In occasione del mio compleanno mi scrive Mary Robinette Kowal:

Buon compleanno, Franco!
Per te ho un racconto in regalo. È stato originariamente pubblicato nell’antologia “Robots vs. Fairies“ col titolo Sound and Fury. Ancora auguri.

 

I motori della nave mandavano una vibrazione attraverso le suole di Jela Dedearian. Rumore particolarmente più intenso nei pressi della sala motori. Per la miseria, era esausta. Avrebbe solo voluto accoccolarsi con il suo gatto e un buon romanzo da leggere, e questo turno sembrava proprio non finire mai.

Si sfregò il viso con entrambe le mani appoggiandosi un momento al muro dell’hangar. “Tutto bene, Okeke. Controlliamo le imbracature.”

Okeke annuì, i dreadlocks le ondeggiarono sulle guance. “Adesso controllo il robot gigante.”

“Il Surrogato Personale Diplomatico.”

Okeke fece una smorfia. “Sì. È quello che intendevo.”

“Certo.” Il capitano avrebbe fatto loro un bel sermone se li avesse sentiti parlare male della missione, ma accidenti… La Diplomatica Foenicul rendeva maledettamente difficile essere rispettosi. E poi Jela non era per niente d’accordo con la politica di espansione del Consorzio dei Mondi.

“Allora… Capo. Ce la faccio da sola.” Okeke sollevò la testa dalla cinghia di sicurezza che stava provando. “Puoi andare a dormire.”

“Ah, so che ce la puoi fare. Sono certa. Però, che le venga un bene, la Diplomatica Foenicul ha ben chiarito che sarebbe più a suo agio quando se ne interessasse il capo ingegnere.” Spalancò gli occhi al massimo e assunse un’espressione di finta innocenza. “E infatti sono chiaramente l’unica in tutta la nave che sa come smanettare su un robot gigante.”

“Ma lei non è qui.”

“Ma lo sarà.” Jela si massaggiò la fronte nel punto in cui le pulsava un dolore fastidioso. “Ma tranquilla, nel momento in cui scenderete sulla superficie, ho un appuntamento col letto e col mio gatto.”

“E Sadie come sta?”

“Parecchio irritato.” Le cinghie erano a posto e non c’era motivo per continuare i controlli, anche se Guadalupe Foenicul insisteva a volere “il meglio.” Il che significava che Jela, dopo aver fatto i turni doppi per il lavoro che doveva fare, era anche obbligata a seguire le inutili faccende della diplomatica. E per avere cosa? Per poter inserire il nuovo pianeta nel mazzo? “E tu? Ad Adika va bene se tu scendi sul pianeta?”

“Se gli riporto un souvenir, gli andrà benissimo. E con souvenir intendo un sasso. Quel bambino… alla fine avrà una collezione di rocce che sarà l’invidia dei geologi di tutta la galassia.”

“Forse potrà vendere diritti minerari per…”

Si spalancarono le porte del vano di carico e la Diplomatica Foenicul entrò svolazzando, seguita dalla sua assistente e dalla Capitana Afaeaki. La diplomatica aveva ali sottili che le permettevano di restare a livello degli occhi della capitana, anche se i suoi piedi erano sollevati di un buon un metro da terra. La capitana teneva le labbra strette, il che significava che non era affatto felice. Era chiaro, che Jela non era l’unico membro senior a cui veniva chiesto di fare lavori al di sotto del suo livello. Jela non smetteva di ripeterselo: era solo per quella missione. E se non fosse stata lei a far quel lavoro, qualcun altro avrebbe comunque soddisfatto l’insaziabile ingordigia del Consorzio.

“Bene! Capo Ingegnere Dedearian. Siamo pronti?”

Che cavolo, mancava un’ora alla partenza. E poi… Perché quel ‘siamo’? Come se fosse previsto che Jela dovesse avvicinarsi anche solo lontanamente alla superficie. ‘Siamo’ chi? “Sì, signore. Sarà in buone mani con la Tenente Okeke.”

“Eccellente.” La diplomatica unì le dita, premessa di un imminente sermone. “Questa è una nuova e audace era per il rapporto tra gli esseri senzienti nel cosmo. Spero che…”

Jela sorrise e annuì, ignorando a quel punto l’intero discorso di Foenicul. Sarebbe stato bello non avesse cominciato a parlare, ma Foenicul era tristemente prevedibile. Perfetto. Era importante che il Consorzio dei Mondi stabilisse una base sul pianeta, ufficialmente per i “diritti minerari”, ma in realtà perché avevano bisogno di un punto d’appoggio. E per quanto Foenicul irritasse Jela, la diplomatica aveva un notevole record di negoziazioni di successo. E questa volta era coinvolto anche un robot gigante, perché “i nativi hanno un pregiudizio inconscio legato alla statura”.

Adesso il robot era sceso dalla nave e Jela poteva permettersi di crollare, Sadie si sarebbe piazzata sulla sua schiena a impastarle con le zampe i muscoli doloranti sotto le scapole e Jela avrebbe fatto in modo di non partecipare mai più a una missione diplomatica. Ti prego, Signore, fa che tutto vada come deve.

La donna percorse il corridoio verso la sua cabina e con la mano sfiorava il muro. Non perché fosse così stanca da poter cadere, ma perché era quasi arrivata a esserlo. Il suo dispositivo di comunicazione emise un bip.

Il tono eccessivamente allegro di quel bip le fece entrare un punteruolo gelido nell’orecchio che le si bloccò proprio dietro agli occhi. Jela si fermò in mezzo al corridoio e chiuse gli occhi. Lo stupido robot gigante era fuori dalla nave e lei voleva solo dormire.

Sul comunicatore da polso, comparve molto chiaramente il nome della capitana. Non poteva ignorarla. Toccò il comunicatore. “Qui Dedearian.”

“Potresti, per favore, venire sul ponte?” La voce della Capitana Afaeaki suonava preternaturalmente calma. L’unico momento in cui la donna era tanto formale era se la situazione diventava davvero orribile, di traverso e spiaccicata sul muro.

Jela invertì la rotta, tornando indietro per il corridoio e verso l’ascensore. “Arrivo. Puoi aggiornarmi su cosa è successo?”

“I comandi del Surrogato Personale Diplomatico non si collegano correttamente. La Diplomatica Foenicul pensava che tu possa avere un’idea.”

“Puoi specificare cosa significa ‘non si collegano correttamente’?”

“Non sono un ingegnere, ma ci posso provare.”

Jela sussultò. Ora la capitana era davvero arrabbiata, ma probabilmente la Diplomatica Foenicul le stava addosso. “Grazie, dimmi quel che puoi.”

“Il pianeta mostra delle insolite distorsioni atmosferiche. Al momento si pensa che questo possa interferire col nostro segnale.”

Il che non era affar suo. Jela premette il pulsante dell’ascensore. “E su questo cosa ha detto Conteh?”

“Ha fatto diversi tentativi per risolvere, ma a quel punto la Diplomatica Foenicul ha chiesto di te.”

“Vedo se si può potenziare il segnale e…” Alla capitana non importava un accidente di tutto questo. “Ce la faremo. Sono sull’ascensore. Sarò al ponte in tre. Dedearian chiudo.”

Jela premette il pulsante per il ponte, appoggiandosi alla parete dell’ascensore. Il ronzio e il movimento della cabina le diede una vertigine. Chiuse gli occhi, un attimo.

Il sibilo delle porte che si aprivano la fece rialzare. Jela mise a posto la camicia della divisa mentre si avviava sul ponte. Conteh, l’ufficiale delle comunicazioni, catturò il suo sguardo e alzò gli occhi al cielo. Era uno che sapeva il fatto suo e aveva probabilmente già verificato ogni regolazione possibile. Jela non avrebbe usato nessuno dei mille insulti che facevano parte del suo arsenale.

La Capitana Afaeaki pareva scolpita dal granito. La mascella bloccata in una linea dura. Jela si voltò verso la Diplomatica Foenicul facendo il saluto militare. Fu ricompensata da un sollevarsi appena percettibile del sopracciglio della capitana. Bene. Almeno sapeva che anche per lei questa era una montagna di stronzate.

“Ingegnere Capo Dedearian. Grazie per la tua pronta presenza.”

Tutti i titoli completi, eh? Ma molto bene. Dannati diplomatici. “Capitana Afaeaki, attendo ordini.”

“Se te la sentissi di assistere la diplomatica.” Indicò la Diplomatica Foenicul, che era dietro alla console allestita sul ponte. Jela aveva detto a suo tempo che l’hangar sarebbe stato un posto migliore per sistemare la console perché era più vicino alle apparecchiature e non in mezzo ai piedi della capitana, ma evidentemente questo non era giusto per… qualche ragione.

“Certo. Vediamo cosa possiamo fare per potenziare il segnale.”

Dopo il suo terzo viaggio nella sala motori, il che era esattamente il perché sarebbe stato meglio l’hangar per la console, Jela aveva esaurito il suo repertorio di trucchi. Tranne uno. E non voleva usarlo, perché dannazione, sapeva bene a chi sarebbe stato assegnato il compito. Inoltre, se la missione avesse dovuto casualmente fallire a causa di un “disturbo atmosferico insolito”, quella soluzione non sarebbe mai stata un suo merito. Si risollevò da sotto la console pulendosi le mani in uno straccio. “Niente da fare. C’è qualche possibilità di aspettare la fine della tempesta?”

La diplomatica Foenicul fece con le mani un gesto per negare tale possibilità. “I leader Krowrehto si aspettano il nostro arrivo, e hanno già visto l’atterraggio della navetta.”

Con un sospiro, Jela risistemò lo straccio nella cassetta degli attrezzi. Ai leader Krowrehto era stata raccontata una balla su come il Consorzio poteva migliorare il loro mondo, quando in realtà il Consorzio intendeva solo spogliare le loro risorse per far soldi. Proprio come aveva già fatto con il suo pianeta natale. “L’unica cosa che non abbiamo provato è di installare un’antenna satellitare in superficie per potenziare il segnale.”

“Ma perfetto!”

“Però…” Jela catturò lo sguardo della capitana e attese che lei la guardasse. “Ma l’azione più affidabile sarebbe mandare la console di controllo sulla superficie.”

“Ahimè. E tuttavia io non posso rischiare di far loro vedere quanto sono piccolina. Ma mi hai dato una bella idea.”

Ma certo. Quest’azione avrebbe fatto capire subito ai “nativi” che il Consorzio mentiva. E quello non era un pensiero che Jela potesse esprimere ad alta voce.

Svolazzando più in alto, la diplomatica Foenicul girò le palme in segno di ringraziamento. “Quando puoi partire?”

“Dipende dalle esigenze della capitana. Sono responsabile di tutta la nave, e questo è un compito che può essere facilmente delegato a qualche altro tecnico, per esempio a Okeke, che è già in superficie.”

“Oh, ma Okeke non è stata capace di risolvere il problema e con negoziazioni così delicate, ho bisogno del meglio.” La diplomatica Foenicul abbassò lo sguardo. “Niente di personale nei confronti della tenente Okeke, davvero, ma sicuramente sai bene quanto il Consorzio dei Mondi abbia bisogno di te.”

In piedi, un po’ dietro la diplomatica, la capitana Afaeaki roteò gli occhi, e quello fu l’unico motivo che trattenne Jela da uno scatto. La capitana capiva quanto il Consorzio “avesse bisogno” di chiunque. Sebbene fossero tecnicamente una nave indipendente, rifiutare un incarico del Consorzio aveva la strana tendenza a trasformarsi in un’accusa di tradimento. “Hai i tuoi ordini, Capo Ingegnere Dedearian.”

“Sì, signora.” Jela fece il saluto e uscì dal ponte. Avrebbe dovuto chiedere a qualcuno di dare da mangiare a Sadie mentre conduceva la missione più inutile dell’universo.

In circostanze normali, Jela si sarebbe senz’altro diretta tranquillamente verso il pianeta, ma dopo una settimana di turni doppi e una notte in bianco, non si sentiva sicura di riuscire a restare sveglia per altre due ore. Di bello c’era che, con Sal ai comandi, poteva farsi un pisolino durante il viaggio verso il basso.

Solo il cambiamento nel rumore del motore disse a Jela che erano a terra. Aprì gli occhi e si raddrizzò sul sedile. “Viaggio eseguito con la tua consueta morbidezza, vedo.”

Al suo fianco, i tentacoli di Sal si arricciarono di gioia. “Grazie, signora.”

“Spero ti sia portato un libro.” Jela si sfilò la cintura di sicurezza e si alzò dal sedile. “Sarà una cosa abbastanza noiosa.”

Si diresse verso il portello e lo aprì. L’aria esterna era un po’ fresca e aveva odore di cannella e alghe. Okeke era già lì, in mezzo alla radura dove erano atterrati. La sua nave, e il robot gigante, attendevano un po’ più in là. Il guscio verde-azzurro anodizzato del robot creava un contrasto sorprendente con il vivace fogliame rosso che li circondava. Gli alberi bassi lasciavano il posto a un’erba simile al papiro e dietro c’era un ampio lago.

Jela stirò le braccia al di sopra della testa per svegliarsi e fissò la città dall’altra parte del lago. Gli edifici erano arretrati rispetto al lago e circondati da un bellissimo muro a mosaico. I motivi ondulati blu e verdi le ricordarono i tentacoli di Sal. Per altri cento anni quel posto non sarebbe cambiato.

“Ehi, Capo.” Okeke aveva una macchia di grasso sul naso. “Mi dispiace che hai dovuto scendere.”

“So che non è colpa tua.” Con Okeke al fianco si avviò verso la stiva per prendere il potenziatore di trasmissione. “Avrei dovuto mandarti il trasmettitore subito.” Sarebbe stato meglio se avesse detto che non c’era soluzione, mollando tutto.

“Si ma, cielo sereno eccetera.”

“Ah.” Jela si allontanò dallo shuttle mentre Okeke apriva il portello. Il cielo sopra di loro era di un blu cristallino; nemmeno una nuvola. “È stato sereno a questo modo per tutta la notte?”

“Qualche lampo, ma nessuna nuvola.” Okeke afferrò un’estremità della cassetta che conteneva il potenziatore.

“Sei tu che hai detto che c’era attività solare?”

“Già infatti.” Sollevò un’estremità della cassetta mentre Okeke l’afferrava dall’altra parte. “Vista dalla nave era un’aurora boreale davvero notevole.”

Si aprì il portello dello shuttle e Sal mise fuori la testa. “Do fastidio se mi metto a leggere sui gradini?”

“No, esci pure.” Avere la possibilità di respirare aria non riciclata era qualcosa a cui nessuno voleva rinunciare. Anzi, persino Jela si sentiva più sveglia, solo per via dell’aria e della luce naturale.

Spostarono il potenziatore verso l’altro shuttle, anche se non era necessario stare vicini al robot gigante per farlo andare, ma una volta che l’avessero messo in funzione, lo avrebbe lasciato gestire a Okeke.

Okeke sbuffò. “Ehi, potevamo far spostare la cassa al robot gigante.”

“Eh…” Jela posò a terra la sua estremità di cassa. “Forza… dobbiamo testare tutti i parametri del ‘Surrogato Personale Diplomatico’.”

“Signorsì. Ovvio. Dobbiamo farlo.” Okeke sorrise e indicò i comandi. Li aveva sistemati uscendo dallo shuttle e sperava che potessero funzionare in sincrono con il sistema a bordo della nave. “A te l’onore?”

Avrebbe preferito lasciare a Okeke quel lavoro, ma dato l’insistenza della diplomatica Foenicul nell’usare sempre il “meglio”, probabilmente era più sicuro se fosse stata lei, Jela, ad animare il robot gigante. Se qualcosa andava storto, non voleva che potessero incolpare Okeke. E del resto non aveva mai voluto sabotare la missione. C’era il potenziale rischio che tutti finissero nei guai nel suo dipartimento. “Sì… Sì, penso sia meglio. Intanto, tu va a cercare un sasso per Adika.”

“Sei la migliore.” Okeke annuì e si avviò verso il lago. “Mi trovi là.”

“Prenditela con calma.” Era probabile che, anche quando fosse riuscita a far funzionare quell’affare, la diplomatica Foenicul avrebbe insistito perché restasse sul pianeta. Jela attivò i comandi e, per scrupolo, avviò una nuova sequenza di calibrazione. Chi voleva prendere in giro? Stava lavorando per il diavolo, me le risultava difficile non fare del suo meglio. Come diceva sempre sua madre, “Fallo bene, o lo devi rifare.”

Una brezza le sfiorò la guancia e chiuse gli occhi per godersi la sensazione. In cabina aveva un ventilatore oscillante per simulare l’imprevedibilità dell’aria naturale, ma non era la stessa cosa. Qui l’aria profumava di terriccio e cannella e aveva il sapore salato delle alghe. Per quanto Jela amasse l’ingegneria e lo spazio, si era imbarcata sulla nave perché voleva visitare dei pianeti. Se avesse saputo che la capitana aveva accettato questo incarico diplomatico, lei avrebbe… fatto cosa? Si sarebbe licenziata? E in un altro lavoro cosa avrebbe fatto, esattamente? Il capitano di qualsiasi altra nave avrebbe potuto rifiutare un lavoro come quello? Difficile.

Okeke urlò.

Jela strabuzzò gli occhi e la mano scese alla pistola. Sulla riva era emerso una specie di mostruoso calamaro, gocciante acqua, che stringeva Okeke in uno dei suoi tentacoli.

Sal gridò qualcosa nella sua lingua e sparò al mostro con la pistola. Dal centro dei tentacoli emerse un becco duro. L’intera creatura si avvicinò a Sal, bilanciandosi in modo impossibile su decine di braccia che si agitavano.

Dall’altra parte del lago, il muro a mosaico mostrò grande attività, perché centinaia di cittadini si affrettavano a occuparne la cima armati di lance e fucili. Per la miseria. Nessuno aveva parlato di questa bestia nei briefing premissione.

Perché diavolo Foenicul non li aveva avvertiti dei calamari giganti visto che i cittadini chiaramente lo sapevano?

Jela afferrò dalla console il visore di interfaccia e infilò i manicotti di controllo. Quella creatura non avrebbe certamente danneggiato la sua squadra. Attivò il sistema a potenza massima e poi…

Ecco, si ritrovò a guardare attraverso gli occhi del robot gigante. Il sistema trasformava in movimenti le sue modalità cerebrali e le intenzioni muscolari. Si alzò, sollevandosi a quindici metri da terra. Avrebbe dato chissà cosa per un sistema d’arma adatto allo scopo, ma un Surrogato Personale Diplomatico non era equipaggiato con delle armi.

Però sarebbe bastata una mazzata. Avanzò, facendo vibrare il terreno sotto i piedi e afferrò la cassa che aveva contenuto il potenziatore satellitare.

Il mostruoso calamaro si fermò nel suo avanzare verso Sal e rivolse il becco verso Jela. O, meglio, verso il robot gigante. Il mostro sembrava essersi dimenticato di Okeke nel suo tentacolo. Jela prese un grosso sasso e lo sbatté forte sul tentacolo.

Quindi colpì il mostro con la cassetta del potenziatore e la bestia cadde indietro, apparentemente stordita. Doveva fare in modo che lasciasse Okeke. Non aveva idea di quale fosse il punto più vulnerabile di quella creatura, ma di solito la bocca ha molte terminazioni nervose. Jela si lanciò in avanti e le infilò la cassa dentro il becco.

Il mostro annaspò e agitò i tentacoli. La testa di Okeke era sbattuta avanti e indietro a ogni movimento. Jela tirò via la cassa con l’idea di infliggere un altro colpo, ma esitò. Doveva liberare Okeke dalla presa della creatura prima che lei si facesse davvero male, ma ogni tentacolo sembrava avere una propria mente.

E allora! Avrebbe attaccato direttamente il tentacolo che teneva Okeke. E, in definitiva, Jela non era in pericolo, perché non era nel suo vero corpo. Ma la diplomatica l’avrebbe spellata viva se avesse permanentemente disabilitato il robot gigante. Sempre tenendo in mano del robot la cassetta del potenziatore, lanciò la macchina gigante verso il calamaro, poi abbassò l’involucro proprio nel centro della massa di tentacoli. Sei di questi si avvolsero intorno alla cassa, bloccandola. La donna la lasciò lì e usò entrambe le mani per afferrare il tentacolo che tratteneva Okeke. Attivò la massima potenza e tirò su.

Il calamaro mostruoso si dimenò, cercando di liberarsi, ma la donna tirò più forte pensando di poter strappare il tentacolo. Alla fine, il mostro lasciò andare Okeke, che cadde per terra rotolando via. Ma gli altri tentacoli si avvolsero attorno al robot gigante e lo immobilizzarono. Jela provò a liberarsi, ma se si liberava di un tentacolo, un altro le si avvolgeva subito attorno. Maledizione. Non ne sarebbe mai riuscita, per cui doveva trovare un modo per stordirli tutti assieme. Il punto in cui tutti si collegavano era nella zona del becco… doveva esserci un cervello là dietro. In teoria. Ormai Jela non sapeva più cosa provare e allora ribaltò il robot gigante, in modo che la sua massa cadesse sopra il mostro. Tutti e due rotolarono a terra e il calamaro era sotto.

La tensione che la tratteneva si allentò leggermente, permettendo a Jela di liberare un braccio. Non c’era pericolo per lei, ma doveva liberare il robot gigante perché la missione lo richiedeva… Ma che cosa…?

Sapeva quel che sarebbe successo quando il Consorzio si fosse insediato. Prima si appropriavano dei diritti minerari. Poi quelli per il disboscamento. E poi l’acqua. E poi la manodopera… fino a quando non sarebbe rimasto nient’altro che un guscio di pianeta. Tutti gli esseri che vivevano qui si sarebbero dati da fare per ottenere un lavoro nel Consorzio, perché lì c’erano i soldi. Il Consorzio avrebbe sradicato la loro cultura e sarebbero diventati un popolo ombra.

Una cosa era il pensiero astratto, sulla nave e un’altra era vedere il mondo e la città decorata a mosaico.

Sulla nave, qualsiasi cosa rischiava di essere attribuita a una responsabilità dell’equipaggio, ma qui? Un calamaro gigante non era per niente prevedibile, eppure potevano benissimo incolpare lei di aver usato il robot senza autorizzazione: una colpa solo sua e di nessun altro.

Lasciò che il robot gigante diventasse inerte e la creatura gli avvolse le braccia con i tentacoli. Il becco corneo si abbatté sull’esoscheletro, cercando un modo per penetrare nel supposto centro nervoso. Ma l’elettronica continuava a lavorare bene. Però, se avesse piagato la testa, in modo da… alcune connessioni potevano risultare esposte.

I sensori aptici sulla console si bloccarono improvvisamente. Jela cercò di girare la testa, ma la vista nel suo visore apparve bloccata. I tentacoli si avvolsero tutto intorno a lei.

Si liberò degli occhiali e retrocesse mentre la vista tornava al suo corpo. A cento metri di distanza, Okeke e Sal avevano aperto il fuoco sulla creatura. Questa abbandonò il robot gigante, che cadde a terra come una bambola gigantesca e la bestia si rivolse verso l’equipaggio.

Jela corse allo shuttle, impugnando la sua arma. “Ritirarsi! Ritirarsi!”

Okeke e Sal non persero tempo. Corsero verso lo shuttle mentre Jela faceva del suo meglio per coprire la loro ritirata. In una frenetica confusione, si arrampicarono oltre il portello. Sal si gettò sul sedile del pilota e non aspettò nemmeno che si allacciassero per avviare la sequenza di accensione.

All’esterno dello shuttle si sentì un colpo sordo.

“Accidenti.” Forse Jela avrebbe dovuto provare a uccidere quella cosa. Aveva pensato di poter resistere più a lungo con il robot. “Puoi arrostirlo con i propulsori?”

Il motore dello shuttle ruggì e l’accelerazione buttò a terra Jela. Okeke era in ginocchio, il sangue le gocciolava da orribili cerchi perfetti e la divisa si era lacerata su braccia e torso. Strisciando verso di lei, Jela voltò la sua assistente di schiena. “Resisti. Ti rattoppiamo noi. Ma resisti.”

Quando la porta dello shuttle si aprì la capitana stava aspettando nell’hangar, insieme alla Diplomatica Foenicul. E un intero plotone di sicurezza. Jela si fermò sulla porta così di colpo che Sal le sbatté addosso. Che cos’era successo?

“Serve supporto medico.” Jela indicò dentro lo shuttle. “Un membro dell’equipaggio è ferito.”

La Capitana Afaeaki si fece avanti, per parlare, ma prima che potesse tirare il fiato, si avvicinò la Diplomatica Foenicul, sbattendo le ali per sollevarsi sopra al piccolo gruppo. “Capo Ingegnere Dedearian, le tue azioni hanno messo a repentaglio gli interessi del Consorzio in modi imperdonabili.”

“Vuoi dire che lo ha fatto quel dannato calamaro.” Se la volevano silurare, non sarebbe stata zitta. Era ora. “E perché diavolo quella cosa non era nei briefing?”

La diplomatica si abbassò leggermente per aria, una ruga tra le delicate sopracciglia. “Non è tuo compito fare domande.”

“E non l’ho mai fatto. Non fino a quando uno dei miei compagni è quasi stato ammazzato.” Scosse la testa. “Non importa. Abbiamo bisogno di un medico e ne abbiamo bisogno subito.”

La capitana si rivolse alla squadra medica che aspettava dietro al personale della sicurezza. “Forza Dottori.”

La diplomatica batté le ali per risalire più su. “Devo insistere perché tutti vengano arrestati.”

“Ma… cosa?” No. No, quello non era il piano. Ammesso che ci fosse un piano. “Il robot l’ho usato solo io… cioè, il Surrogato Personale Diplomatico.”

“Sì, ma quando la tua navetta è decollata, avete avvolto la creatura nelle fiamme. Anche se non intenzionalmente… il che ha avuto l’effetto di far credere ai nativi che avessimo attaccato e sconfitto il loro dio.”

“Il loro dio? Quindi sapevi di quella cosa prima che scendessimo? Questo… ed era per questo che non volevi scendere sulla superficie. È questa la ragione per cui avevamo un maledetto robot gigante!” Dopo aver visto le ferite provocate dalle ventose sugli arti e sul torso di Okeke, Jela fremeva di rabbia. Se non fosse stato che era sulla sua nave, avrebbe sputato a terra. “Hai messo tutti in pericolo perché non ci hai informati adeguatamente sulla missione.”

Dietro le spalle della diplomatica, la capitana improvvisamente si aprì in un sorriso enorme come se avesse appena vinto una mano di poker. “Oh, accidenti. I regolamenti mi obbligano a segnalare i briefing irregolari ai rappresentanti del Consorzio.”

“Cosa?” La Diplomatica Foenicul roteò in aria, ma quando completò la curva, la Capitana Afaeaki aveva nuovamente assunto uno sguardo solenne.

La capitana allargò le mani come se fosse impotente. “Vorrei non doverlo fare, ma il viaggio verrà sottoposto a un’analisi per l’arresto del mio ufficiale. Ovviamente mi capisci.”

La Diplomatica Foenicul aleggiò in aria per un bel po’ e l’unico rumore era il sibilo degli aeratori. Schioccò le ali, una volta, due volte. “La punizione deve esserci. Il fatto non può passare impunito.”

“Certo.” La Capitana Afaeaki piegò la testa. “Sicurezza, confinate il Capo Ingegnere Dedearian nelle sue stanze.”

E questo era il motivo per cui Jela amava la sua capitana. Confinata nelle stanze? Se fosse stata davvero arrabbiata, sarebbe finita in cella. Ma così? Questa non era una punizione. Era un premio.

Jela scese dalla rampa ed era quasi contenta di puzzare di sudore. La Diplomatica Foenicul si allontanò, strizzando il naso, e diede a Jela abbondante spazio per raggiungere la capitana. “Chiedo il permesso di occuparmi della mia compagna ferita, prima di essere confinata nelle mie stanze.”

“Concesso.”

Lasciò la Diplomatica Foenicul ad aleggiare nel mezzo dell’hangar e tornò dentro lo shuttle. Il medico aveva appoggiato Okeke su un fianco dello shuttle e stava parlando nel suo comm. Alzò gli occhi quando entrò Jela, con Sal alle calcagna.

“Starà bene. Avrà delle belle cicatrici, se vorrà tenersele, ma starà bene.” Il medico mantenne la mano sul polso di Okeke, per misurarle il battito. “Ho una squadra in arrivo che la trasporterà in infermeria.”

Jela si sistemò sul pavimento accanto alla giovane assistente. “Scusami.”

“Nessun problema.” Okeke tentò un sorriso, che per il dolore diventò piuttosto una smorfia. “Mio figlio sarà deluso perché non gli ho portato un sasso.”

“Sarà felice che sei viva. Fidati di me. Inoltre, l’abbiamo abbattuto con un sasso. Non male, che dici?”

“Non è niente: c’era anche un robot gigante.”

Jela sbuffò. Un sasso. Un robot enorme. Forse non era importante il modo in cui si batteva un calamaro gigante, la cosa importante era che ti eri battuta.

 

Copertina tratta da Freepik.
© 2018 Mary Robinette Kowal
© Traduzione 2023 Franco Giambalvo

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Nata a Raleigh, ha studiato alla East Carolina University, diplomandosi in educazione artistica con una specializzazione in teatro. All'inizio lavora come burattinaia nel 1989. Si è esibita al Center for Puppetry Arts e ha lavorato per la Jim Henson Productions e con una sua compagnia di produzione: è una scrittrice, particolarmente nota nell'ambito della fantascienza e del fantasy.