Luigi Cozzi ci regala questo conturbante racconto soprannaturale, scritto nel 1985 e apparso nell’ottobre del 1995 sull’antologia Storie di fantasmi a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, edizioni Newton Compton. Recentemente, nel 2016, è stato ripubblicato nella raccolta Il Cuore Misterioso, edito da Profondo Rosso per la collana Orizzonti del fantastico. Luigi ci ha dato il permesso di riportare altri suoi racconti e non mancheremo di farlo!

Questa storia del piccolo cane Godzilla, a noi è piaciuta molto.

F. G.

In questa mia strana città… oh, sì, in questa mia città tanto strana dove per me persino una goccia si è animata e la porta di un’altra dimensione spalancata… qui ho anche pianto… già, ho proprio pianto il pomeriggio in cui mi morì il cane. Ho pianto come una fontana, e piangevo ancora sotto la pioggia mentre gli scavavo una fossa nel mio giardino, perché era lì che intendevo metterlo a riposare per sempre, poiché non me ne volevo mai più separare…

Ero ancora sposato con Lisa, allora, e già avevamo la nostra piccola bambina: ricordo benissimo quanto piansi…sì, piansi davvero tanto mentre rientravo in casa…dopo aver scavato e richiuso la fossa, perché lui, il mio cucciolone, che si chiamava Godzilla come un mostro del cinema, era rimasto là fuori al freddo sotto la terra bagnata, mentre io stavo al caldo, appoggiato alla finestra chiusa, e guardavo quel piccolo tumulo e soffrivo.

Sì, mi era morto il cane, e voi direte che sono uno stupido sentimentale, ma anche oggi, al pensiero, gli occhi mi si appannano di nuovo e i tasti del computer su cui scrivo si fanno vaghi e confusi, sfuocati, perché lui è sempre là, dietro la finestra, sepolto sotto quel piccolo cumulo dove l’erba ormai è ricresciuta.

È passato molto tempo, ormai, e il mio piccolo amico a quattro zampe non potrà mai più ritornare in questa casa. Ma io l’ho ancora presente nel cuore, e l’ho sempre davanti agli occhi, vispo e allegro perché, subito dopo la sua morte, presi una fotografia e andai da un pittore mio amico perché me la trasformasse in un quadro…un dipinto che poi ho incorniciato e appeso alla parete, nel mio salone, dove lo posso vedere ogni momento.

È un quadro che lo ritrae quando era vivo e allegro, un quadro che provocò le ire di mia moglie Lisa, quando lo portai per la prima volta in casa, spingendola a dire a tutti che ero proprio un insensibile perché avevo fatto fare un dipinto al cane, mentre a far ritrarre lei non avevo mai pensato…E forse aveva ragione: ero davvero un mostro di insensibilità e di poco cuore, ma anche oggi che è passato tanto tempo da quella discussione, non mi pento del modo in cui mi sono comportato…non mi pento davvero di aver fatto fare un ritratto al mio amico peloso e quasi sempre tutto inzaccherato, invece che alla donna che avevo sposato.

Il quadro di quel mio cane è sempre rimasto con me, e lo è tutt’ora, anche dopo che mi sono separato da Lisa…perché è tutto ciò che mi rimane di lui: un’immagine imprigionata per sempre nella tela sulla quale ho fatto dipingere, come sfondo, miriadi di stelle e di pianeti, perché a me piacciono tanto, e quindi ho pensato che anche al mio Godzilla sarebbero piaciuti.


Era morto da tempo, quel cane, e da alcuni mesi io vivevo solo perché Lisa se ne era andata con la mia bambina, ma il quadro di Godzilla pendeva sempre appeso alla solita parete quando, svegliandomi, appena dopo l’alba, una mattina…

Passando vicino alla parete dove c’era il quadro, scorsi delle piccole impronte a terra… sì, impronte che singolarmente partivano dal muro e che chiaramente  non erano state lasciate da una persona, ma da un animale. Sembravano, per l’appunto, orme di cane.

Le guardai a lungo, e ricordo che pensai che dovevano essere le impronte di qualche animale randagio entrato in casa durante la notte, dal giardino. In effetti, quella fila di orme conduceva dritta proprio alla porta che dava fuori ma, quando uscii e curiosai tra l’erba che cresceva senza cura, non scorsi altro che un gatto ozioso, adagiato placidamente al primo sole, e non poteva certo essere stato lui a lasciare le impronte che avevo visto. Di conseguenza, forse, nel buio, un cane doveva aver scavalcato la cancellata ed essere entrato per poi uscire: mi sembrava strano, perché le sbarre erano alte più di un metro, ma non c’era altra spiegazione.

Rientrai in casa ma, quando tornai nel salone con uno straccio per cancellare le impronte ancora umide ed evidentemente lasciate da poco, non le trovai più.

Erano sparite.

Passarono altri giorni, e ogni mattina trovavo nuove impronte: tutte partivano dalla parete e portavano al giardino, ma dell’animale che le lasciava, non trovavo mai la minima traccia…e questo mi sembrava incredibile. Rimasi poi ancora più sbalordito quando, dopo aver chiuso per bene una sera la porta-finestra che dava sul giardino, al mattino successivo trovai egualmente le impronte che si fermavano esattamente davanti all’uscita bloccata.

Siccome questo mi sembrava impossibile, perché l’animale non poteva essere entrato da nessuna parte, indagai ancora e, incredibilmente, aprendo la porta del giardino, scoprii che là fuori, subito dopo l’uscio, le impronte riprendevano, perdendosi poi fra l’erba del piccolo prato: riprendevano, come se l’animale fosse passato attraverso la porta chiusa!

A questo punto, la curiosità in me crebbe a dismisura, anche se non provai mai paura: ma quello era ormai un mistero di cui volevo assolutamente trovare la soluzione.

Andato a dormire, misi la sveglia, insistente quasi quanto discreta, sulle tre e mezza del mattino e, quando giunse l’ora, mi alzai e, con estrema cautela, attraversai l’atrio a piedi nudi e mi affacciai nel salone. Guardai subito verso il muro, e vidi che, come al solito, le impronte si erano riformate: erano lì sul pavimento, umide e, come le altre volte, puntavano dritte verso la porta del giardino che avevo lasciato spalancata.

Al buio, strisciai fino alla finestra e guardai fuori: quello che vidi mi lasciò senza fiato per la sorpresa, mentre il cuore mi prendeva a battere rumorosamente per l’emozione.

Infatti là c’era il mio cane… il mio piccolo cane che avevo seppellito, stava nel giardino e, come aveva fatto tante altre volte quando era ancora vivo, giocava da solo tra l’erba e gli alberi, alla luce della luna, così vago e sfumato da essere quasi impalpabile…ma era lui, non c’era il minimo dubbio in proposito: era il mio cane!

O, meglio, era il fantasma del mio cane.

Già, perché Godzilla era morto e giaceva sotto l’erba, dove si vedeva il piccolo tumulo. Ma, al tempo stesso, era di nuovo lì, vivo, e camminava allegro da un capo all’altro del piccolo prato, in caccia di chissà quale gatto che solo lui, con i suoi occhi dolci spalancati su un mondo per me ignoto, riusciva a vedere.

Restai a lungo lì, acquattato dietro la finestra, a guardarlo mentre giocava, e gli occhi mi si riempirono di lacrime, ma non per il dolore, bensì per la gioia, perché il mio caro amico era tornato. Non mi mossi da lì finché il cielo non cominciò a farsi chiaro, e solo allora, vedendo che il fantasma del mio cane si girava e tornava verso casa, mi spostai e mi misi dritto in mezzo a quello che, sapevo, sarebbe stato il suo cammino.

Lui infatti entrò e mi vide subito. Si bloccò, ma non era intimorito e, per un lungo momento, restammo a guardarci: io e quel cane attraverso il cui corpo riuscivo a scorgere il pavimento e i mobili. Poi mi venne vicino, si strofinò contro la mia gamba come tante altre volte aveva fatto da vivo, e leccò dolcemente la mia mano che non lo osava accarezzare per paura di incontrare l’aria vuota.

Quindi si voltò e puntò di nuovo verso la parete, da dove le sue impronte umide già provenivano e, quando giunse davanti al muro, di colpo spiccò un salto e rientrò nel quadro dal quale era uscito…quel quadro in cui io l’avevo fatto raffigurare.

Solo allora mi resi conto del fatto che, fin dal primo momento in cui mi ero destato, quel quadro era stato vuoto.


Il fantasma del mio cane entrava e usciva da quel quadro tutte le sere, per tornare a giocare nel mio giardino, come aveva sempre fatto finché era stato in vita. Adesso che l’avevo capito, me ne andavo a letto presto ogni sera per potermi alzare nel cuore della notte senza problemi, e così gli stavo vicino mentre lui giocava nel giardino, oppure lo portavo addirittura fuori di casa e correvamo insieme lungo le strade vuote, come avevamo fatto tante volte insieme quando lui era in vita.

Poi, prima che sorgesse il sole, rientravamo insieme di corsa in casa e lui balzava di nuovo dentro il quadro, dove sarebbe rimasto, immobile, finché le tenebre non fossero tornate a distendere il loro manto su Makabria. Forse era stato proprio il buio disceso anche sul mio cuore a operare, senza che neppure me ne accorgessi in principio, l’incantesimo portentoso che gli aveva restituito la vita!

Un incantesimo d’amore…

E tutto proseguì così, per molto più tempo di quanto oggi non riesca a ricordare, finché, una sera, accadde una cosa nuova: il mio cane prese vita e si mosse dentro al quadro come era solito fare, ma questa volta non spiccò il balzo usuale, no! Si allontanò, invece, dentro il dipinto, verso l’orizzonte trapunto di stelle colorate, e lì si arrestò guardandomi come in attesa.

Mi chiamava.

Mi invitava.

Fu così che mi decisi e lo seguii dentro al quadro e, da quel momento in poi, non fu più lui a venire da me, bensì io ad andare da lui, perché nelle zone dipinte di nero di quel ritratto appeso alla parete… lì, io avevo trovato l’infinito.


Ora che vi ho detto del cane, posso parlarvi di Ornella, perché così chiunque potrà capire perché oggi ho fatto una cosa…quale, lo dirò dopo. Prima lasciate che vi parli di lei, che si chiamava Ornella e che era innamorata di me., tanti e tanti anni fa…

Ornella era dolce e gentile, ed era stata sempre piena di affetto e di premure nei miei confronti, ma le sue attenzioni mio annoiavano, e cercavo invece storie assurde e contorte al di fuori del legame che ci univa.

Ornella lo sapeva e soffriva, ma taceva… taceva, perché mi amava e, purtroppo, si rendeva conto che io non avrei mai ricambiato totalmente l’amore disinteressato che lei mi offriva: però si accontentava lo stesso. Già, lei si accontentava anche di questo pur di restarmi vicino, mentre io, al contrario, non mi curavo di far soffrire quella tenera creatura, quella ragazza che mi voleva bene e che era disposta a tutto pur di non lasciarmi uscire definitivamente dalla sua vita.

Eppure, in un certo senso, a mio modo anch’io le volevo bene, anche se a lei non l’avrei mai rivelato, perché Ornella mi si era subito arresa, mi si era completamente affidata, senza concedermi la gioia dell’ansia della caccia, la gioia angosciosa dell’incertezza, la gioia dell’emozione suprema dell’attesa. Per questo, ciecamente, stoltamente, io la trascuravo: e infatti, anche se le ero affezionato, sentimentalmente la ignoravo, e non riuscivo a capire che mai più avrei ritrovato in altre quello che lei tanto disinteressatamente in ogni momento mi dava. O, magari, era proprio per questo che me ne allontanavo: forse, in realtà, non volevo essere capito, e con lei quel rischio lo correvo…

Non mi disse neppure nulla di male… e avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto… il giorno in cui le spiegai che tra noi era tutto finito: sì, dal momento che la lasciavo, temevo che urlasse o supplicasse, e invece, come sempre, Ornella si comportò assai meglio di quanto pensassi. Disse che accettava la mia decisione, e che si sarebbe rassegnata se io non la volevo. Mi salutò e perfino sorrise, poi salì di corsa su un tram che ripartiva, lasciandomi lì solo in mezzo alla strada, a guardare allontanarsi la vettura sulla quale lei ora probabilmente piangeva.

Fu proprio su quel tram che si allontanava che la ricordo ancora, perché quella fu l’ultima volta in cui la vidi, e da allora è passato tanto tempo, e io mi sono sempre consolato delle traversie della vita sapendo che, in qualche parte del mondo, Ornella esisteva ancora e aveva mantenuto sempre libero per me un posto nel suo cuore.

Ma ieri un vecchio amico è venuto e, parlando della gente che ho lasciato nella città in cui prima di trasferirmi qui a Makabria sono vissuto, mi ha detto che Ornella… quell’Ornella… la mia Ornella… è morta da poco… e così anche quell’ultima illusione per me è finita.


Ora che sapete di Ornella e del cane, posso rivelarvi finalmente quello che ho fatto ieri, e così capirete perché adesso i loro destini si sono uniti incrociandosi di nuovo con la mia vita per diventarne finalmente una parte fondamentale in maniera definitiva.

Ieri ho fatto una cosa stupida e ridicola, lo so, ma l’ho fatta lo stesso e ne sono stato lieto, poiché, in fondo, così facendo, per qualche istante sono stato davvero felice, e un’altra illusione ha screziato di speranza l’orizzonte della mia vita, in questi ultimi tempi così tanto senza scopo.

Ho frugato infatti tra le vecchie foto dei tempi di scuola, tra le immagini ingiallite dei tempi che ormai se ne sono irrimediabilmente andati, e ho trovato alla fine quello che cercavo: una vecchia foto da me stesso scattata, che ritrae quella ragazza tanto dolce e devota… Ornella, come avrete già capito, Ornella che ora è morta come il mio cane, senza che io abbia mai potuto nemmeno conoscere dove sia stata seppellita.

Ho preso quella foto, vi dicevo, e ora che vivo solo e che nessuno può più discutere le mie decisioni, l’ho portata subito da quel mio amico pittore di cui vi ho già parlato e l’ho pregato di fare un ritratto anche di Ornella, così come prima glielo avevo fatto fare di Godzilla. Lui l’ha eseguito, e ne è venuto fuori un dipinto magnifico, anche se io mi sento un poco triste ogni volta che lo ammiro, perché sullo sfondo, per chissà quale oscura ragione, gli ho fatto ritrarre anche un tram che si allontana…quel tram giallo sul quale vidi Ornella uscire per sempre dalla mia vita.

Poi ho appeso anche questo nuovo quadro sul muro, accanto a quello del mio piccolo cane, e il portento si è ripetuto: perciò Ornella e Godzilla adesso vivono insieme a casa mia, ma non sono loro che raggiungono me ogni sera, uscendo fuori dalla tela… no, sono io, invece, che li vado a trovare, forse perché preferisco il mondo dei quadri a quello che trovo fuori dalla casa dove abito.

Allora, non appena scocca la mezzanotte, ogni sera balzo dentro al quadro che raffigura Ornella col fantasma del mio cane che mi segue, e insieme, tutti e tre passeggiamo per le vie di una città extradimensionale che è fatta solo di ricordi cari, di tempera e di colore.

Ma io non mi spingo mai oltre le ultime case, perché so che là incontrerei soltanto il grezzo retro della tela…ma sono felice lo stesso perché, pur se questo mondo è unidimensionale e tanto limitato, io sto di nuovo con Ornella e con il mio piccolo cane, e sento che entrambi mi amano, e sono felice perché so che in quell’universo di pace io li posso raggiungere ogni volta che lo desidero…

Così trovo la forza per lottare meglio contro la realtà quotidiana e, soprattutto, non mi si velano più gli occhi di lacrime quando odo abbaiare un cane o scorgo un tram che si allontana sferragliando.

Ma non posso comunque fare a meno di chiedermi: quando sarò morto, ci sarà poi qualcuno che nutrirà per me… abbastanza amore da mettermi dentro un quadro e ridarmi così la vita?

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Attivo nel fandom fantascientifico italiano dalle sue origini, è il più famoso autore italiano di film; il suo film più famoso è forse Scontri stellari oltre la terza dimensione (1978). Nel 1962 aveva creato quella che è considerata la prima fanzine italiana del genere, Futuria Fantasia. Dal 1995, a seguito della scomparsa del cinema di genere italiano, si è dedicato attivamente alla gestione del negozio Profondo Rosso, inaugurato nel 1989 a Roma nel quartiere Prati.