano. Ci fu uno schianto e una fiammata enorme, intensa, quasi bianca, esplose. Per pochi secondi illuminò la campagna di un chiarore quasi bianco. Dopo pochi secondi tornò il silenzio e il buio.
Cesare non credeva ai suoi occhi. Ansimava dall’emozione. Si sentì mancare, la vista gli si annebbiò. No, doveva riprendersi. Quello che aveva visto era una nave volante. Non ne esistevano al mondo. Non era un meteorite, e nemmeno una mongolfiera o un dirigibile. Non aveva niente a che fare con le macchine volanti di quei fratelli americani! Non avevano quella forma, benché roteassero quando cadevano. E quel metallo così lucente! Doveva andare a vedere immediatamente! Doveva vedere che cos’era. Rientrò nello studio barcollante ma deciso. Aprì lo sportello del mobile-bar e si versò una buona dose di cognac. Il liquore fece subito effetto. Uscì dalla sala come un fulmine, diretto alla stalla. Non osava formulare il pensiero di quello che in cuor suo era convinto.
ANNA vide il bagliore subito dopo aver sentito un sibilo intenso. Era a pochi passi dall’ingresso della sua corte, la stessa di Antonio. Non aveva più guardato il cielo da quando aveva salutato le sue colleghe, troppo stanca per farlo. E non l’aveva vista avvicinarsi a terra. Il boato la lasciò esterrefatta e terrorizzata. Anche i suoi pensieri si paralizzarono. Come per la quasi totalità dei suoi contemporanei, nel suo cervello non c’era il concetto di qualcosa che potesse cadere dal cielo ed esplodere. Quando il bagliore si spense, la sua naturale forza di carattere e il suo odio per l’inerzia la spinsero a dominare le sue paure, ad avere una qualche reazione. Sì, ma quale? Chiamare gli uomini della corte, che diamine!
Appena ebbe ordinato alle sue gambe ancora pietrificate di prendere quella direzione, sentì del trambusto venire proprio dai casolari della corte. Voci spaventate, grida, pianti di bambini, piedi in corsa. Anche gli animali dicevano la loro: nitriti, scalpicci, starnazzi, latrati. Come se tutti gli abitanti di quella comunità si fossero svegliati tutti insieme dal torpore causato dalle fatiche della giornata. Anna, come rinvigorita da quel baccano, si diresse di corsa verso quei rumori.
Una volta nel grande cortile, Anna vide una gran folla. Praticamente ogni uomo, donna o bambino s’era precipitato nel cortile. Tutti erano spaventati, confusi, sorpresi… come lei. Ma tutti volevano capire cosa fosse successo.
ANTONIO era un gran corridore. La sua falcata lasciava sempre indietro tutti. E anche stavolta fu il primo ad arrivare sul posto… il primo a piedi, perché il calesse del signor Bisletti lo aveva preceduto di pochi secondi.
Antonio lo raggiunse proprio mentre stava mettendo piede a terra. Cesare s’era munito di una lanterna, una cosa a cui Antonio nella fretta non aveva pensato. «Signor Bisletti…» si limitò a dire. «Tì… tì te se ciàmet Antonio, non è vero?» Il misto di dialetto e italiano era segno di quanto fosse emozionato il padrone. «Sì, sciur Bisléti.»
«Vegn’anca tì. Tè m’aiudarìa. Chissà cosa c’è da vedere, eh.» Antonio ebbe la strana impressione che il padrone fosse contento. Senz’altro non la smetteva di parlare.
«Sono anni ca sugni stu mument. Ti te se’ no sü vist’al cannocchiale. Andém, andiamo a vedere. Te credra no ai to’ occhi,» e cominciò, tremante ma veloce, a scendere la collina.
Da lì sotto veniva un gran caldo e c’erano dei fuochi. Piccoli però, non un incendio come c’era da aspettarsi. Antonio seguì Cesare, e soprattutto la sua lanterna. «Stia attento, signor Bisletti. Non sa cosa c’è.» E da quel poco che si vedeva non si riusciva a capire granché. Le deboli fiamme illuminavano rottami che sembravano pezzi di lamiera. A un certo punto Antonio si fermò. Il caldo era davvero troppo. Non per Cesare, che anzi si avvicinò alla lamiera più vicina. Con la luce della lanterna vicina, Antonio vide una specie di cerchio fatto di un metallo levigatissimo, simile all’alluminio, ma ancor più lucido e molto più compatto e spesso, sbrecciato e piegato dall’impatto. Nonostante il caldo, Cesare si avvicinò al punto da toccarlo con la mano sinistra. «Ahi,» gridò. «S’è fatto male?» chiese Antonio con finta premura, dandogli mentalmente del màrtal, dello stupido.
«Sì, scotta!» rispose Cesare con tono lamentoso e agitando la mano scottata. Antonio ribadì il suo giudizio mentale e gridò: «Torni su, è pericoloso. Aspettiamo che fa’ chiaro e che si raffredda. O almeno che arrivano gli altri.» Antonio non aveva intenzione di rischiare una bruciatura per aiutarlo. E non aveva la minima idea di cosa fare.
ANNA si accodò a tutti gli altri, quando, dopo una mezz’ora circa, gli adulti maschi organizzarono una squadra di una decina di uomini per andare sul posto. Anna aspettò che il gruppo fosse partito prima di seguirlo a una certa distanza. Non era sposata né fidanzata, i suoi genitori erano anziani ma in salute. Suo padre e i suoi due fratelli maggiori l’avrebbero fermata se avesse chiesto loro il permesso. Gli uomini del gruppo non l’avrebbero certo accolta. Così partì senza chiedere il permesso a nessuno. Sapeva che la gente rimasta nella corte – le donne per prime – avrebbero sparlato alle sue spalle vedendola partire, ma al momento preferì non pensarci. Troppo forte era la curiosità.
QUANDO Antonio e Cesare videro avvicinarsi delle luci, capirono che i contadini stavano arrivando con torce e lanterne. Cesare quasi esplose: «Eccoli, eccoli! Finalmente!» Anche Antonio ne fu sollevato. Un po’ perché era ansioso di poter capire che diamine era capitato. Un po’ perché non ne poteva più di star solo con Cesare. Da quando era risalito con la mano scottata – non così grave, secondo Antonio – alternava piagnistei su quanto le bruciasse quella povera manina a sproloqui su “visitatori dal cosmo” e “navi astrali”. Parole arabe per Antonio.
Seguendo i movimenti con la lanterna fatti da Antonio. I dieci uomini raggiunsero gli altri due. Li guidava un certo Giulio Spallanzani, un uomo sui 40 anni. Era una figura importante nella corte. Tutti lo stimavano e nelle emergenze era sempre lui che prendeva in mano la situazione. I socialisti lo avevano adocchiato e gli avevano proposto di affiliarsi al loro sindacato e lui ci stava facendo un pensierino.
Giulio e gli altri si tolsero il cappello e salutarono velocemente Cesare che si mise subito a dare ordini concitati per circondare e illuminare la zona. Antonio e Giulio ne furono sorpresi.
Agli occhi dei suoi contadini, Cesare era sempre sembrato una persona debole e inconcludente. Il rispetto che gli mostravano era formale e obbligato, volentieri lo avrebbero deriso e insultato. Furono stupiti nel vedere in lui tanta iniziativa e decisione. Ciononostante, i suoi ordini erano confusi e poco pratici. Antonio e Giulio recepirono solo i due punti salienti e poi presero in mano la situazione, istruendo e distribuendo gli uomini. Ma vista l’ora e il calore che veniva dai pezzi sparsi e dal punto dell’impatto, tutto quello che si fece fu piazzare le torce intorno ad esso e aspettare il mattino.
FU una notte indimenticabile. Gli uomini, con i loro lumi, riuscivano solo a vedere la sagoma dell’oggetto caduto dal cielo.
Cesare glielo descrisse prima che l’alba permettesse di vederlo chiaramente… ed era proprio così. Tondo, con una piccola cupola in una specie di vetro in cima. Era conficcato in terra per un mezzo metro, di lato. Il calore scendeva poco a poco, ma nessuno osò avvicinarsi prima che fosse pieno giorno, un po’ per timore, un po’ perché queste erano state le disposizioni di Antonio e Giulio. Anche Cesare vi si attenne, ma riottosamente. Era il più impaziente di tutti. E il più ciarliero, anche se non si riusciva a capire di che blaterasse. Uomini venuti da altri mondi, dal cielo. A furia di ripeterlo per tutta notte, i contadini qualcosa avevano afferrato. Secondo lui su nel cielo c’erano altri mondi come il nostro, dove vivevano uomini più intelligenti di noi che avevano inventato delle macchine capaci di volare e con una quelle avevano raggiunto il nostro pianeta. Quella macchina però, una volta entrata nel nostro cielo, aveva avuto un incidente. I suoi guidatori saranno rimasti dentro, morti o feriti.
Questa spiegazione alla fine fu accettata, anche perché a nessuno ne venne in mente un’altra. Del resto il signor Bisletti era l’unico che ci capiva qualcosa di stelle e pianeti. Quella notte Cesare si guadagnò una stima sentita come mai gli era capitato.
Così l’attesa cresceva. Quando il sole fu alto, gli incendi si erano spenti e la macchina era ormai del tutto visibile. Giulio e Antonio diedero il segnale di avanzare. Fu solo in quel momento che Antonio si accorse della presenza di Anna, che se ne era stata un po’ in disparte, ma che in silenzio aveva ascoltato tutti i discorsi che si facevano. Sorpreso, avrebbe voluto chiederle cosa ci facesse lì, unica donna in mezzo a tanti uomini, quando a tutte le donne era stato detto di aspettare a casa. Ma non c’era tempo.
Il cerchio di uomini si restrinse sulla macchina, come chiamavano il velivolo, ormai raffreddata. I passi erano lenti, ma coordinati, sicuri. La curiosità aveva avuto il sopravvento.
Dopo qualche passo, Cesare accelerò di colpo e lasciò tutti indietro, ma nessuno gli disse niente. Sullo scafo c’erano varie brecce, una sola abbastanza grossa da far passare un uomo – il pezzo schiantato sulla collina veniva da lì – e Cesare ci passò deciso.
ANNA vedeva in distanza quello che succedeva. Chissà perché sperò in cuor suo che dopo il signor Bisletti, fosse Antonio il primo ad entrare. Invece fu Giulio. Un po’ ci rimase male. Ma continuò ad avvicinarsi, anche se circospetta.
CESARE entrò in una specie di nicchia dalle pareti di un chiarore accecante, dotata solo di una scaletta in metallo che gli sembrò insolitamente stretta, specie per un uomo della sua stazza, come fosse pensata per un bambino. A fatica la salì, tenendosi al suo sottile corrimano. Lo portò ad una botola non meno stretta, ma che si poteva aprire solo con una spinta. La passò, entrò in quella che sembrava una sala. Quando fu certo di avere i piedi ben saldi su qualcosa che fosse un pavimento si guardò intorno.
GIULIO si infilò nella breccia, trovandosi semiaccecato dal biancore delle pareti. Cesare non si vedeva ma poteva aver fatto solo una cosa. Guardando verso la botola chiamò: «Signor Bisletti, tutto bene? Cosa c’è là?» Nessuna risposta. Giulio ne rimase perplesso e preoccupato. “Forse non mi sente,” pensò. Si girò indietro: tutti gli altri erano in fila davanti al buco.
Allora si decise a salire la scaletta, ma prima disse agli altri: «Aspettate qui. Nessuno salga fino a che non lo dico io o Bisletti.»
Quindi si inerpicò fino alla botola, chiedendosi per quale nano avessero fatto quella scala. Quando fu entrato solo con la testa si guardò in giro. Dava in una grande sala. Era quella della cupola. Nonostante fosse trasparente era quasi in penombra, non ben illuminata. Il signor Bisletti era in piedi a pochi passi da lui. Attorno a lui uno spettacolo incomprensibile, sorprendente. Giulio aveva fatto cinque anni nella Marina Militare, e l’unica paragone che gli venne in mente fu la sala comandi di una nave… ma di una nave ben strana!
Al di sotto della cupola le pareti erano ricoperte di quello che Giulio riconobbe come l’equivalente di un quadro comandi, ma pieno di luci, vetri, figure strane, metalli lucenti, simili al rame e all’argento, ma diversi. Lo schianto li aveva danneggiati. Emettevano ronzii, i vetri erano scheggiati. Dalla cupola si vedeva il paesaggio, anche se il vetro sembrava un po’ oscurato.
Davanti a quel “quadro comandi” c’era una grande poltrona, in un materiale rigido che né Giulio né Cesare avevano mai visto. I due gli stavano dietro e non vedevano se c’era seduto qualcuno. Giulio si portò a fianco di Cesare. Il padrone aveva un viso estasiato e timoroso allo stesso tempo. «Sarà il pilota, quello…» azzardò Giulio. Cesare fece di sì con la testa, poi si incamminò verso il sedile. Giulio aspettò prima di muoversi. Cesare aggirò la poltrona, poi le si parò davanti. Giulio vide il suo volto diventare una maschera di stupore… ma anche di paura. Sbiancò, la sua bocca si spalancò senza mandare un suono.
ANNA vide gli uomini rimasti all’esterno della macchina fare un nuovo gioco che sembrava entusiasmarli tanto. Il loro era tutto un vociare di sbalordimento e godimento. Si avvicinò ad Antonio, quello che più di tutti poteva passare come suo accompagnatore, per guardare meglio. Nemmeno lui sembrò accorgersi di lei, però, tanto quel gioco era avvincente. Ed Anna capì presto perché. Uno dei contadini si stava appoggiando con entrambi le mani allo scafo, premendo a tutta forza. Gli altri lo incitavano come ad una gara a braccio di ferro. Anna ebbe l’impressione che sprofondasse nello scafo, ma la scacciò incredula. Poi l’uomo si staccò dalla parete spingendosi all’indietro. Gli uomini lanciarono grida sbalordite, scattò anche qualche applauso. Anna invece rimase ammutolita. Nello scafo erano ben visibili, sprofondate in 10 cm buoni, le impronte delle mani di quel contadino. Dopo qualche secondo quelle impronte cominciarono a sbiadire, come se risalissero verso la superficie. E infine scomparvero. L’uomo accarezzò il punto dove aveva impresso le sue mani: era perfettamente liscio.
GIULIO e Cesare non avevano mai visto una persona simile. Seduto su quella grande poltrona c’era un uomo alto meno di un metro e mezzo. Il corpo era esile, quasi rachitico, ma la testa era grossa quasi il doppio di un uomo normale, simile a un uovo con la punta all’ingiù, senza capelli. Gli occhi enormi, tondi, non avevano palpebre, e neanche iridi. Sembravano delle grosse palle azzurre. La bocca era aperta, aveva due file di denti, ma piccoli e appuntiti. La pelle era grigia, lucida. Le braccia erano magre, ma avevano solo quattro dite, lunghe e senza unghie. Indossava una specie di tuta con le maniche corte, molto scollata, rossa con degli strani disegni qua e là, come delle figure geometriche, ma mai viste prima. Era in un materiale simile alla gomma. Ai piedi aveva delle scarpe che sembravano dello stesso materiale della tuta ma più spesso, con delle suole alte. Era legato al sedile con delle cinghie che si chiudevano sul suo petto in una specie di fermaglio, grosso e rotondo.
I due uomini rimasero a contemplarlo per un minuto buono prima che Giulio riuscisse a parlare: «Al serà viv u morti?» «Non lo so,» rispose Cesare, «prova a parlargli.» «E lei quello istruito,» replicò il contadino, «forse è meglio che prova lei.»
Cesare si schiarì la voce, cercò le parole adatte alla circostanza, assunse un portamento dignitoso, poi intonò, scandendo bene le parole: «Come si sente? Come si chiama? Cosa le è successo? Capisce quello che diciamo?» Il pilota non diede alcun segno, non disse nulla, non fece alcun gesto. «Lè meij ciama’l dutür,» propose Giulio. Senza smettere la sua posa solenne, Cesare fece dei fermi cenni d’assenso. «Vado io a chiamarlo. Tu tieni gli altri fuori da qua. Se è ancora vivo ma ferito nessuno deve toccarlo. Potreste fargli più male ancora.»
IL dottor Bartizzola, medico condotto di Chiazzate, si staccò dal sedile su cui era adagiato il pilota e disse: «Non ho rilevato battiti o respiro di sorta, quindi penso proprio che sia morto.» Lo stetoscopio gli penzolava dal collo, la sua borsa era appoggiata terra, aperta, a pochi centimetri dai suoi piedi. Con lui c’erano solo Cesare e Giulio, che ascoltarono impassibili e compresi nel ruolo. «Gh’è da faghi’l funeral,» fu il responso del contadino.
«C’É il dottore là dentro, saprà ben lui cosa fare.» Dopo l’arrivo del medico, ad Antonio, solo, era rimasto il compito di contenere la piccola folla rimasta all’esterno della macchina. Tutti fremevano in attesa di notizie e di vedere il misterioso pilota legato sul sedile, vivo, morto o malconcio che fosse. Antonio fin lì c’era riuscito, anche se con maggior difficoltà di Giulio. Anna, pur restando sempre defilata, guardava l’abilità con cui il pastore riusciva a farsi ascoltare… e l’ammirava. Le erano sempre piaciuti quel suo fisico ben piantato e quella sua abilità di convincere la gente a dargli ragione. Secondo lei era sprecato in quel paesino tagliato fuori dal mondo, in mezzo a quelle capre che sapevano solo belare e sporcare.
Lei stessa, entrando nella filanda 6 mesi prima, era convinta di aver fatto un salto di qualità. Si meritava di meglio che spaccarsi la schiena nei campi, invecchiando anzitempo, come sua madre e sua nonna. La filanda in effetti era meglio dei campi, 12 ore al giorno invece di 16, ma ti ammazzavi di lavoro comunque, e dovevi stare attenta a non dar pretesti al caporeparto di darti le botte. Insomma non le bastava e sperava di andarsene in una grossa città, Bergamo, Brescia, magari Milano. E lì trovare qualcosa di meglio ancora. Suo padre malediva il giorno che il parroco le aveva insegnato a leggere e scrivere e tutte le idee balzane che le avevano inculcato i libri da allora in poi.
Anna voleva andarci in città, ma non da sola. Con Antonio, magari, ma non con quell’Antonio. Con un Antonio un po’ diverso, più maturo, più ambizioso, più sicuro di sé.
FINALMENTE il dottore e Cesare uscirono dalla breccia. «Il pilota di questa macchina è morto,» disse il padrone. «Bisognerà fargli il funerale come carità cristiana richiede. Quindi dobbiamo avvisare il curato e il sindaco. Questo signore non è un viandante qualunque. È venuto da un altro pianeta, forse da un’altra galassia.» I contadini si guardarono: cosa sono un pianeta e una galassia? «Quindi va trattato come un ospite di grandissimo riguardo. Ha fatto tanta strada per visitare proprio casa nostra. E qui ha avuto la disgrazia di morire. Proporrò al sindaco di dargli il lutto cittadino, di costruire una lapide degna di lui. Pagherò tutte le spese io, se necessario.
«Comunque sarebbe giusto che tutti voi andate a rendergli omaggio. Giulio, organizza che uno alla volta gli uomini qui presenti vadano in raccoglimento davanti alla salma. Io vado a parlare con chi di dovere.»
«Sciûr Bisletti, c’è una cosa che vorremmo farle vedere prima,» disse Antonio. E gli fece il giochetto delle impronte sullo scafo. Bisletti guardò in silenzio, impressionato. Senza dire una parola, s’incamminò sul pendio dov’era rimasto conficcato il portellone. Senza chiedere aiuto a nessuno lo afferrò con entrambe le mani e lo staccò dal terreno, come se il portellone fosse leggero. Non sembrò un’operazione difficile: il portellone doveva essere leggero, stranamente. Poi, senza sforzo apparente, lo appoggiò sul retro del suo calesse, salì alla guida e spronò i cavalli verso il paese.
CI volle più di un’ora perché il sindaco e il parroco arrivassero sul luogo dello schianto. Nel frattempo tutto il gruppo aveva concluso le onoranze. Anche Anna era entrata, accompagnata da Antonio, sotto gli sguardi muti ma ammiccanti degli altri contadini.
I due nuovi arrivati rimasero esterrefatti di fronte allo spettacolo della nave astrale, come la chiamava il sig. Bisletti. Il parroco lo fu tanto che non badò nemmeno al fatto che ci fosse una donna, Anna, in mezzo a tanti uomini. S’era portato comunque la borsa con il necessario per l’amministrazione dei sacramenti in articulo mortis. Il sindaco indossava la fascia con il tricolore della bandiera italiana.
Preceduti dal possidente e dal medico, il sacerdote e il sindaco entrarono nella breccia e risalirono le scale.
Mentre gli uomini confabulavano fra loro, Anna si staccò da Antonio e da tutti loro e si mise a gironzolare per il campo guardando in basso. Ogni tanto rivoltava la terra con la punta della scarpa come se cercasse qualcosa. A un certo punto si fermò, si guardò intorno come per accertarsi che nessuno badasse a lei, poi si chinò e si mise qualcosa in tasca, veloce come un gatto.
QUANDO uscirono dalla nave, i quattro maggiorenti non dissero una parola, anzi ignorarono del tutto il gruppo di contadini. Giulio e Antonio rimasero a guardarli, aspettando disposizioni che non vennero. Al che Antonio si fece avanti. «Sciûr Bisletti, düvem fa’ cus’è?»
Il sig. Bisletti ci mise qualche secondo a realizzare cosa gli si stava chiedendo. «Ah sì,» rispose con aria svagata. «Aspettate l’arrivo dei carabinieri poi andate al lavoro. Si è già perso fin troppo tempo.»
I contadini videro andar via le quattro autorità di Chiazzate senza proferir parola. Anna mise in tasca una mano e afferrò il pezzo di metallo lucente che aveva raccolto, senza estrarlo. Con un gesto secco lo piegò in due come niente fosse, poi lo lasciò: come tutte le altre volte lo sentì ritornare lentamente alla forma di partenza.
ANNA, rientrando nella corte, fu tolta dai pensieri solo dal sonoro ceffone che le mollò suo padre Enzo. Non s’era nemmeno accorta che lui era lì ad aspettarla all’ingresso della corte. Enzo non aveva aspettato nemmeno che lei rientrasse in casa, per coprirla di improperi su cosa avrebbe detto la gente, su quanta vergogna avesse gettato sulla famiglia, su che cosa mai lei avesse in testa, su come una cosa del genere non si fosse vista mai. E, al suo solito, maledisse il giorno che il curato le aveva insegnato a leggere, che se no idee balzane simili manco le passavano per la testa.
Prima che sentisse la predica, Anna aveva già deciso di lasciare quel posto schifoso e di andare a Milano, portandosi con sé quel pezzo di metallo magico. Non sapeva come, ma era convinta le avrebbe portato fortuna.
I carabinieri arrivarono e circondarono la zona della nave astrale, mandando via i contadini, che andarono alle loro occupazioni quotidiane. Chi lavorava al campo di grano di Bisletti, però, non poteva fare a meno di contemplarla dal suo posto di lavoro, conficcata com’era ai piedi della collinetta.
In tarda mattinata giunse il carro delle pompe funebri. I suoi addetti entrarono nella macchina, ne uscirono con il corpo del pilota del tutto avvolto in un sudario bianco e lo deposero nel loro carro. I contadini fermarono il lavoro per vederlo partire.
QUEL giorno fu allestita in municipio una camera ardente per il pilota venuto dalle stelle. Per le strade e i vicoli di Chiazzate furono affissi manifesti che invitavano la popolazione tutta a “rendere l’estremo omaggio all’augusto visitatore che dagli spazi siderali ha fatto visita alla nostra cittadina e in particolare alla tenuta dell’ill.mo sig. Cesare Bisletti. Le pubbliche esequie si terranno domenica 13 agosto alle ore 15”.
E in effetti quel sabato 12 agosto la camera ardente del municipio fu visitata in pratica da tutta la popolazione di Chiazzate, che continuò ad arrivare anche in serata, dal momento che i contadini non avevano la giornata libera, a differenza degli operai.
Chiazzate era un villaggio posto in una posizione decisamente isolata, “in mezzo ai bricchi”, come si dice da quelle parti. Il che spiega come mai la notizia dell'”augusta visita” non si fosse sparsa negli immediati dintorni, praticamente disabitati. Il sig. Bisletti, però, quel giorno non si fece vedere in paese. Si diceva che fosse corso di gran carriera a Milano appena salutati i suoi tre ospiti.
QUELLA notte, mentre tutta Chiazzate dormiva, dei grossi carri trainati a cavallo raggiunsero la nave astrale. Portavano una ventina di uomini, e Bisletti era con loro. Gli uomini legarono degli argani alla nave e con quelli la estrassero dal terreno: fu come estrarre un coltello dal burro, tanto era leggera. Passato lo stupore, la posarono sul carro più grosso, che era formato da tre pianali legati insieme. Il carico fu poi ricoperto da un gigantesco telo e ripartì verso villa Bisletti.
IL dottor Bartizzola nel tardo pomeriggio fu accolto dal sig. Cesare Bisletti nel suo studio. Cesare era uno squisito padrone di casa, ma mentre prendeva i bicchieri e la bottiglia dal suo bar, con forzata lentezza, il medico capiva benissimo che il possidente fremeva d’impazienza.
Una volta seduti sulle comode poltrone di cuoio marrone con i bicchieri di brandy in mano, Cesare non perse un secondo a chiedere notizie sugli esami compiuti dal medico sul pilota defunto. E Bartizzola non tardò a soddisfare le sue aspettative.
«Il suo aspetto esteriore l’ha visto anche lei, quindi non mi dilungo. Le dico solo che quella pelle lucida copre un esoscheletro. E non è stato facile perforarlo. Ho dovuto usare arnesi da macellaio, invece che da chirurgo. Il suo interno è dotato di organi, ma non mi chieda la loro funzione. Il loro aspetto e la posizione sono diversi da quelli di qualunque essere terrestre. Sicuramente diversi da quelli dei mammiferi. Infatti non ho capito come si riproduca, ma certamente non come i mammiferi. Non ho trovato organi che ho riconosciuto come riproduttori o sessuali. Ho trovato una grossa massa spugnosa al centro del busto, forse l’equivalente dei polmoni. Altre due più piccole, violacee, nella parte inferiore del busto. Credo che suppliscano all’apparato digerente. Il suo sangue era di un rosso più pallido del nostro, tendente al rosa, ma il suo processo di coagulazione dev’essere molto rapido. Non ho avuto modo di studiare il suo sistema di circolazione sanguigna. Avrei bisogno di più tempo.»
«Io gliene avrei dato di più, dottore, ma i Mazzetti e i Fornari, che possiedono gli altri fondi del paese, non vogliono perdere neanche un giorno di lavoro. E il mio ragioniere è d’accordo con loro. Così dobbiamo fare il funerale di domenica,» rispose Cesare. «ma stia tranquillo che quando questo paese di ignoranti avrà finito di chiacchierare, la salma tornerà a sua disposizione e approfondirà i suoi esami. Un po’ di pazienza, caro dottore, un po’ di pazienza.» E Cesare sfoggiò il suo sorriso migliore prima di bere un altro sorso di brandy. Quando ebbe finito di bere, Bartizzola capì dal suo sguardo che Cesare s’era già perso nelle sue fantasticherie.
«ALLORA, vieni con me a Milano o no?»
«Anna, tè non sei mica una che ci gira intorno,» rispose Antonio. «E gira minga inturno nanca tì,» replicò l’operaia, pressante.
«Ma tè mi vuoi rovinare! Non siamo manco sposati, e mi chiedi di mollare tutto per andare a Milano, solo con un pezzo di ferro in mano! Ma ti te se’ mata nel co’!»
Anna tolse di nuovo il pezzo della macchina dalla tasca e glielo mise sotto il naso.
«Tè l’hai mai visto un pezzo di ferro che si piega e poi torna a posto, eh, l’hai mai visto? Questo lo portiamo all’Ufficio Brevetti e ci facciamo un sacco di soldi!»
«E tè sai come fare a rifarlo, eh? Agli operai della fabbrica glielo spieghi tu che materiali usare per rifarlo?»
«Chiamiamo un chimico o un ingegnere e ce lo facciamo spiegare da lui. La torta la dividiamo con lui, si capisce. E coi soldi che facciamo ci sposiamo.»
«Con una matta come te finisco all’ospizio dei poveri o in galera, altro che sposarti!»
Anna fece sparire il “pezzo di ferro” e girò sui tacchi senza neanche salutare. Nel fare le scale che separavano la ringhiera della famiglia di Antonio dalla sua si diede della scema per aver pensato di aver bisogno di uno come Antonio. A Milano ci sarebbe andata senza di lui. Anzi da sola.
AL funerale venne tutto il paese.
Quella domenica pomeriggio alle 3 la chiesa era piena, e il sagrato pure. La bara, piccola, ma in mogano e coperta di un drappo di velluto nero, fu posta al centro della navata, come consuetudine.
La chiesa, dedicata a San Satiro, era di epoca barocca, e pur essendo una parrocchiale di campagna, aveva tutti gli sfarzi tipici di quello stile. Gli addobbi quel giorno erano funebri, ma sontuosi, grazie a Bisletti, e nascondevano il fatto che il tempo non aveva fatto bene ai suoi marmi, alle sue statue e soprattutto ai suoi dipinti, peraltro di gran pregio. Il parroco, don Luigi Sestieri, da qualche mese aveva iniziato una raccolta fondi per i restauri, ma senza grandi risultati. I poveri non avevano soldi da offrire, i ricchi non vedevano a che servisse quella spesa, dal momento che matrimoni e funerali si continuavano a celebrare.
Comunque a quel funerale non mancò proprio nessuno. Cesare era seduto in prima fila insieme a Ravizza, al sindaco e al dottore. Non aveva famiglia né parenti di primo grado, non s’era peritato di interpellare quelli di secondo e terzo grado, aveva da tempo perso i contatti con i Galbiati, la famiglia di sua madre. Per cui la famiglia Bisletti era tutta lì. Cesare, in realtà, s’era seduto per ultimo, dopo essersi accertato che tutta la chiesa fosse piena. Fino a quel momento era rimasto in piedi, camminando nervoso nei pressi della bara, ora controllando la situazione, ora parlando col parroco, ora con gli altri tre. E guardava di continuo l’ora dal suo orologio da tasca. Sembrava un padre al matrimonio della figlia, piuttosto che il partecipante a un funerale.
Quando furono le 3, si rivolse al parroco che stava discutendo con i chierichetti gli ultimi particolari, dicendogli seccamente che era ora di cominciare. Don Luigi rispose con uno sguardo torvo che stava a significare tutto il suo fastidio per le continue ingerenze del possidente. A bella posta si dilungò ancora qualche minuto con i due ragazzini, poi ordinò senza fretta all’organista di intonare la musica funebre. Nel frattempo Cesare s’era seduto all’estemità della fila d’onore, ma le lungaggini del prete lo resero così agitato e tremebondo che i suoi vicini l’avrebbero volentieri scaraventato sulla navata.
Da lì in poi, però, tutto andò secondo le aspettative di Cesare.
Il parroco ringraziò Dio per aver dato proprio a Chiazzate e alla sua gente il dono di una simile augusta visita, certo segno inequivocabile della virtù del borgo, della sua chiesa, dei suoi parrocchiani e dei suoi maggiorenti. Non mancò di ringraziare la generosità del signor Bisletti. Pregò la Vergine perché altri visitatori venissero, con maggior fortuna del loro predecessore, il cui sacrificio sarebbe certo stato fecondo di un disegno divino luminoso e grandioso, benché ancora misterioso agli uomini.
Finita la messa, iniziò la processione. Il feretro fu preso in spalla da Cesare e dai suoi tre vicini di panca. Bastavano, dato che il corpo del visitatore era ancor più leggero di quanto avrebbe dato da pensare la sua corporatura minuta.
Quando il feretro uscì dalla chiesa, i carabinieri in alta uniforme già s’erano schierati per tenere divise le due ali di folla. Alla vista della bara, qualcuno avviò un opportuno applauso che subito si diffuse fra tutti i presenti. Con don Luigi in testa, che salmodiava come da rito, tutto il corteo funebre, solenne e maestoso, si avviò verso il cimitero. Fra loro c’era anche Anna, che fino all’ultimo era stata indecisa se partecipare o no. Infine, e controvoglia, aveva deciso di sì. Detestava processioni, cortei e in genere riunioni numerose, ma c’erano già fin troppe chiacchiere sul suo conto, e la sua assenza ne avrebbe accese altre. Così era arrivata all’ultimo momento, quando il sagrato era già stracolmo. Cercò Antonio, anche se non voleva vederlo. Fu sollevata di non trovarlo fra la gente, ma un po’ le dispiaceva.
La bara fu adagiata nel carro funebre, per l’occasione drappeggiato con velluto damascato, trainato da quattro cavalli bardati con alti pennacchi neri.
La processione fu lenta, date le dimensioni del seguito, ma breve. Piccolo com’era Chiazzate, non ci voleva molto per raggiungere il cimitero, posto proprio al confine del villaggio. Una volta lì, la distesa di campi, coltivati o abbandonati, andava a perdita d’occhio. Era una giornata calda e luminosa, e il paesaggio dava uno spettacolo ricco e colorato. Però si aveva davvero l’impressione che Chiazzate fosse perduta nel nulla.
La bara fu portata in fondo al cimitero, in uno spiazzo deserto. La fossa, come sempre, era già stata scavata dai necrofori. Il rito della sepoltura fu grave e silenzioso. Cesare si mise davanti alla fossa e osservò il lavoro di sepoltura come se spettasse a lui sorvegliarlo.
Alla fine della sepoltura la folla, che occupava non solo quello spiazzo, ma in pratica ogni angolo e vicolo del cimitero, si disperse.
Alla fine Cesare rimase solo. Se n’erano andati tutti, compresi i suoi tre sodali. In realtà con lui erano rimasti degli operai su un carretto. Questi scesero e presero dal carretto una lapide e la piantarono alla testa della tomba, sotto l’occhio vigile di Cesare. Quando ebbero finito, cominciava ad imbrunire. Cesare consegnò loro una busta con del denaro e li congedò. Rimasto del tutto solo, indugiò alcuni minuti a contemplare la lapide, che recitava:
QUI GIACE UN IGNOTO E AUGUSTO VISITATORE GIUNTO DA UN ALTRO PIANETA, SCHIANTATOSI CON LA SUA NAVE ASTRALE ADDI’ 11 AGOSTO 1905. CON ETERNO AFFETTO E RICONOSCENZA.
«ALÛRA, sìi andà o no al funeral da l’Augusto?» chiese Germano ritto sulla porta dell’osteria.
Gli altri avventori dell’osteria Da Augusto si volsero verso Germano poi si guardarono a vicenda stupefatti; chi giocava a briscola si distrasse dal gioco, chi beveva lasciò il bicchiere sul tavolo o a mezz’aria verso la bocca, chi discuteva si zittì. Poi tutti guardarono di nuovo Germano Dossi, un personaggio che aveva raggiunto l’insolita età di 80 anni, sopravvivendo alle campagne garibaldine, all’incendio della sua tipografia 20 anni prima e alla morte della moglie, trapassata nel 1900. Da allora Germano si faceva chiamare “il vedovo del secolo” e passava ogni sera da Augusto.
Ogni volta, dopo il suo ingresso e i saluti di rito, vagava fra i tavoli attirando l’attenzione con il suo vocione baritonale e faceva un discorso – di pochi minuti, per fortuna – con cui commentava i costumi morali dei chiazzatesi. Quindi si sedeva da solo e si scolava tranquillo un quartino di lambrusco prima di tornare a casa. Quella sera però non si capiva cosa volesse dire.
A rompere il silenzio ci pensò Augusto Salvemini, il titolare dell’osteria. «Germano, guarda che io sono ancora al mondo.» L’oste parlava in italiano invece che in dialetto quando si sentiva tirato in ballo.
«“Parli no da tì,» rispose Germano, «ma dell’augusto visitatore, il pilota venuto da un altro mondo con la macchina volante per onorare noi chiazzatesi con la sua dipartita. Doveva proprio star male a casa sua, se per crepare ha scelto un posto come Chiazzate, dimenticato da Dio, dagli uomini e dal re!»
E fu così che da quel momento gli abitanti di Chiazzate ribattezzarono Augusto lo sventurato pilota della nave astrale.
L’AUGUSTO e la sua nave astrale rimasero argomento di conversazione a lungo nelle corte e nelle osterie di Chiazzate. Di queste ultime il borgo, benché piccolo, ne contava una mezza dozzina. Ma col tempo queste discussioni andarono scemando, sostituite e sovrapposte dai pettegolezzi su Anna Galuppi, che due mesi dopo il funerale dell’Augusto si licenziò dalla filanda e con la liquidazione si trasferì a Milano. A far cosa non si seppe all’inizio, perché la ragazza fu brava a far perdere le sue tracce. Trattandosi di una donna sola, la prima cosa che si disse fu che facesse la vita, ma si raccontò anche che avesse aperto un negozio di ferramenta. Di certo era che suo padre, nei due mesi precedenti alla partenza, più di una volta gliele aveva date di santa ragione, a giudicare dal fracasso e dagli strepiti che in quelle occasioni si sentivano in tutta la corte.
Ma cinque o sei anni dopo la sua partenza, un contadino tornò da Milano raccontando che la Galuppi s’era sistemata per bene sposando un ingegnere di una grossa fonderia del capoluogo. Le chiacchiere su Anna, ormai vaghe e rare, cessarono del tutto.
Questo contadino così informato aveva fatto fortuna alle spalle del signor Bisletti. Infatti le spese per il funerale dell’Augusto non aiutarono certo le già dilapidate finanze del colto possidente. Ad esse si aggiunsero le spese sostenute per finanziare viaggi in giro per l’Europa a colloquio con vari luminari della scienza. Cosa ne avesse sortito da quei colloqui rimase sempre un mistero, ma si presume un bel niente. Fu il rag. Ravizza, praticamente d’imperio, a prendere in mano la situazione e a salvare il suo principale dalla rovina completa. Cesare dovette concludere le sue ricerche scientifiche e vendere gran parte delle sue proprietà. Fra queste l’appezzamento comprato dal contadino. Padrone di quel che coltivava, il contadino commerciò così i suoi prodotti con le grandi città, e così in uno dei suoi viaggi a Milano seppe di Anna.
Anche Cesare, coi soldi che gli restavano, si trasferì a Como. E di lui non si seppe più nulla a Chiazzate. Ma quando partì tutti videro che era seguito da due grossi carri coperti.
Giulio e Antonio si sposarono con due compaesane e fecero la loro quota di figli. Giulio si fece convincere dai socialisti e divenne un attivista del sindacato CGL. Morì nel 1911, travolto da un poliziotto a cavallo durante una manifestazione contro la guerra di Libia. Antonio invece continuò a fare il pastore e morì di vecchiaia molti anni dopo.
Lo spiazzo deserto dove giaceva l’Augusto non rimase deserto a lungo. Partito Cesare, altre tombe gli fecero compagnia. E nessuno più si prese la briga di curare quella dell’Augusto, che finì coperta di erbacce, periodicamente ripulite solo dal custode del cimitero.
“SE questo posto è così sperduto e desolato oggi, figuriamoci 100 anni fa,” pensò Giulio Zanotti scendendo dal camper. Zanotti era un giornalista televisivo e lavorava per l’emittente satellitare “Mystery investigation”. Il camper era parcheggiato nella piazza del municipio – più che una piazza era un incrocio un po’ allargato, dove il camper faceva la figura di un mastodonte.
Zanotti ripensò a com’era cominciata quell’inchiesta, quando in un mercatino dell’usato aveva visto un manifesto risalente al 1908 con la dicitura:
“Si invita la popolazione tutta di Chiazzate a rendere omaggio all’augusto visitatore che dagli spazi siderali ha fatto visita alla nostra cittadina e in particolare alla tenuta dell’ill.mo signor Cesare Bisletti. Le pubbliche esequie si terranno domenica 16 agosto alle ore 15.”
Il proprietario del mercatino era uno degli informatori di Zanotti, e, quando in fondo a qualche mobili dei suoi traslochi trovava qualcosa che suonava occulto e misterioso, lo chiamava. E Zanotti era partito da “visitatore dagli spazi siderali” e “Cesare Bisletti” per arrivare a Chiazzate.
Già diverse volte aveva parlato con l’archivista del Comune e con il parroco per avere documenti relativi a Cesare Bisletti e al funerale dell'”augusto visitatore” ed era arrivato così all’incredibile conclusione che un UFO era atterrato in uno sperduto paesino lombardo nel 1908 senza che il resto del mondo ne avesse sentore. Seguendo le tracce di Bisletti era arrivato fino a Como e lì aveva consultato gli archivi del manicomio di Sant’Anna, dove Cesare visse i suoi ultimi tre anni di vita. Nel 1911 il rag. Ravizza lì lo aveva fatto ricoverare, dopo aver convinto giudici e periti medici che il suo assistito fosse ormai in preda ai più sfrenati deliri, chiaramente “ispirati alle letture di Giulio Verne e Ariberto Giorgio Wells”, come recitava l’ordinanza del tribunale.
Zanotti trasecolava quando ci pensava. I colloqui fra Bisletti e il suo medico curante furono una fonte di informazioni. Da essi apprese tutto lo svolgersi di quella notte, dall’avvistamento fino allo schianto. Poi il recupero e lo smontaggio del disco volante. Il povero Bisletti parlò con vari luminari, nessuno dei quali lo prese sul serio. Scrisse persino al noto astronomo americano Percival Lowell, che gli rispose che dalla traiettoria descritta la nave non poteva venire da Marte, e che quindi non lo importunasse quindi con simili ciarlatanerie.
Ma ciò che impressionò di più Zanotti furono i disegni lasciati da Cesare. Se il suo racconto fosse stata una sceneggiatura, quelli sarebbero stati gli story-board. In uno si vedeva il disco volante, così come se lo immaginava il paziente: semiconico e con una cupola in mezzo. In un altro dipinto in fiamme, come una specie di cometa. In un altro ancora era conficcato a terra, con un buco nel mezzo, con fiammelle attorno. Più sorprendenti di tutte le immagini dell’alieno: testa grossa, occhi grandi e con quattro dita, ora seduto e legato a una poltrona, ora sdraiato come su un tavolo operatorio. E infatti Cesare raccontò di una specie di autopsia.
Incredibile. Zanotti era entrato in crisi. Diversamente da altri suoi colleghi del canale tv, convinti della serietà del loro lavoro, lui si era sempre considerato una specie di ciarlatano. Parlava di fantasmi, UFO, apparizioni… vendeva notizie farlocche ai creduloni che se le bevevano. Allora cos’era che rendeva questa credibile? La sua epoca! Nel 1908 non si sapeva nulla di dischi volanti, certamente non nella campagna brianzola! E quei disegni assomigliavano agli avvistamenti cominciati in giro per il mondo per il mondo a partire dal 1947. Che la maggior parte di quelle testimonianze fossero fantasie influenzate reciprocamente ne era convinto anche lui, ma nessuna poteva essere stata influenzata da Bisletti.
La troupe ripartì per fare delle riprese al cimitero, in quel mite mattino d’inizio autunno 2018, mentre Zanotti andava al suo appuntamento.
«QUALCOSA ho trovato. Il diario di Germano e i telegrammi di Hanna Schnurr, ovvero Galuppi.»
«Di chi?» chiese Zanotti a Silvia, la preziosa archivista del Comune di Chiazzate.
«Germano Natalini, un tipografo morto nel 1914. Era stato un garibaldino da giovane. Dopo la morte il suo diario fu consegnato ai nostri archivi, pensando che fosse di qualche valore storico. E nel 1908 scrive che una macchina che navigava nei cieli si era schiantata nella tenuta Bisletti. Natalini a suo solito condisce la cosa con commenti pseudo-satirici, ma chiama “l’Augusto” l’extraterrestre morto nello schianto. E in effetti qui a Chiazzate c’è una specie di spauracchio per bambini, l’Augusto.»
«Cioè?»
«Qui a Chiazzate fino a un po’ di tempo fa si usava dire ai bambini: “Fa’ il bravo o ti portano via come l’Augusto. È diverso dall’Uomo Nero, che ti porta via lui, qui ti portano via come lui.»
“E infatti a quanto pare l’hanno portato via…” pensò Zanotti, riandando ai suoi sopralluoghi al cimitero. «E l’altro nome che hai detto,chi è?» chiese.
«Anna Galuppi era un’operaia della filanda. Lasciò il paese due mesi dopo lo schianto. Sappiamo di lei dal diario di Natalini. Racconta che fece rumore la sua partenza, perché prima c’erano state liti furibonde in casa fra lei e i suoi genitori. E poi all’epoca una ragazza di neanche 18 anni che se ne va di casa in discordia coi genitori faceva sensazione. Comunque tagliò i ponti con la famiglia e sposò un ingegnere milanese, di nome Ambrogio Colombo. Aveva due fratelli maggiori maschi. Il più giovane morì nella Prima Guerra Mondiale, sul Carso. Alla morte del padre nel 1921 non si fece vedere nemmeno al funerale. E nemmeno a quello della madre nel 1930. Mandò dei telegrammi dicendo che non si sarebbe presentata e nominò un notaio per gestire i pochi averi che i genitori le lasciarono. Poi più nulla fino alla morte del fratello maggiore. Nel 1942 anche il fratello maggiore morì. Si era sposato, ma non aveva figli. Così il notaio la cercò per lasciarle la casa di corte, l’unico bene consistente che i Galuppi avevano. Il notaio ricevette una risposta da una certa Hanna Schnurr, residente a Magonza, in Germania. Le carte dimostrarono che si trattava della stessa persona, che aveva cambiato nome legalmente. Pretese discrezione al riguardo. Diede ordine di vendere la proprietà e di mandare il ricavato a un conto bancario in Germania, di cui diede le coordinate. Intervenne persino il Ministero degli Esteri, che fece pressioni sul notaio perché la cosa restasse il più segreta possibile. Questione di sicurezza nazionale.» Una lucetta si illuminò nella testa di Zanotti. Silvia continuò:
«Tornando all’Augusto, mancano tutti i documenti relativi alla sua sepoltura. Ma nel diario di Germano c’è scritto dove fu sepolto,» e gli allungò una fotocopia da dietro il bancone. «Ti posso già dire che in quel punto del cimitero quella lapide non c’è. Il cimitero s’è allungato e adesso al suo posto ci sono altre tombe.»
Zanotti lesse la fotocopia. Era in una calligrafia minuta e ordinata, da scrivano d’altri tempi, piuttosto fitta. Oltre a segnare la posizione, riportava la scritta della lapide.
«Ma chi e quando ha portato via i documenti insieme alla tomba?» chiese a Silvia. Lei allargò le braccia.
«Ma quella Anna cosa c’entra con l’Augusto?»
«Non te l’ho detto? Mi sono incuriosita a lei perché Germano la nomina anche per la notte dello schianto. Dice che era l’unica donna presente quando i contadini erano andati sul posto.»
Zanotti rimase un po’ a pensare. Poi, come preso da una folgorazione, chiese: «Hai guardato dopo il 1933, se ci sono documenti, note o telegrammi riservati
ANCHE se Silvia non aveva capito bene che cosa cercare, la ricerca non era stata lunga e complicata come lei e Zanotti si erano aspettati: dopotutto Chiazzate non aveva questo grande archivio.
Fra le carte del giugno 1934 Silvia aveva trovato un telegramma indirizzato al podestà che diceva:
Priorità su tutte le priorità
In occasione visita 18 c.m. Sgr. Bianchi per conto G. RS/RS33 richiedesi massime – dicesi massime – segretezza e collaborazione. Stop. Sgr. Bianchi sia soddisfatto in ogni richiesta. Stop.
Il telegramma non aveva firma ma l’intestazione del Ministero degli Interni.
Zanotti ne era rimasto emozionato. Un documento che provava l’esistenza del…
«Silvia, hai fatto di me un uomo felice. Questo documento è importantissimo! Dimostra che il Gabinetto RS/33 è esistito veramente!»
‹‹Il cosa?!»
‹‹Il Gabinetto RS/33! Gli ufologi ne parlano da una ventina d’anni, sostenendo che fosse un ufficio segreto del governo fascista che si occupava di “velivoli non convenzionali”, UFO insomma, che già allora venivano avvistati in giro per l’Italia. Tranne una manciata di telegrammi inviati da informatori anonimi non c’erano altre prove che ne dimostrassero l’esistenza o la reale attività… fino adesso! Finalmente un documento trovato in un archivio ufficiale! Pensa… si dice che Guglielmo Marconi in persona ne fosse il direttore…»
Silvia era senza parole, dal suo sguardo si capiva che non era sicura di aver capito bene. «M… Marconi quello della radio?… Qui a Chiazzate?»
«Sì… e pensa, se sono venuti qui a prendere la tomba e i documenti dell’Augusto vuol dire che si occupavano anche dei casi precedenti al 1933, quando l’ufficio è nato.» Zanotti allargò le braccia, quasi balbettava. «Silvia, ti rendi conto? É lo scoop della mia vita!»
LA bella villa coloniale dalla forma allungata guardava Zanotti dai suoi muri color porpora, mentre questi scendeva dal fuoristrada della produzione.
Lasciata l’auto nello spiazzo che fungeva anche da parcheggio, si incamminò, mentre a cavallo veniva verso di lui il padrone di casa, Joaquim Colombo, proprietario della Estencia Colombo, una fattoria la cui principale attività era l’allevamento bovino. Quando fermò il cavallo un inserviente che lo aspettava prese le redini. Joaquim scese e si diresse verso Zanotti. Da Chiazzate era stato lungo il viaggio che aveva portato il giornalista alla provincia di Entre Rios in Argentina, a pochi chilometri dal confine con l’Uruguay.
Joaquim strinse la mano al suo ospite con un sorriso tirato che non cercava neanche di nascondere la diffidenza. Aveva accettato l’incontro dopo una trattativa telefonica, ma a patto che Zanotti venisse da solo, senza nessuno strumento di registrazione, neanche un taccuino. A seconda dell’andamento del loro colloquio, Colombo avrebbe deciso se acconsentire o meno alle riprese della troupe e a un’intervista filmata. La troupe stazionava alla vicina città di Concordia, in attesa. A parte le presentazioni non ci furono scambi di battute. Colombo accompagnò il giornalista alla veranda all’ingresso della villa e lì si sedettero. Erano le 4 del pomeriggio del 23 gennaio 2019.
«Come lei sa, la sua attività e la sua richiesta non godono della mia fiducia, ma ho voluto comunque darle un’occasione, una sola, per meritarsela. Mi dica in tutta sincerità cosa sa della mia famiglia e cosa vuole da me. Intanto ordini pure al mio domestico qualunque cosa desideri.»
«Una birra va benissimo. Vedo che lei parla un ottimo italiano, insolito per un italo-argentino di terza generazione,» commentò Zanotti prima di raccontare quello che aveva scoperto a Berlino.
I nonni di Joaquim, Ambrogio Colombo e Anna Galuppi, nel 1934 si erano trasferiti in Germania e lì, in breve tempo, avevano acquisito la cittadinanza tedesca e cambiato i loro lombardissimi nomi in Alois e Hanna Schnurr. Segno certo dell’alta considerazione che avevano ottenuto in Germania. Del resto la famiglia di Ambrogio aveva già ottime entrature nel settore ingegneristico in quel Paese, grazie al lavoro del padre, anch’egli ingegnere meccanico. Ambrogio/Alois fu presto assegnato a un progetto militare segreto in Renania. Zanotti era riuscito persino a rintracciare la sede del progetto, una miniera abbandonata riadattata a laboratorio, ma al suo interno non c’era più nulla, tutto era stato smantellato all’inizio della II Guerra Mondiale. Nel frattempo, nel 1936, gli Schnurr avevano adottato un bambino, Nikolaus, il loro unico figlio.
Alois – e probabilmente il progetto con lui – era stato trasferito nelle Polonia invasa, precisamente in Slesia. Zanotti aveva visitato anche quel sito. Era un altro laboratorio sotterraneo che i tedeschi non avevano fatto in tempo a smantellare del tutto alla fine della guerra, ma che era stato usato da scienziati del blocco sovietico, per poi essere smantellato alla metà degli anni ’60. E infatti Zanotti aveva trovato solo un pozzo vuoto, ma con inequivocabili resti di una passata presenza industriale. Gli ufologi polacchi e russi contattati sostenevano che in quel pozzo il Patto di Varsavia aveva svolto tentativi segreti di riprodurre un progetto che gli occupanti tedeschi avevano tentato e fallito: ricostruire un disco volante extraterrestre, usando anche materiali misteriosi e sconosciuti.
‹‹In altre parole,›› disse Zanotti, ‹‹avrebbero cercato di continuare un lavoro che suo nonno aveva iniziato, usando come punto di partenza qualcosa che sua nonna Anna aveva portato dal suo piccolo villaggio natale.»
«E cos’avrebbe portato di tanto prezioso mia nonna, a parte la sua incrollabile volontà? Quella sì sembrava venuta da un altro mondo,» chiese Joaquim.
«Un pezzo della carlinga di una nave spaziale… un UFO si direbbe oggi, che cadde proprio a Chiazzate nel 1908. Anna era giovanissima, ma ne raccolse un pezzo e con quello partì per Milano, dove conobbe suo nonno Ambrogio…»
«Non ho bisogno che mi ripeta la storia della mia famiglia, la conosco meglio di lei. Mio nonno fece fortuna in Germania semplicemente perché era un eccellente ingegnere aeronautico. Certo si dovette iscrivere al Partito Nazionalsocialista, come ogni tedesco che volesse conservare la sua posizione, e sì, contribuì allo sforzo bellico… come ogni cittadino di un Paese in guerra. E tanto bastò da farlo scappare al Sudamerica con tutta la sua famiglia, dopo la guerra. Ma non era un nazista, era un tedesco. Di origine italiana, ma cittadino tedesco. Gli interessavano la scienza, il volo, e sottomettersi al governo di turno era lo scotto che in quegli anni in giro per il mondo tanti scienziati pagarono. La vita lo portò dalla parte sbagliata del mondo al momento sbagliato. Ma la politica non gli interessava.»
Zanotti capì che la conversazione stava prendendo una piega sbagliata.
«Non ho detto che i suoi nonni fossero nazisti, e non è quello che mi interessa…»
«E allora cosa le interessa? Associare i miei nonni a una favola pazzesca sugli UFO. I Colombo non sono fenomeni da baraccone. Mio nonno era un grande scienziato prima di diventare un grande allevatore. Seppe passare dall’aeronautica alla zootecnia, tanto per farle capire che grande mente fosse, e non ha bisogno di simili ciarlatanerie per essere ricordato.»
Zanotti l’aveva perso. Doveva cercare di ricuperare, ma prima che escogitasse qualche argomentazione, Colombo tagliò corto. «Il nostro incontro è concluso, signor Zanotti. La sua proposta non mi interessa. Proibisco a lei e al suo canale di nominare la mia famiglia o anche solo questa proprietà o dovrete vedervela con i miei avvocati. Ha bisogno di essere accompagnato alla sua automobile?»
«No, grazie,» rispose Zanotti con un sospiro desolato.
IL fuoristrada di Zanotti uscì dalla vista, ma aveva senza dubbio preso la strada per Concordia. Nei minuti successivi Joaquim ricevette le telefonate di due suoi uomini appostati a cavallo in vari punti della sua tenuta che gli confermarono che la sua meta era quella.
Solo allora il possidente lasciò il patio. S’incamminò a piedi verso una parte remota della sua tenuta. Fu una passeggiata lunga, quasi un’ora. Un tempo quella zona era abitata da braccianti indios e dalle loro famiglie. Ora erano rimaste solo le loro casupole di paglia, misere e vuote. I Colombo non avevano mai voluto distruggerle e riutilizzare quel lotto.
Joaquim entrò nella capanna più periferica di tutte. Del tutto vuota, come le altre. Joaquim si fermò al centro del suo pavimento di terra. Cominciò a spolverare con le mani, incurante di sporcarsi. Rivelò una botola. La aprì e scese una scaletta che portò a tre metri sottoterra.
I sotterranei della capanna erano in cemento armato, con un soffitto robusto. Joaquim arrivò davanti a una porta in acciaio. Tolse da sotto la camicia una catenella d’oro a cui erano attaccati un crocefisso e una grossa chiave. La infilò nella toppa della porta e la aprì.
Mosse un interruttore alla sinistra dell’entrata e le luci al neon si accesero ronzando. La cosa più difficile era stata mantenere l’impianto per la temperatura ambiente per tutti quegli anni senza ricorrere a una manutenzione esterna. Quanto ancora ci sarebbe riuscito? Almeno uno dei due tesori racchiusi in quella cella aveva bisogno di condizioni ideali per conservarsi. Suo nonno Ambrogio aveva insegnato come fare a suo padre Nicola, e Nicola l’aveva insegnato a lui, Joaquim. Ma l’usura si faceva sempre più impellente… doveva trovare una soluzione.
E quel giornalista? Si sarebbe scoraggiato? E se sì, sarebbe stato l’ultimo? Dopo tanti anni quei vendifumo ficcanaso che suo padre tanto temeva si erano fatti vivi. Quell’italiano sapeva tutto, o quanto meno abbastanza. Non sapeva che, quando il laboratorio in Slesia era stato smantellato, Ambrogio era riuscito ad approfittare della confusione per scambiare una della casse e portare il corpo dell’Augusto via con sé. Un’impresa che non sarebbe stata possibile senza il coraggio e l’intelligenza di sua nonna Anna. Nicola aveva solo 9 anni all’epoca, ma ricordava benissimo la sua parte nell’impresa, nel tenere il segreto, nell’imparare e ripetere tutte le istruzioni che i genitori gli davano… La madre Anna gli aveva trasmesso la sua astuzia, la fermezza nei propositi.
Gli Schnurr erano arrivati in Argentina aggregandosi agli altri transfughi nazisti, usando dei falsi passaporti italiani ma con il loro vecchio cognome Colombo. S’erano poi subito staccati dalla comunità nazista: non volevano rispondere a domande sulla loro attività passata, non volevano correre il rischio di incontrare qualche vecchia conoscenza, non volevano che qualche cacciatore di nazisti inseguendo gli altri ricercati inciampasse anche in loro.
Colombo era stato un cognome utilissimo per questo scopo: quale nome più mimetizzabile per un immigrato italiano in Argentina?
Contemplò le due teche: una, la più piccola, conservava il pezzo di metallo elastico trafugato da Anna nel campo di Chiazzate. Quanti anni di studio fatto per cercare di capirne la chimica, la composizione! Quanti tentativi frustrati di riprodurlo! Tutto inutile: la tecnologia e le conoscenze degli anni ’30 e ’40 non avevano neanche scalfito il segreto della sua dote unica, l’elasticità. Forse la scienza moderna ne sarebbe capace, pensò Joaquim, ma i Colombo non potevano scoprirlo da soli, avrebbero dovuto interpellare laboratori, personale… i suoi nonni e i suoi genitori non avevano voluto.
Sposarsi era stato un rischio per Nicola e Joaquim. Ma entrambe le loro mogli avevano accettato e avevano contribuito a mantenere il segreto. Non era stato facile. Ogni fidanzata di Nicola prima e di Joaquim poi aveva dovuto passare dei severi e discreti esami psicologici e attitudinali prima di essere accettata come sposa. Ma entrambe le scelte s’erano rivelate giuste.
Joaquim volse poi lo sguardo alla teca più grande. Al suo interno c’era il corpo dell’Augusto. Era stata Anna a dire che al suo paese così lo chiamavano e così lo aveva sempre chiamato tutta la famiglia.
Per fortuna il processo di decomposizione era stato molto più lento di quello di un corpo umano, nei 27 anni trascorsi al cimitero di Chiazzate. Da allora gli italiani prima e i tedeschi poi l’avevano trattato con tutte le cure del caso, ma alcuni deterioramenti s’erano comunque ormai verificati. Dagli esami era risultato che la pur limitata decomposizione aveva toccato quasi esclusivamente gli organi interni, quindi il suo aspetto era molto simile a quello che aveva in punto di morte. Dalla sua dissepoltura era rimasto privo delle adeguate cure per un paio di anni, fino a che i Colombo non riuscirono ad allestire una cella alla giusta temperatura in quella fattoria. Non era una cella frigorifera, si era stabilito che la temperatura doveva essere bassa, ma non così tanto.
Dopo che l’alleanza fra Italia e Germania fu siglata, il governo tedesco chiese con insistenza a quello italiano di poter avere in carico il cadavere di Augusto, sul quale gli Schnurr avevano dato tutte le informazioni possibili, collegandole ovviamente al metallo elastico che si stava studiando. E così gli studi sul metallo e sul corpo erano andati di pari passo, seguendo tutti gli spostamenti di Alois. Fino a che arrivò l’ordine di smobilitare il laboratorio in Slesia.
Quanti sogni, quanti sacrifici, quanti sforzi su quei due resti. E ora? Joaquim pensò che il momento di rivelare al mondo quei due tesori fosse vicino. Spense la luce e uscì. Non voleva pensarci per il momento. Il tesoro dell’Estencia Colombo avrebbe riposato lì ancora.
Altri interessi oltre al cinema e alla letteratura SF, sono il cinema e la la letteratura tout-court, la musica e la storia. È laureato in Lingue (inglese e tedesco) e lavora presso l'aeroporto di Linate. Abita in provincia di Milano
Un racconto atipico, e non solo per la singolare ambientazione. Comincia come uno spaccato di verismo bergamasco, con la sua piccola dinastia decadente alla Gattopardo, per poi accelerare in un caleidoscopio storico di riferimento il cui spessore attira tutta la mia ammirazione. Si finisce poi nel più puro stile “ufologico”, tra segreti e laboratori segreti, senza dimenticare nazisti e servizi segreti. Una rassegna stilistica e di generi che affascina, e tiene alto il livello di attenzione e curiosità nonostante la mancanza di eventi tipicamente “action”. Una bella, originale cronistoria fantascientifica, che solo una penna animata da vera passione poteva scrivere. Chapeau
Un’ottima storia con una ambientazione suggestiva e interessante. Tipicamente di atmosfera, forse si sente la mancanza di un finale più marcato, me è evidente che l’autore lo voleva proprio così per cui niente da dire, anzi, una cosa sola: i miei complimenti.