Lo Scandaglio è il secondo racconto di Giorgio Cicogna che pubblichiamo. Tratto da una raccolta di racconti intitolata I ciechi e le stelle segnalata a suo tempo dalla compianta Manuela Menci che a lungo ha collaborato per il progetto Cose da Altri Mondi. Questo racconto è il terzo della raccolta ed è una splendida ironia che ci è sembrata decisamente moderna. Il libro è stato pubblicato un anno prima dell’incredibile e romanzesca scomparsa dello scrittore, morto a causa di un suo esperimento su un motore a reazione.

 

— Pura fantasia. Al di sopra di un certo limite nessun essere vivente può resistere. E i frammenti di cui parli, le cose morte che discendono dall’infinito, racchiudono un segreto che non violeremo.

Queste le parole; non questo il suono; che, laggiù, nell’abisso nero, settemila metri sotto il livello del mare, non si parla per voci. Tutto è silenzio, freddo e chiuso silenzio.

L’uomo che potesse discendervi non udrebbe se non il rumore del suo passo senza snellezza, in un mondo sigillato all’aerea festosità dei gesti dei moti dei gridi.

Gli esseri che l’abitano scivolano invisibili, ombre nell’ombra; e le tombe dei nostri cimiteri, nell’orrore della loro cava nudità, non racchiudono tanta pesantezza di morte.

Ma una gente irrequieta, a branchi, a sciami, formicolando, brulica per gli spazii ciechi; e le vallate e le distese del fondo se ne illuminano al passaggio come di una fioca aurora; e al riverbero che se ne spande le alghe giganti e le erborescenze e i tentacoli dei mostri d’altura si disegnano in una opalescenza diffusa, come in un camposanto sotto il plenilunio le croci e le colonne e le piante. Passano gli abitanti della profondità; passano, polvere di stelle in un’immagine capovolta di cielo, i nòmadi schiavi del fondo; e non v’è testo di dottrina che li nòveri, homo sapiens cui non turbano la quiete piatta del recte agere e del recte scire le mille vite che non alimenta il tuo sole.

Il glomo pallido, come di vischio, ma ovale, quasi diafano, appena illuminato da un chiarore blando, che aveva parlato, tacque; e sùbito la sua fosforescenza aumentò. In mezzo alla materia perlacea di cui era fatto il suo corpo, spiccava, bruno, il nuclèolo centrale; non fisso, ma quasi natante in seno alla sostanza fluida che lo imprigionava. L’epidermide che la racchiudeva, irta di piccoli e corti tentacoli, era più tenue e trasparente della pelle dell’uovo, sotto il guscio, e s’increspava e corrugava leggermente di quando in quando. Altre vibrazioni, più sottili, gli permettevano, come a tutta la sua gente, di esprimersi; mute per un orecchio umano, mute per qualsiasi strumento terrestre. Nessun cristallo di quarzo sarebbe stato così sensibile da raccoglierle, tanto esili esse trascorrevano tra l’uno e l’altro degli individui del branco.

Il suo interlocutore, che solcava lentamente accanto a lui l’acqua persa della gran fossa atlantica — Tutti i nostri popoli — rispose — e ogni stirpe, ed anche i più lontani dell’oltrefreddo, ed anche gli sperduti delle gemmazioni più remote, hanno sempre avuto fede in una cosa misteriosa che esiste al di sopra del buio. Dalle mie gemmazioni antecedenti qualche cosa è rimasto anche in me, che mi fa parlare; è rimasto in te; è rimasto in tutti. Perché disconoscere? Perché negare?

— Questo discorso è stato fatto, prima di te, da centinaia e da migliaia di tuoi predecessori. Ed è un discorso….

S’interruppe. Un avviso, un segnale d’allarme lanciato dal gruppo di testa, traversò fulmineamente le schiere; e tutte le luci si spensero di colpo. Sparito, svanito tutto il branco, come una gala di lampade allo scatto di un interruttore. C’era un nemico; un grosso essere scaglioso e irto d’aghi, gran divoratore della gente luminosa. Nel buio, la torma aumentò di velocità, mutando direzione; e quando si ritenne sicura dall’avversario, che per buona sorte è quasi cieco, riprese a poco a poco la sua fosforescenza; ché nessuno poteva rimaner spento a lungo; e i più gagliardi avrebbero potuto trattener la luminosità quanto un uomo il respiro.

— Ed è un discorso inutile e sciocco — riprese la sfèrula dilatandosi tutta per riprendere forza dopo la fatica fatta. Può darsi che esistano, al di là e al disopra del buio, delle forme di vita. Ma quali forme? Quale vita? Metti mille di noi uno sull’altro; l’ultimo, in cima, sarà già gonfio come un mostro. Che cosa ci può essere, di vivente, che resista a quella terribile rarefazione? Puoi tu concepire un essere pensante e cosciente, capace di rilucere, di vibrare, di scindersi, nel vuoto più spaventoso dove non resiste che la materia bruta, come i frammenti di cosmo che testimoniano di quel «qualche cosa» che tu sogni? Dimmi, puoi immaginarlo?

Ma l’altro non rispondeva. Assorto nella sua idea avrebbe dato, per sapere, tutto ciò che di dolce e di bello gli prometteva la vita, da poco schiusa; anche l’attimo della gemmazione, quello che dà, al singolo, per un istante, la divina gioia di perpetuare di sé, da sé solo, la stirpe…

— Pensa alla realtà, pensa a compiere la tua missione. Le alghe minute di mezza costa attendono ancora l’opera di migliaia di noi per dar buon succo. Chi nutrirà le gemme se non le coltiveremo amorosamente? Chi preparerà i piccoli al gran trasporto? Chi andrà a riconoscere tutti gli anfratti per la migrazione prossima?

— Parlano di un gran soffio — rispose l’altro senza ascoltare, seguendo il suo pensiero — che qualche volta sconvolge tutto lo spazio, venendo su dal fondo; e distrugge ogni cosa vivente.

— Chi l’ha sentito? Sciocchezze come tante altre; e perditempi. Non è fantasticando su queste fandonie che si progredisce. Trecento gemmazioni or sono la nostra specie non distingueva ancora un sasso da un fuco. Credi tu che si sarebbe compiuto tanto cammino in così breve tempo se tutti avessero sperperate le loro forze, come fai tu ora, a meditare sulle cose irreali?

— Ma se il pensiero è una conquista, esso è pur uno strumento! Che cosa varrebbe aver raggiunto questo stato di coscienza se non se ne usasse? — protestò il piccolo òvulo, agitando tutti i tentacolini in ogni senso — «Lavorare per l’evoluzione!» e quando fermarsi? Quando ritenersi giunti? Se vi siano altre vite al disopra e al di sotto del nostro mondo non ti pare cosa che valga la pena d’esser meditata?

— Se Dio permette che qualcuno viva lassù — disse alla creatura dell’acqua la più savia sorella — la sorte dev’esserne ben triste, piccolo! Ma quanto ci resta da correre ancora? Sono stanco.

***

Che cosa accadeva ora? Il branco si fermò, tutto palpitante, in ascolto. Un segnale aveva traversato l’acqua. Ecco! Un altro! Come una voce stentorea, immensa, che urlasse, a comandare un esercito, per un raggio di miglia.

Ancora! Ancora un altro! Grida tronche, roche, uguali, terribili. Chi era? Chi poteva avere tal voce? Sbalordito, atterrito, il piccolo popolo si sbandò, si ricompose, spense le sue luci, le riaccese. Compagni? Richiamo di un altro sciame lontano? Impossibile. Non v’era, al mondo, gente capace di simili grida. L’acqua stessa pareva esprimere dal suo grembo la voce spaventevole, ma su, dall’alto, dalla zona della morte, e del mistero…

Un grido altissimo, un guizzo; un piccolo glomo biancastro, come impazzito, che roteava su sé stesso scagliando freneticamente in tutti i sensi le piccole braccia convulse: Il segno! Il segno! La testimonianza che qualche cosa, che qualcuno, di lassù, rispondeva, in un suo terribile linguaggio, al muto richiamo! Grida inarticolate, insensate, orrende; ma grida! ma voci! ma messaggi!

Poi le grida cessarono.

Poco dopo, tra la confusione e lo sbigottimento del branco sbandato, ecco scivolar giù una cosa rotonda, opaca, pesante; e calare veloce; e abbattersi sul fondo; e tra la fuga degli atterriti, e il clamore e i disperati richiami, il forsennato, sognatore gettarvisi su, e abbrancarvisi, e sparirvi, come inghiottito, come incorporato: a vedere, a sapere, a conoscere!

Su, su, su. La palla di ferro dello scandaglio, dopo il tuffo vertiginoso, risaliva lentamente, tirata dal filo d’acciaio. Il piccolo verricello che la salpava ansava per lo sforzo. Seimilasettecento metri! Sì, era proprio il principio della gran fossa. S’era tentato di scandagliare, dapprima, con l’apparecchio ultrasonoro; ma più per curiosità che per altro. I segnali, troppo deboli non arrivavano a riflettersi sul fondo, in quel baratro; e l’eco non ne tornava ai ricevitori squisiti. Allora, dopo una breve serie di emissioni ritmiche, quelle che avevano tanto turbato il popolo dei sommersi, s’era gettato lo scandaglio del buon tempo antico, la palla di acciaio, che cattura qualche granello d’abisso e lo porta al sole, dalle perdute profondità. E se qualche creatura del fondo vi resta impigliata, arriva su crepata, esplosa, pel gran dislivello: pesci gonfi come otri, strani crostacei spaccati, flaccidi relitti informi, con residui di trasparenze e di iridiscenze.

Seimilasettecento metri! La nave, ferma, si cullava sull’oceano calmo. A poppa, un gruppo di ufficiali e marinai curiosi, che attendevano la ricomparsa del grosso globo. E c’era anche il cappellano, don Vito, gran naturalista, tutto intento a seguire con l’occhio il filo sottile. Ancora mille metri! ancora cinquecento!… cento!… Da quasi due ore durava la manovra di salpamento quando, finalmente, con un guizzo di delfino, lo scandaglio emerse; e fu subito tirato in nave e posato sulla coperta, e interrogato da cento occhi curiosi, e palpato, e carezzato, come un campione che abbia fornito una gran prova, e, al traguardo, tutto ansimante, si riposi dello sforzo.

E ognuno volle dire la sua. Ma, della fauna sottomarina, il muto esploratore non portò su che una specie di lenticchia, svuotata, madreperlacea, viscida, e con una corona di tentacolini rattrappiti.

— Puah! — disse don Vito toccandola con un legnetto. Niente!

— Ma anche a quella profondità vi sono degli animali, reverendo? — chiese un guardiamarina.

— Esseri infimi, forse, esistono ancora sino a quel limite — rispose don Vito.

— Ma se Dio permette che qualcuno viva laggiù — aggiunse — la sorte dev’esserne ben triste! — Poi buttò via con ribrezzo il legnetto e la «porcheria» che v’era attaccata, e si ripulì ben bene le mani sull’orlo della sottana.

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Nacque a Venezia il 19 marzo 1899 dall'antica famiglia veneziana dei Cicogna che annoverò fra i suoi antenati anche Pasquale Cicogna, Doge di Venezia e morì a Torino il 3 agosto 1932 a causa di un'esplosione verificatasi mentre stava lavorando alla costruzione di un motore a reazione. La sua raccolta di racconti "I ciechi e le stelle" tratta di fantascienza.