l gioco degli Immortali. È passato più di un anno dall’ultima volta che ci siamo occupati di questo romanzo di Massimo Mongai. Lo scrittore ha voluto consegnare al pubblico senza copyright Il gioco degli immortali e Memorie di un cuoco d’astronave. Qui abbiamo scelto di pubblicare, in modo del tutto casuale, cioè senza scadenze, proprio Il gioco degli Immortali. Siamo arrivati al quarto capitolo.

Capitolo 1

Capitolo 2

Il giovo degli immortali 3

Capitolo 3

All’età di 35 anni ho avuto un incidente stradale e poi sono morto. Subito dopo mi parve di essere in un ospedale, in una stanza vuota sei metri per sei. Una Voce disse: “Sono in attesa richieste.” — “Ho fame! Ho sete! Dammi del cibo!” dissi io e dopo un bel po’ la Voce fece apparire pane a prosciutto. Quello che chiedevo la Voce mi riforniva. Fino a quando si aprì la porta e fui immesso in un pianeta con due lune. Qui incontrai una tigre dai denti a sciabola, fui catturato dai predoni che mi trapassarono con una lancia e morii di nuovo. Mi ritrovai nello stesso ospedale e questa volta mi preparai. Se fossi stato ucciso, sarei resuscitato di nuovo? Non lo sapevo. Questa volta uscii e organizzai un accampamento e mi rifugiai in una grotta. Poi mi costruii una capanna. Dopo un anno, in fondo alla vallata, intravidi campi coltivati e un villaggio fortificato. Vicino al ruscello un gruppo aveva attaccato delle persone uccidendo gli uomini e violentando le donne. Avevo un fucile di precisione chiesto alla Voce e riuscii a uccidere molti di quegli ignobili. I due uomini superstiti da dietro un carro cominciarono a tirare frecce e verrettoni, ma tutti gli assalitori e tutte le donne morirono. Tranne una: era dura, bellissima e veloce e mi aveva salvato la vita. Io non ne so molto di lingue, ma quella che parlava lei era sicuramente di origine indoeuropea. Dopo un po’ di mesi riuscimmo a capirci e seppi che si chiamava Spiga di Grano, era una ballerina e una acrobata e al guado quella era stata la sua famiglia. Per tutto un anno cacciammo e facemmo l’amore tantissime volte, poi decisi di tornare a valle. Spiga voleva ammazzare Ut, il comandante del forte che aveva ordinato di violentare lei, sua madre e sua sorella. Ci travestimmo da Frati Cercanti. Due mesi dopo avevamo raggiunto il castello di Ut, dove Spiga di Grano si trasformò in Mora di Gelso, cambiando il colore dei capelli e della pelle. Disse: “Nelle cisterne del palazzo scioglieremo una piccolissima quantità del veleno sanguedivenanera.” La sera ci fu una vera battaglia, ma Ut fu catturato. E allora ho appreso che Spiga in realtà era stata rifiutata da Ut e per questo voleva vendicarsi e non era Ut che aveva dato ordine di uccidere la famiglia. Ma fu allora che lei mi colpì rabbiosa con uno stiletto, mi tagliò una grossa arteria e io morii un’altra volta.

Rinvenni nella stessa stanza dove ero rivissuto due anni prima.

Era identica.

— Sei in grado di comprendere? — disse la voce del computer.

Mi alzai e mi guardai intorno e addosso.

Ero di nuovo nudo, sotto lo stesso identico lenzuolo e sullo stesso letto di marmo delle altre due volte.

Tutto uguale, ogni particolare, soprattutto la mancanza di qualunque particolare umano. Avrebbe potuto essere uno qualunque degli altri due risvegli, potevo benissimo aver solo sognato. Certo, anche questo risveglio poteva essere un sogno. Ero lì, e questi erano i pensieri che mi si accavallavano nella testa. A quanto pareva ero ancora profondamente e totalmente coinvolto in quel folle gioco!

La rabbia galleggiò immediatamente, come la schiuma in un bicchiere di birra. Ma subito mi accorsi anche di quanto fosse inutilmente inconsistente, proprio come la schiuma.

— Sei in grado di comprendere? — ripeté la voce.

— Sì. — dissi stancamente, senza rabbia.

— Sono in attesa richieste.

Mi passai la lingua sulle labbra. Tutto ricominciava daccapo a quanto pareva.

Era tutto come prima. Tutto. Ma forse… mi venne una bellissima idea. Esitai.

— Sono in attesa richieste — imperterrita riprese la voce.

Mi chiesi anche se sarebbe andata avanti all’infinito, con lo stesso tono, se mi fossi rifiutato di fare richieste di qualunque tipo, per le due settimane che mi spettavano, o se avrebbe reagito in qualche modo.

— Voglio che Spiga di Grano appaia qui vicino a me. — dissi veloce e con il cuore in tumulto.

— Richiesta non pertinente.

Niente da fare, dunque. Sarebbe stato troppo bello per essere vero. Spiga di Grano era veramente e definitivamente morta. Non potevo non pensare che chi resuscitava me avrebbe potuto forse resuscitare anche lei. Anzi, senza forse. Solo che non voleva, evidentemente.

E questo a quanto pare sarebbe stato un prezzo costante da pagare finché ero “semi-immortale” a quel modo: l’impossibilità di non sopravvivere a coloro che si ama e che muoiono; chiunque avessi amato sarebbe sempre stato più “mortale” di me, almeno più vulnerabile di me; hai una diversa visione della vita, se sai che sei destinato a rinascere dopo la morte. Ma quanto sarebbe poi durato tutto ciò? Quante volte potevo rinascere?

Comunque, un motivo di più per smettere se possibile. Capii anche che l’unico modo per saperlo, l’unica cosa da fare per poter smettere quel gioco era continuare a giocare…

Mi misi l’anima in pace molto rapidamente. Non ci potevo fare nulla, potevo solo subire tutta la situazione. Ma quel luogo a questo punto mi sembrava orribilmente alieno.

Avevo quasi finito con il dimenticarlo, con il non pensarci più, di lì a poco avrei pensato anche di averlo sognato e di essere nato e cresciuto su quel pianeta.

Ed ora che mi si era riproposto tale e quale, mi spaventava. Meglio uscirne rapidamente. Così non persi tempo. E cominciai a chiedere.

Mi ricreai una casa intorno, con camera da letto e studio, bagno, cucina, salotto, finte finestre che dessero su un panorama gradevole, di foreste e montagne del pianeta: fossero o meno reali e “dal vivo” non lo sapevo e non aveva in fondo importanza.

Ordinai cibi che non mangiavo da due anni, come la pasta, il vino novello, la cioccolata!

Chiesi di nuovo bacheca e computer e mi organizzai di nuovo con il sistema degli schemi a parte e con pezzi di carta in cui elencavo oggetti e provviste e miglioramenti alla lista precedente.

Dovetti ricominciare da capo praticamente, cercando di ricordare cosa mi era stato più utile o del tutto superfluo, e cambiando di nuovo il mio atteggiamento, dato che negli ultimi mesi con Spiga di Grano mi ero calato a fondo nella vita e nella mentalità reale del pianeta, quindi non pensando più al mondo da cui provenivo ed alla sua tecnologia, che anzi cercavo di dimenticare.

Chiesi tanto per provare un vocabolario aggiornato della lingua di Spiga, il “verbaiz”, e, sorpresa-sorpresa, il computer me lo fornì. Il che mi fece venire in mente che forse, ormai, il computer poteva fornirmi i dettagli di ciò che già conoscevo almeno in parte.

E chiesi quindi delle carte geografiche della montagna in cui avevo la casa e del tragitto che avevo seguito fino alla città sul mare, e le ebbi.

Ma erano limitate per circa 10km ai lati della strada che avevo percorso. Per il resto, evidentemente me la dovevo cavare da solo. Non mi fornì altre mappe che non fossero quelle dei luoghi in cui ero stato.

Precisai meglio le armi, chiesi più caricatori per l’Uzi, e molto Apilex, un esplosivo molto potente. Chiesi altre sostanze chimiche specifiche, farmaci, veleni, droghe, molte sementi in più.

Ma, alla fine, mi accorsi che più o meno avevo le stesse cose dell’altra volta, muli compresi. Chiesi in più un cavallo, un purosangue arabo. In parte perché era un simbolo di potere e di ricchezza, in parte perché obiettivamente cavalcare un cavallo è una cosa diversa che cavalcare un mulo. Sulla terra montavo, non spesso, ma montavo.

Avevo fretta di uscire da lì. Come Dio volle il tempo passò.

Mi ritrovai come le altre volte, senza nessuna sensazione di continuità in una radura, questa volta molto più ampia, circondata da alberi raggruppati in più boschetti, come fossi in mezzo ad una prateria con molti alberi piccoli e stentati, ma non una vera e propria foresta.

Sembrava una zona del pianeta diversa, fatta di savane e di pianure più che di colline boscose o di montagne; in una zona più arida e lontana dal mare, almeno come primissima impressione.

Sistemai subito un doppio anello di mine antiuomo in un raggio di 300 e di 100 metri intorno a me, piazzai una MG carica su un grosso treppiede e non pensai più ad eventuali nemici.

Con una piccola escavatrice che avevo chiesto al computer cominciai a scavare un’altra fossa per una “cache” dove nascondere la maggior parte delle mie merci: almeno questa fatica me la evitai, stavolta; a lavoro finito portai l’escavatrice in una piccola forra e la lasciai lì.

Misi due giorni a fare tutto il lavoro. Poi smontai i due anelli di mine e caricai cavallo e muli di ciò che mi serviva. Lasciai liberi i muli in più, respirai a fondo, strinsi le redini del cavallo con la destra e l’Uzi con la sinistra e detti leggermente di sperone.

Per dieci giorni vagai nella zona, brulla e con poca vegetazione, senza incontrare traccia di umani e nemmeno di selvaggina. Cercavo di non pensare a Spiga di Grano, alla stanza del risveglio, a chi c’era dietro. Se ci pensavo impazzivo di paura e di rabbia. Se riuscivo a non pensarci potevo pensare meglio alla sopravvivenza ed al fascino della situazione che nella quale ero coinvolto, fascino che comunque non mancava.

Avevo un vago programma di sopravvivenza a base di caccia, e di esplorazioni nei dintorni, ma a parte gli uccelli, grossa selvaggina non se n’era vista; né si vedevano umani.

L’undicesimo giorno, a un’ora circa dall’alba, alzandomi in piedi sulla sella riuscii a scorgere in lontananza una luce, che poteva essere quella di un fuoco.

Lasciai i muli tutti fermi intorno ad un piolo cui legai le redini, all’interno di un rado boschetto di grossi cespugli, e mi diressi verso le luci, camminando e tirandomi dietro il cavallo con le briglie.

Con il binocolo a visione notturna riuscii a distinguere molto da lontano alcune figure in movimento e avvicinatomi ancora di più distinsi una carovana che stava spegnendo i fuochi notturni e che si apprestava a partire.

Sembravano commercianti, ma erano accompagnati da guardie armate di armi bianche e di alcuni fucili che ad occhio sembravano ad avancarica, a canna molto lunga, simili a quelli arabi del XVI e XVII secolo.

Ma non vedevo sugli affusti il tipico ingranaggio con il cane e la pietra focaia; quindi, dovevano essere di una tecnologia diversa da quella della polvere da sparo o comunque più evoluti delle armi cui somigliavano.

Ma fui emozionato e colpito a quella vista, perché si trattava comunque di armi “da fuoco”, che emettevano evidentemente proiettili sulla base di una qualche propulsione chimica, e che nelle mie precedenti vite sul pianeta non avevo visto; ma che indicavano come sul pianeta ci fossero diverse forme di civiltà, anche molto nettamente separate fra di loro.

Forse ne esisteva una tecnologicamente evoluta come quella terrestre?

Mi chiesi d’improvviso anche se il pianeta fosse lo stesso o se fosse lo stesso il tempo, l’epoca storica. Non ci avevo pensato prima! Chiunque fosse dietro al gioco, dato che ogni volta mi faceva apparire in un posto diverso, poteva benissimo farmi apparire in un “momento” diverso. Non era necessario padroneggiare eventuali “viaggi nel tempo”. Fra un risveglio e l’altro per quello che ne sapevo io potevano passare anche secoli! E che ne sapevo io che il pianeta fosse sempre lo stesso?

A questa domanda risposi di sì, quando intravidi le due lune, calanti sull’orizzonte, ma dalla parte opposta a quelle in cui me le aspettavo. Nei dieci giorni precedenti non le avevo notate perché non mi ero posto quella domanda. E poi avevano un tipo di orbita che le faceva anche scomparire contemporaneamente, quando entravano nel cono d’ombra del pianeta. La posizione diversa rispetto all’orizzonte però probabilmente stava a significare che avevo cambiato emisfero del pianeta questa volta.

All’altra domanda dovevo rispondere in un altro momento. Del resto, non avevo ancora avuto modo di sapere quale era il modo di determinare il tempo in quel pianeta. In che anno eravamo secondo quale civiltà, poi?

L’aspetto d’insieme della carovana era quello composito di tutte le carovane: gente che proveniva da tutte le parti del pianeta, evidentemente, anche se le guardie erano tutte dello stesso “ceppo” culturale, di aspetto vagamente mongoli ed evidentemente ottimi cavalieri.

Fra i mercanti ne riconobbi due che portavano abiti che avevo già conosciuto, in quella che, evidentemente, era solo un’altra zona dello stesso pianeta, con una civiltà diversa, e non un altro tempo o un tempo non molto diverso. Decisi di seguire la carovana per cercare di capire cosa mi conveniva fare e fu al terzo giorno, anzi nel corso della terza notte, che mi accorsi che stavano per essere attaccati.

Caso volle che gli attaccanti mi passassero vicino senza accorgersi di me, mentre io mi accorsi di loro. Non sapendo che fare, non feci nulla.

Gli attaccanti, appiedati, vestiti di pelli ed armati di archi e balestre sembravano indiani delle praterie, solo dai tratti più marcatamente negroidi, e più scuri di carnagione; e diversamente dagli indiani erano dipinti con colori mimetici e non con i rossi ed i gialli degli indiani delle pianure; ed indossavano abiti anch’essi a colori mimetici, a predominanza di verde e di marrone.

Sembravano un incrocio fra i Sioux delle praterie dell’Ottocento, gli Zulu dello stesso periodo e i soldati con gli abiti mimetici del XX secolo.

Sebbene le loro armi fossero evidentemente inferiori a quelle delle guardie della carovana, (solo archi e lance e niente armi “da fuoco”) erano però bene organizzati e soprattutto tantissimi. Avevo valutato le guardie armate della carovana in 50 circa, ma gli attaccanti saranno stati dieci volte quel numero.

Pensai subito che dovevo decidere ora da che parte stare: di lì a poco si sarebbe scatenato un bordello spaventoso e probabilmente non avrei fatto nemmeno in tempo a scappare. Decisi che, per il mio carattere, il commercio era preferibile alla mitologia guerresca e decisi di tenere per la carovana.

In preda alla calma dell’incoscienza e dell’esasperazione, salii sul cavallo, cui non avevo tolto le briglie, presi le bombe detonanti e luminose che avevo nelle bisacce e me le appesi a certi ganci della giacca che avevo previsto apposta, in modo tale che tirandone una con una mano sola si sarebbe automaticamente disinnestata la sicura: con un unico gesto potevo strapparla e lanciarla già armata; impugnai l’Uzi e caricai il lanciagranate portatile, poggiandolo di traverso sulla sella, fermandolo con un laccio; e in silenzio mi avviai, al trotto leggero, verso la carovana.

A cento metri dalle sentinelle una banda di guerrieri mi vide, ma non fecero in tempo a fare nulla. Mi misi le briglie fra i denti, spronai, lanciai contemporaneamente verso di loro una delle granate detonanti e luminose, e cominciai a galoppare lungo il fronte della carovana lanciando le altre, urlando e continuando a lanciare granate.

Le esplosioni erano assordanti ed accecanti!

Mi ero ricordato di quel tipo di granate, usate dagli agenti antiterrorismo della mia epoca: il loro scopo era spaventare, assordare e accecare i terroristi che tenevano in ostaggio qualcuno in un ambiente chiuso, e non quello di ferire; una di quelle granate ti poteva esplodere fra i piedi e al massimo avresti avuto una lesione al timpano, ma probabilmente saresti stato accecato e rintronato per molti minuti.

Feci cinquecento metri prima che il mio cavallo, colpito, cadesse sotto di me facendomi ruzzolare.

Riuscii a non farmi male e prima ancora di rendermene conto stavo lottando con il guerriero che mi aveva colpito il cavallo. Riuscii ad allontanarlo da me poi imbracciai l’Uzi che avevo ancora a tracolla e feci fuoco su di lui.

E dopo di lui su altri tre che mi correvano incontro urlando e brandendo asce e lance.

Raccolsi il lancia-granate e corsi verso le sentinelle della carovana, i cui occupanti si erano svegliati e stavano contrattaccando.

Sì, erano fucili ad avancarica, ma non mi ero reso conto di cosa e come sparassero: colpi singoli ma di cariche a mitraglia, e di qualcosa che quando toccava una qualunque superficie, sembrava, esplodeva; seppi dopo che si trattava di semi di “aza” una pianta del pianeta: quando la scorza del seme si rompeva per l’impatto contro un corpo vivente e l’interno del seme entrava a contatto con un qualunque liquido (ad esempio il sangue) provocava una esplosione e una dispersione delle spore al suo interno, che si comportavano quasi allo stesso modo; in altre parole una ferita anche di striscio con quell’arma era sempre mortale per un essere umano: si veniva letteralmente spappolati; scoprii che per ogni guardia c’erano tre o quattro serventi che ricaricavano, perché le armi erano in effetti dei veri e propri fucili ad avancarica. La carica esplosiva era data da un seme coperto da una pellicola ed immerso in una piccola quantità d’acqua: premendo il grilletto uno spillo bucava la pellicola, l’acqua faceva agire il seme che esplodendo ne espelleva diversi ad altissima velocità. Non era molto preciso oltre i cinquanta metri, ma entro quella distanza era molto ma molto peggio di una scarica di pallettoni. Cinquanta di quelle guardie con quei fucili erano abbastanza a fermare anche un numero maggiore di attaccanti, purché non fossero state colte di sorpresa. Ed a questo ci avevo pensato io.

Mi misi fra loro con il mio lanciagranate e li aiutai a respingere l’assalto. Nell’insieme, grazie al mio tempestivo intervento, fu un combattimento a distanza, tranne qualche punto in cui ci furono dei corpo a corpo, alla luce dei falò e del sole che ormai si stava alzando.

Alla fine di tutto il capo carovana si avvicinò al gruppo di guardie in mezzo al quale avevo combattuto e disse qualcosa che non capii a una delle guardie. Poi si rivolse a me e di nuovo non lo capii.

Glielo dissi nella lingua che mi aveva insegnato Spiga di Grano, il “verbaiz”.

— Ah, lo straniero parla la “comune” — disse rispondendomi nella stessa lingua che avevo usato io — …beh, pare che tu ci abbia evitato dei fastidi… come ti chiami?

Gli dissi che mi chiamavo Mosto.

— …ah …ed è il tuo nome pubblico?

Risposi che non capivo, e cominciammo così una lunga chiacchierata sui rispettivi usi e costumi, proseguendola davanti ad una tazza di tè.

I guerrieri della sua tribù usavano più nomi, per le diverse situazioni: di massima otto, quattro per il privato e quattro per il pubblico; più altri, variabili nel numero a piacere, più o meno segreti.

Finché fossi stato nella carovana, se volevo avere un minimo di vita sociale, non potevo permettermene meno di cinque, mi disse, anche se ero uno straniero.

Però non ero tenuto a dirli tutti, solo i tre fondamentali: il nome pubblico con cui tutti mi potevano chiamare e parlare di me, quello privato formale, da usare nei rapporti interpersonali e quello amichevole da riservare a pochi intimi.

La notte successiva, nel corso della tappa parlammo a lungo, andando avanti fino all’alba, seduti in circolo e bevendo oltre all’ottimo tè, che apprezzai molto, anche una specie di grappa. Ero stato evidentemente accettato, in quanto guerriero (erano una tribù di rinomati ed efficientissimi mercenari) ed in quanto persona cui erano debitori.

Per i Tao-tao-C’hing, questo era il loro nome, i miei nomi furono da allora in poi: Bomba-Bomba, come nome pubblico, Fido Uzi come nome privato formale e Tè Caldo, come nome amicale.

Il capo mi suggerì di considerare Mosto il mio nome segreto e di dirlo solo in rari casi e agli amici più cari o per le situazioni più delicate, inerenti ai miei segreti. E mi suggerì di inventarmi un altro nome segreto a scopi sentimental-sessuali, che ovviamente dovevo rivelare solo alle mie amanti.

Con i Tao-tao-C’hing, dopo aver recuperato i miei muli, raggiunsi due settimane dopo la città di Bulbo Verde, la Città dei Floricultori.

Era una città nella quale si coltivavano oltre 4000 specie di piante, tutte di una qualche utilità per una qualche arte umana, dalla pittura all’omicidio, dalla tessitura alla divinazione. I prodotti di Bulbo Verde andavano ovunque. Poteva essere una buona base nella quale stabilirmi per cominciare a fare ricerche sul pianeta.

Barrito Blu, questo era il nome privato del capo della scorta dei Tao-tao-C’hing, aveva deciso che mi era debitore e che mi avrebbe ospitato lui per la durata della sua permanenza a Bulbo Verde, circa un mese.

Ed io mi guardai intorno per cercare di capire cosa potevo fare in quel pianeta ed in quella nuova vita.

La città era veramente strana. Abitata da circa 40.000 anime, di tutte le razze del pianeta, aveva non meno di 4000 serre e oltre 6000 appezzamenti di terreno nei quali venivano coltivate le piante più incredibili. Della sola “aza”, la pianta dai semi esplosivi, esistevano oltre 40 varietà: da quella con i semi microscopici, che davano origine a piccole pistole lancia-aghi, tascabili e letali solo a distanza ravvicinata, a quelle più grandi, per la caccia grossa, con semi della dimensione di una noce di cocco. Mi dissero che servivano per la caccia a certi animali del sud, specie di lucertole lunghe 40 metri!

Per non parlare delle droghe. Riconobbi una pianta simile alla marijuana, e dei funghi che, da quello che mi dicevano, facevano sembrare il peyote un omogeneizzato da bambini; le variazioni sul tema delle droghe vegetali erano infinite.

Barrito blu mi offrì di restare con lui, come guardia, ma la guerra non faceva per me, anche se lui non ci voleva credere.

— Tè Caldo, amico mio, tu sei un assassino nato lasciatelo dire, sbagli a non venire con noi!

— Ti ringrazio, Picchio Blu — questo era il suo nome amicale, ovviamente — ma proprio non me la sento, anche perché, vedi, io… sono nuovo di qui…

Lui capì “della zona” e stava per rispondere, quando io mi spiegai meglio. Gli raccontai la mia storia, quella vera, della stanza bianca, delle resurrezioni e tutto. Non so perché lo feci, tutto d’un fiato. Sentivo, confusamente che forse mi poteva aiutare.

Si irrigidì. Si guardò intorno, si alzò per controllare se ci fosse qualcuno alla porta, tornò indietro mi sedette vicino e prese a parlare a bassa voce al mio orecchio. Mi disse che aveva sospettato che fossi un “Immortale”, ma che stessi attento con chi parlavo di queste cose.

Questo naturalmente mi eccitò oltre ogni limite! Anche da quelle parti c’erano altri come me, dunque e c’era qualcuno che ne sapeva qualcosa!

Barrito Blu parlò a lungo quella notte. Mi disse che nella maggior parte delle Pianure sarei stato messo alla tortura appena scoperto: questo era il destino che i Popoli riservavano agli Immortali, non l’avevo ancora scoperto?

Dato che tutti sapevano che era inutile ammazzarci, perché ritornavamo a nuova vita, per invidia dichiarata (o per obbedire ai vari dei ed ai loro sacerdoti) venivamo torturati e tenuti in vita sotto tortura finché non impazzivamo completamente, il che poteva richiedere per i più robusti anche un paio d’anni.

Lui non era superstizioso ma tutti dicevano che gli Immortali portavano sfortuna e dove arrivavano loro scoppiavano sempre dei problemi. E che molti popoli credevano che noi fossimo angeli-demoni mandati a controllare cosa facevano gli umani, per conto degli Dei Nascosti, che erano probabilmente gli dei più potenti ma di cui nessuno sembrava sapere molto. Lui, però, era uomo di mondo, che aveva molto viaggiato e che conosceva troppe lingue e troppe genti per non sapere che chi era dio in un luogo era spesso demone in un altro.

Stessi comunque molto, ma molto attento a non farlo sapere mai a nessuno che ero un Immortale: avrei potuto pentirmene per molte delle mie vite. Gli chiesi tutto quello che sapeva e che mi poteva dire sulla mia condizione. E lui purtroppo non fu abbastanza esauriente. Ma comunque mi disse una enorme quantità di altre cose.

Nessuno sapeva chi fossimo o da dove venissimo. Ognuno di noi raccontava storie diverse e tutte assurde, ma chiaramente venivamo da altri mondi, da altre vite, comunque da un qualche “altroquando” fuori da questo mondo. Quelli come me, arrivati da poco, imparavano rapidamente. Non solo eravamo Immortali nel senso che, morti, tornavamo immediatamente a nuova vita in un nuovo corpo in un altro luogo, a volte distante dal luogo in cui il primo era morto, ma a volte vicinissimo; ma eravamo anche resistenti a qualunque malattia, a molti veleni, a tutte le maledizioni; le nostre ferite guarivano rapidamente, e il fatto di avere sempre nuovi corpi a disposizione garantiva una eterna giovinezza; con l’esperienza di molte vite, si favoleggiava in certe contrade del pianeta, finivamo con il diventare potenti, ricchi, e maniaci del potere.

Sembrava che potessimo invecchiare molto più lentamente degli altri esseri umani e conseguentemente vivere fino a diventare vecchi, sì, ma molto molto a lungo, nessuno sapeva quanto. Si diceva ce ne fossero molti, attaccati alla vita e ormai paurosi della Rigenerazione, e potenti e cattivi quando erano vecchi. C’era chi diceva che esistesse una Gilda Segreta degli Immortali, e di tanto in tanto qualcuno veniva messo al rogo qua e là in giro per il Pianeta, accusato di farne parte. Lui non credeva che fosse vero: se fosse stato vero, una Gilda così avrebbe potuto prendere il potere in ogni città.

Chiesi quanti fossero gli Immortali, a quel che ne sapeva lui. Rispose che nessuno lo sapeva con esattezza: ogni anno ne venivano messi a morte moltissimi, a migliaia forse, ma molto probabilmente non tutti lo erano, anzi, pochi e quasi tutti “nuovi” come me, che non avevano ancora imparato a nascondersi. Anche l’immortale più scemo alla sua terza o quarta morte imparava a nascondersi al meglio. Per noi era proprio il caso di dire: t’ammazzo, così impari! Ma chi ci aveva creato? Chi ci rimetteva ogni volta al mondo? Chi c’era dietro quella stanza in cui rivivevo? Lui mi disse di non saperlo. Non volle sapere niente delle mie esperienze con “la macchina”, e mi fermò subito quando cominciai ad accennare ai miei risvegli, sostenendo che anche se non era superstizioso, ciò che non sapeva non gli poteva fare male.

Mi disse, che in una terra lontana, una volta aveva sentito una leggenda che parlava di noi, come di angeli caduti perché avevamo voluto sfidare l’ira degli Dei Nascosti, e che c’era in atto una guerra fra noi e gli angeli rimasti al fianco di dio, o degli dèi, che fossero. Noi, i demoni, lottavamo contro di angeli, che erano invisibili e gli dèi parteggiavano ora per loro ora per noi. Eravamo pedine di un gioco plurimillenario, in cui gli altri esseri umani del pianeta erano solo il contorno e forse i nostri discendenti. Mi disse anche di aver sentito questa leggenda altre volte, altrove, in molte altre versioni e che l’unico punto in comune, sempre, era che noi eravamo coinvolti in un gioco. Come fossimo solo pedine, appunto, e ci fosse qualcuno che ci muoveva, a volte gli uni contro gli altri, a volte contro questo o quel re del pianeta.

Parlammo a lungo, quella notte e ciò che mi disse fu doloroso: venivo infatti ricalato in una esperienza esistenziale, complessa, folle sì, ma con una sua logica interna, sequenziale alla mia vita ed alla mia prima morte, quella avvenuta all’ospedale vicino a casa mia.

Da qualche parte nell’universo, in un momento del mio passato, per chissà quale motivo, qualcuno mi aveva coinvolto in questa storia.

Se nella mia casa nei boschi avevo tentato di dimenticare tutto, e forse ci sarei anche riuscito, per lo meno fino a che non fossi morto, ora tutto tornava dolorosamente a galla; il mio destino, la mia dignità e libertà di essere umano erano messe in discussione da quell’essere un burattino nelle mani di una specie di semidio (o di semidei) potente come mai nessun essere umano e nessun dio partorito da mente umana era mai stato nella realtà.

Era doloroso, ma al tempo stesso stimolante. Non credevo più di essere vittima di un incubo partorito dalla mia mente, come spesso avevo pensato, ma vittima di un gioco partorito dalla sadica volontà di qualcuno. Di reale, di esistente.

Poco prima di partire Barrito Blu mi disse che, sapendo che ero un Immortale, era contento che avessi scelto di non accompagnarlo, ma che mi augurava tanta fortuna.

Quando Barrito Blu fu partito, mi sentii veramente solo. Era stato il mio primo amico in quella nuova vita, ed avevo scoperto con lui che difficilmente avrei potuto averne tanti, per quanto a lungo potessi ancora vivere in quella o in tutte le altre vite.

Dovevo imparare di più sugli Immortali e scoprire se la Gilda esisteva o meno. E per riuscirci dovevo prima di tutto inserirmi. Per fare questo dovevo trovare un lavoro, una ragion d’essere, un qualche “ubi consistam”, su quel pianeta pazzo e affascinante, e possibilmente arricchire.

Mi guardai intorno a lungo a Bulbo Verde. La città era ricca, grazie ai suoi commerci, e governata da un Console, eletto da 300 anni dalle Gilde dei Mercanti e dei Proprietari delle Serre, e restava in carica per un anno.

Gli eletti erano sempre e solo gli appartenenti alla Gilda dei Vetrai, che fornivano vetri (di cui solo loro conoscevano i segreti) di diversi tipi per le serre a tutti, e gli elettori erano solo i più ricchi fra i Mercanti e i Proprietari delle serre.

In pratica una repubblica oligarchica capitalistica, che, per il livello locale del pianeta era già un buon livello di democrazia, tutto sommato.

Tutto funzionava: commerci, coltivazioni, difesa, tutto era poggiato su un equilibrio di poteri e di interessi che arrivava a garantire al popolo, fatto in maggioranza di emigranti di prima e seconda generazione, un discreto benessere.

Decisi di fare il medico. Avevo portato con me non solo una notevole scelta e una notevole quantità di sostanze chimiche, di droghe e di farmaci; ma anche molti libri, condensati sotto forma di dischetti ultra densi per computer e due computer portatili per leggerli.

Nei libri si parlava non solo dei farmaci ma anche delle tecniche per riprodurli, per lo meno per riprodurre quei dieci, quindici tipi di farmaci fondamentali della farmacopea del XX secolo da cui poi derivavano migliaia di specialità.

Il computer, che aveva bisogno di poca corrente elettrica a basso voltaggio, era alimentato da celle solari e quindi non si sarebbe mai esaurito. Se si rompeva c’era il secondo, se si rompeva anche il secondo, beh potevo buttare tutto. Ma intanto qualcosa avrei potuto comunque fare.

Uscii dalla città e mi inoltrai nel deserto. Tornai alla radura da cui ero partito, estrassi dalla “cache” ciò che mi serviva, riutilizzando l’escavatrice sia per aprire che per ricoprire il buco, e mi organizzai per tornare indietro.

Mi truccai, cambiando il colore ai capelli, nel modo più drastico: rasandoli a zero, come usavano fare i saggi ed i medici in quell’area; cambiai il colore della pelle, scurendomela con una crema speciale, stabile, che poteva essere neutralizzata da un’altra, cambiai abiti e rientrai in città fingendo di essere Aarghionte, medico esperto e grande guaritore di Utmamor, una terra così lontana che non era strano che nessuno ne avesse sentito mai parlare.

Presi alloggio in una locanda e cominciai piano piano a farmi una clientela, curando dapprima gratis i poveri, poi a basso prezzo un po’ tutti, poi diversificando prezzi e prestazioni in tre studi diversi della città.

Per evitare di urtare troppe suscettibilità feci in modo di contattare umilmente i vari medici della città, donando loro piccole quantità delle mie medicine e delle mie droghe, instaurando rapporti di “buon vicinato” per così dire, riuscendo con l’oro che avevo con me, là dove non riusciva la diplomazia.

Dopo un po’ di tempo fui accettato nella Gilda dei Medici e cercai di far di tutto per raccogliere informazioni sugli Immortali, sempre senza parere, sempre frequentando soprattutto mercanti di passaggio, gente che non aveva e non avrebbe avuto amici e conoscenti nella città.

Bulbo verde e la mia funzione di medico erano l’ideale da questo punto di vista: per la città transitavano ogni anno migliaia di mercati provenienti da tutte le zone del pianeta; e quasi sempre, quando arrivavano in città fra loro c’erano persone ammalate o ferite e bisognose di cure.

Io cercavo in tutti i modi di entrare in confidenza con i capi delle carovane per sapere da loro tutto ciò che potevo non solo sugli Immortali, del resto, ma anche sugli altri popoli e civiltà del pianeta, per farmene un’idea sempre più precisa e sempre cercando di capire se da qualche parte esisteva una civiltà tecnologicamente evoluta.

Mi formai anche un’idea più precisa di come fosse fatto il pianeta. Soprattutto sembrava enorme. I geografi di molti luoghi e di molte civiltà locali erano molto progrediti: non solo sapevano benissimo che il Mondo (ovviamente questo era il nome del pianeta nelle varie lingue) era tondo, ma ne conoscevano anche il diametro all’altezza dell’equatore: oltre 80.000 chilometri, ossia più del doppio di quello della Terra.

Il che significava che quel pianeta (che oltretutto sembrava avesse un rapporto fra terre emerse ed oceani più favorevole alle prime rispetto alla Terra) aveva una superficie abitabile dalle sei alle otto volte quella della Terra! Quanti abitanti potesse avere non ne avevo idee; nessuno ce l’aveva. Ma di certo poteva ospitare tranquillamente una popolazione dieci volte quella della Terra.

Dai mercanti non seppi sugli Immortali molto di più di ciò che mi aveva detto Barrito Blu, dato che evidentemente l’argomento era considerato o una leggenda o un argomento pericoloso e da evitare.

Raccolsi una massa enorme di leggende evidentemente improbabili, anche a voler considerare degli elementi in comune. Una di queste diceva che noi Immortali eravamo tutti figli di un demone re dei demoni chiamato “Belzebobbo” e che eravamo stati cacciati da un giardino meraviglioso per aver voluto mangiare un frutto proibito! E molte altre erano quelle che facevano riferimento a questa o quella leggenda o religione terrestre.

In realtà, a parte pochi dati di fatto, i mortali del pianeta non sembrava sapessero quasi niente sugli Immortali. Nessuna delle leggende che trovai, ad esempio parlava di quella famosa “stanza d’ospedale” in cui mi ero svegliato tre volte. Il che voleva dire o che ci ero passato io e pochi altri, o che tutti gli Immortali tendevano a non raccontare i fatti loro. Ed un motivo, in tal caso, ci doveva essere.

Rimasi tranquillo a Bulbo Verde per oltre tre anni. Mi ero organizzato benino: un bel palazzo, molti servi e molti assistenti, diverse concubine.

Ero ricco e discretamente potente e avrei potuto andare avanti per molto tempo ancora; ma commisi un errore che mandò tutto all’aria. Mi feci notare troppo, quando iniziai ad insegnare ciò che sapevo di medicina.

Fondai una vera e propria università, una scuola medica, e con l’aiuto dei testi, delle droghe e dei farmaci che avevo con me (in quantità limitata, certo, ma pur sempre sufficiente) iniziai a formare sia dei medici sia dei biologi e dei chimici.

C’era voluto del tempo, ma avevo insegnato a dei traduttori la mia lingua e li avevo messi a tradurre e a copiare in lingua “comune” tutti i testi dei miei computer (preventivamente stampati con una stampante anch’essa alimentata a celle solari) per avere dei testi su cui insegnare e da lasciare a futura memoria per gli abitanti del pianeta. Da quella scuola sarebbero nati chimici, biologi e medici che sarebbero stati in grado almeno di produrre da soli antibiotici ed anestetici, oltre a nuove regole di medicina.

Urtai inevitabilmente, con la mia scuola, quelle suscettibilità che non avevo urtato come medico. Molti medici cominciarono a parlar male di me; e più guarivo, più insegnavo, più la cultura medica che volevo diffondere si diffondeva, più loro mi calunniavano e suggerivano che se ottenevo tante guarigioni era evidente che ero uno stregone di qualche genere.

Ero diventato così potente che fui avvelenato. Credo che ad avvelenarmi sia stato qualcuno della mia stessa scuola, per invidia: forse un giovane studente inviato da un medico della città come infiltrato. In realtà mi aspettavo prima o poi qualcosa del genere. Solo avevo paura di essere messo in mezzo come Immortale più che come pura e semplice vittima di una “Congiura di Palazzo”. Ero a cena con dei Mercanti. Nel dolce che fu servito ci doveva essere veleno a sufficienza per sterminare un plotone di elefanti: due degli ospiti morirono appena messa in bocca la forchetta, dopo che io ne avevo mangiato già tre bocconi. I crampi presero anche me, e durarono due ore. Scoprii in quell’occasione che essere Immortale dà una certa resistenza ai veleni, oltre che alle malattie, ma vi assicuro che morire è sempre morire. Una brutta esperienza che ripetevo per la terza volta.

Non mi ci ero ancora abituato e mi convinsi definitivamente in quella occasione che non mi ci sarei abituato mai. Anzi: è molto peggio veder arrivare la morte la terza volta.

La prima volta può essere liberatorio, indifferente, quasi gioioso, io credo, quando arriva dopo una vita spesa bene e senza troppi rimpianti.

Non c’è dubbio che se si mette un po’ di attenzione si sa che si sta morendo. Nessuno è mai tornato per confermare quello che vi sto dicendo, ma credetemi, è proprio così: chi sta per morire, se vuole, lo sa.

E quando lo sai per la seconda o terza volta non è più leggero, anche se sai che ti reincarnerai, come avrei dovuto saperlo io.

Ma io non lo sapevo, meglio ancora, il mio corpo non ci credeva che sarebbe rivissuto.

Quindi, credetemi, più volte si muore, peggio è.

TITOLO: Il gioco degli immortali
AUTORE: Massimo Mongai
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CURATORE:
NOTE: Liber Liber ringrazia l’Autore e la Arnoldo Mondadori Editore per averci concesso i diritti di pubblicazione.
DIRITTI D’AUTORE: sì
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

Massimo Mongai
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È divenuto noto con la fantascienza umoristica vincendo il premio Urania nel 1997, per poi dedicarsi anche al giallo e al noir. Prima di diventare scrittore a tempo pieno si è dedicato a varie occupazioni, tra le quali 'art' e poi copywriter, in qualità di freelance, per varie agenzie pubblicitarie- Morì prematuramente a Roma, il 1º novembre del 2016