Proseguiamo con “La giovinezza di Tarzan tra le scimmie” capitoli V e VI, in cui il giovane eroe affronta i rischi mortali della giungla con  un’intelligenza di cui, fino ad allora, nemmeno lui si era reso conto.

La giovinezza di Tarzan tra le scimmie: Capitolo I

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La giungla di Tarzan

La giungla di Tarzan: Capitolo II

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Tarzan: una piccola creatura umana: Capitolo III

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Tarzan tra le scimmie

Tarzan tra le scimmie; Capitolo IV

Il terribile, violento quarto capitolo de "La giovinezza di Tarzan tra le scimmie" vede il nostro eroe uscire da una terribile situazione, scampando alla morte per un vero miracolo. Per leggere gli altri capitoli seguite la presentazione qui di seguito:  Capitolo...
Tarzan legge e combatte

Tarzan legge e combatte

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Tarzan incontra un suo simile

Tarzan e un suo simile

"La giovinezza di Tarzan tra le scimmie" capitoli VIII e IX, in cui il giovane Tarzan scopre il dolore per la morte e affronta per la prima volta un altro uomo.Capitolo VIII. Il mattino seguente la tribù pigramente attraversava la foresta dirigendosi verso il mare. Il...

Capitolo V.

Con tutta la sua tenerezza materna Kala curava il piccolo figlio adottivo, ma non era soddisfatta perché non cresceva snello e agile come le altre scimmie e, solo dopo un anno a stento riusciva a camminare, ma non ancora capace di arrampicarsi sugli alberi.

Quando ella parlava del suo piccino alle femmine anziane, queste si meravigliavano, perché sebbene Kala lo avesse con sé da più di dodici lune il bimbo non riusciva ancora a procurarsi il cibo, e si meravigliavano inoltre della sua scarsa intelligenza.

Se avessero saputo che quando Kala lo aveva preso erano più di tredici lune che era nato, sarebbero rimaste altamente sorprese perché i loro piccoli in due o tre lune erano più sviluppati che lo scimmiotto bianco.

Il marito di Kala, Tublat, era seccatissimo, e, se la femmina non avesse continuamente sorvegliato il piccolo, indubbiamente il furibondo maschio lo avrebbe ucciso.

— Non sarà mai una scimmia – dicevano – sarai sempre costretta a portarlo fra le tue braccia. Non potrà mai servire alla tribù. Abbandonalo nella foresta e tu pensa a mettere al mondo altri scimmioni che ti aiuteranno nella vecchiaia.

— Ti sbagli nasone. Anche se dovessi portarlo tutta la vita, non mi sgomento per questo

Tublat chiese l’intervento di Kerciak, affinché colla sua autorità costringesse Kala a rinunziare al piccolo Tarzan. Con questo nome le scimmie chiamavano il piccolo Lord Greystoke e che nel loro linguaggio significava: «pelle bianca». Kala, quando Kerciak le parlò di abbandonare Tarzan disse che avrebbe lasciata la tribù piuttosto che seguire quell’imposizione e siccome era un diritto degli abitanti della jungla di emigrare quando sorgeva dissenso in seno alla tribù, Kala avrebbe certamente tradotto in atto la sua minaccia. Ma tutte le altre scimmie si opposero perché ella era una scimmia bella e formosa.

Coll’andar degli anni Tarzan faceva progressi sempre più rapidi; si arrampicava sugli alberi e sapeva compiere tante piccole cose che facevano restar meravigliati tutti i suoi compagni. La sua intelligenza superiore lo faceva rispettare e anche la differenza fisica era enorme fra loro: infatti le scimmie a dieci anni hanno già raggiunto il pieno sviluppo mentre Tarzan era ancora un ragazzo, ma che adolescente! Fin dalla prima infanzia si appendeva con le mani ai rami per prendere il balzo seguendo gl’insegnamenti della sua madre adottiva ed aveva dedicato a quell’esercizio molte ore della sua giornata. Colla pazienza e l’allenamento era riuscito a far dei voli della lunghezza di circa venti piedi ed era capace con un colpo preciso e infallibile di appendersi a un ramo agitato dal vento. Con un’agilità portentosa saliva e scendeva dagli alberi più alti. A dieci anni era robusto come un uomo di trenta e più agile di un atleta mentre la sua forza cresceva di giorno in giorno. Era felice tra quei fieri compagni e non sapeva che esistesse un’altra vita all’infuori di quella che viveva nella foresta tra gli animali selvaggi, ma quando raggiunse i dieci anni notò l’enorme differenza che c’era fra lui e le scimmie. Guardando in una fonte scorse il suo corpo lucido e liscio, quasi se ne vergognò e tutti i giorni s’impiastricciava di fango per ottenere una certa somiglianza con gli antropoidi, ma quel fango cadeva disseccando. Ed il laghetto sull’altipiano rifletteva la sua immagine ogni volta che si recava con i suoi compagni ad abbeverarsi e constatava con suo vivo disappunto che i suoi lineamenti di nobile discendente di una storica e illustre famiglia inglese non somigliavano per nulla a quelli delle scimmie. Tarzan si rammaricava di tutto ciò e si domandava come le scimmie potessero sopportare la sua presenza senza inorridire e invidiava la bocca larga e le potenti zanne degli antropoidi.

Si toccava il naso piccolo e sottile e si stizziva confrontandolo colle belle narici larghe dei suoi compagni. Quello era veramente un bel naso e Tarzan guardava alle scimmie come a veri campioni di bellezza. Ciò che lo stupiva maggiormente erano i suoi occhi. Una macchia scura orlata di grigio e poi quel bianco orribile. Nemmeno i serpenti avevano gli occhi brutti come i suoi.

Era così meditabondo e assorto in queste considerazioni che non udì neppure il fruscìo delle alte erbe che si drizzavano dietro le sue spalle e non l’udì neppure il suo compagno che beveva rumorosamente alla fonte.

Sabor, la grossa leonessa si accovacciò poco lontano da loro agitando la coda nell’aria. Ora avanzava cautamente muovendo le zampe una dopo l’altra adagio adagio, quasi strisciando il ventre sulla terra come un grosso gatto che sta per slanciarsi sulla preda.

Oramai era vicino ai due compagni che indifferenti non sospettavano del pericolo. La belva puntava i garetti, tendeva i muscoli che si gonfiavano sotto la pelle morbida; pareva schiacciata contro la terra, la coda non si agitava più: era pronta per il balzo, come un lampo con un ringhio rabbioso si slanciò sulla sua vittima. Sabor la leonessa, era una cacciatrice abile e conosceva l’agilità degli abitanti della jungla. Sarebbe bastato l’improvviso agitarsi di un cespuglio a dar l’allarme, quindi, tanto valeva emettere l’urlo che almeno terrorizzava la vittima. Paralizzate dal terrore non avevano il tempo di intuire il pericolo e alla leonessa bastava quell’istante per lacerare coi suoi artigli le carni delle vittime. La scimmia aveva confermato le previsioni di Sabor: rimase tremante un breve attimo e questo bastò per sperderla. Ma Tarzan che aveva imparato ad affrontare i pericoli della jungla senza perdersi di coraggio con quella prontezza di decisione suggerita dalla sua intelligenza superiore, riuscì ad evitare il balzo della leonessa. E mentre l’urlo terrorizzava le scimmie per Tarzan non fu che un potente stimolo all’azione.

Piuttosto che finire straziato sotto gli artigli di Sabor vinse la sua naturale ritrosia per l’acqua fredda e spiccato un salto si tuffava nel lago prima che la leonessa avesse agguantato il suo compagno.

Sebbene Tarzan non sapesse nuotare e l’acqua fosse profonda, istintivamente, come il cane, mosse le gambe e le braccia cosicché, dopo che l’acqua si richiuse sopra di lui, riuscì a ritornare a galla e avanzare verso la riva opposta. Si rallegrò di questa sua nuova abilità, ma in quel momento non aveva da indugiare a pensarci e, visto che la leonessa lo fissava attendendo che tornasse a terra per assalirlo, mandò un urlo convenzionale che avvertì gli altri componenti la tribù della presenza di Sabor. Un altro grido si elevò nell’aria e dopo brevi istanti una quarantina di scimmioni comparvero sugli alberi intorno al laghetto. La prima ad accorrere fu Kala, che aveva riconosciuto la voce del suo prediletto scimmiottino che giaceva morto sotto le zampe di Sabor.

La leonessa sentì che non poteva affrontare tanti avversari in una sola volta e con un ringhio si volse e scomparve nella foresta. Tarzan ritornò alla riva e fu per lui una bella sorpresa quel senso di refrigerio e di sollievo che gli dava l’acqua e da quel giorno quando poteva si recava o al fiume o al mare o al piccolo lago per prendere un bagno.

L’avventura con la leonessa rimase per Tarzan uno dei più simpatici ricordi; simili fatti rompevano la monotonia della vita della jungla che non era altro che il ripetersi fino alla noia dei soliti avvenimenti cioè: cercar da mangiare, mangiare e dormire.

La tribù aveva una specie di dominio su un vasto tratto di territorio, che si addentrava dalla spiaggia per una cinquantina di miglia nell’interno. E continuamente si spostavano per sfruttare le risorse naturali e mai si fermavano più di un mese nello stesso posto. Andavano da una radura all’altra in pochi giorni, cosicché la loro emigrazione era di breve durata. La notte dormivano dove l’oscurità li sorprendeva, quasi sempre sdraiato per terra e nelle notti fredde si raggruppavano per riscaldarsi. Tarzan riposava sempre tra le amorose braccia di Kala. Tarzan e Kala si amavano reciprocamente sebbene fossero di una razza diversa. La scimmia aveva per Tarzan tutte le tenerezze di una madre, ma qualche volta lo riprendeva con severità specialmente quando si mostrava disobbediente.

Tublat odiava Tarzan e molte volte era stato sul punto di ucciderlo. Il ragazzo-scimmia approfittò di tutte le occasioni per ricambiare quell’odio e lo infastidiva gridandogli delle ingiurie e con delle orribili smorfie, la sua intelligenza superiore gli permetteva mille trovate per stuzzicare il patrigno. Da solo si era ingegnato a intrecciare quei lunghi fili d’erba delle robuste corde che stendeva fra gli alberi per far cadere Tublat. Provando e riprovando imparò colle corde a fare dei nodi scorsoi che servivano per giocare e, malgrado le altre scimmie cercassero di imitarlo non ci riuscivano.

Un giorno Tarzan a un compagno che fuggiva lanciò la corda trattenendola per un lato, così riuscì ad afferrarlo e ad avvolgere la corda attorno al collo del fuggente. In poco tempo divenne un perfetto e sicuro tiratore di laccio e si divertiva ad accalappiare le scimmie anche più grosse.

Kala lo rimproverava e Tublat perseguitato dal figliastro giurava di vendicarsi. Tarzan non badava né alle minacce né ai rimproveri e ripeteva il suo giochetto con Tublat mentre le altre scimmie assistevano divertendosi perché Tublat era un vecchio antipatico che non sapeva farsi amare da nessuno.

Nella mente di Tarzan incominciava a svilupparsi la ragione e per associazione d’idee arrivò a concepire che il laccio avrebbe potuto servire anche per accalappiare Sabor la leonessa.

Lentamente, ma sicura quell’idea si andava affermando nella sua mente finché un giorno la tradusse in una superba realtà.

Ma dovevano trascorrere ancora alcuni anni.

Capitolo VI.

Le migrazioni delle scimmie sovente portavano Tarzan nei dintorni della capanna, chiusa, presso la piccola baia. Era per lui un motivo di gioia e di curiosità, penetrare con lo sguardo dalle finestre nell’interno e scrutare il contenuto della misteriosa capanna. Qualche volta saliva anche sul tetto e scrutava incuriosito la nera canna del camino, per cercare una via d’ingresso.

La sua fertile fantasia di adolescente gli faceva immaginare che in quella chiusa e raccolta stanza vivessero creature di sogno e l’impossibilità di entrare acuiva il suo desiderio. Appeso all’inferriata o sdraiato sul tetto rimaneva delle lunghe ore pensando una soluzione pratica che gli permettesse di entrare, pur trascurando la porta che si era mostrata solida e sicura.

Dopo la prima avventura con Sabor, la leonessa, mentre si avviava verso la spiaggia guardò in lontananza la porta della capanna e, dopo un’attenta osservazione, comprese come essa fosse una cosa indipendente dalla parete e rinnovò il proposito di forzarla per entrare.

Le scimmie, dopo l’avventura del bastone tonante lo lasciavano sempre andar solo nelle vicinanze della capanna e quell’atmosfera di timore che circondava la piccola costruzione non impauriva Tarzan che anche quel giorno si avvicinò lentamente deciso a penetrare nell’interno della piccola abitazione.

Kala e le altre scimmie per la scarsità del loro vocabolario scimmiesco, e anche perché non ne vedevano la necessità, non avevano mai raccontato a Tarzan che era stato rinvenuto là dentro. Ormai le grosse scimmie avevano finito per dimenticare quell’avventura e a Tarzan non avevano raccontato che la storia misteriosa del bastone tonante.

Una volta la madre adottiva gli aveva accennato che il padre di Tarzan era stato un grosso bertuccione bianco che non si sapeva da dove fosse venuto, ma il fanciullo scimmia riteneva sempre che sua madre era Kala.

Quel giorno si avvicinò alla porta e indugiò lunghe ore a studiarne il congegno, provando la maniglia, il saliscendi, e tormentando i cardini. Improvvisamente per puro caso, la porta si aperse, il saliscendi aveva funzionato.

Meravigliato e sorpreso per qualche istante non osò avanzare, ma quando i suoi occhi vinsero la penombra, si decise ed entrò.

Nel mezzo della camera sul pavimento biancheggiavano le ossa di uno scheletro. A esso non vi erano attaccati che brandelli di carne disseccata e solo qualche traccia rimaneva degli abiti del morto.

Sul rozzo letto vi era un altro scheletro più piccolo e frugando ne rinvenne un altro più piccolo ancora nella culla.

Tarzan degnò appena di uno sguardo quei resti che erano tutto ciò che restava di una fosca tragedia avvenuta molti anni prima. Nella sua vita randagia e selvaggia aveva quasi perso il senso della morte e poteva guardare con indifferenza dei cadaveri tanto che se anche avesse saputo che quelli erano i resti mortali dei suoi genitori non avrebbe provato eccessiva commozione.

La sua attenzione fu subito attratta dai mobili e dalle suppellettili della capanna. Osservò attentamente ogni cosa: le armi, le carte, i libri, gli abiti, tutto ciò che aveva resistito all’ingiuria del tempo. Forzati gli scaffali in essi scoperse molti strani attrezzi ancora ben conservati e, fra le molte cose rinvenute, un lungo, acuminato coltello. Passando la lama sulla mano si tagliò un dito. Per nulla spaventato, all’improvviso zampillare del sangue cercò di comprendere l’uso di quello strano arnese e ben presto capì che poteva servire per tagliuzzare il legno della tavola e delle sedie e anche per ferire.

Giocherellò coi diversi oggetti finché soddisfatto e anche stanco continuò le sue ricerche. L’interessarono vivamente i libri illustrati a vivaci colori: specialmente un analfabeto istoriato.

A è l’arciere
che con l’arco fulmina.

B è il bambino
che si chiana Beppino.

Guardava con viva curiosità le belle figure, che rappresentavano bertuccioni con la faccia che somigliava esternamente alla sua e, quando arrivò alla lettera S vide raffigurate molte scimmie uguali a quei piccoli antropoidi che si altalenavano tutto il giorno sugli alti rami della foresta. Ma non riuscì a scoprire nessuna illustrazione che raffigurasse Kerciak, Toblak o Kala. Si provò a staccare le figure dalla pagina, ma con suo disappunto, senza che egli ne capisse il motivo, si accorse che era impossibile.

Le navi, i treni, le mucche, i cavalli erano figure che non avevano per lui alcun significato, ma destavano la sua più viva curiosità le altre piccole figure che erano accanto a quelli che per lui non erano altro che oggetti strani: le paragonava alle piccole formiche, molte delle quali avevano delle lunghe gambe, ma erano prive di occhi e di bocca.

Questo era il primo contatto dell’intelligenza di Tarzan colla stampa. Indubbiamente prima di allora egli non aveva mai visto un libro e vivendo tra le scimmie non aveva mai udito parlare né di lettura, né di scrittura.

In una pagina a circa metà del libro scoperse con un piccolo grido di gioia un’illustrazione colorata che raffigurava Sabor e poco più innanzi raggomitolato su se stesso Histah il serpente.

Era veramente divertente. Negli anni trascorsi, non aveva mai trovato nulla di così interessante. Era tanto immerso nella sua esplorazione, che si accorse della notte che avanzava solo quando non riuscì più a distinguere chiaramente un oggetto dall’altro.

Dopo aver riposto il libro richiuse lo scaffale per impedire che gli altri abitatori della jungla distruggessero quel suo tesoro. Uscito dalla capanna richiuse la porta col saliscendi, di cui aveva appreso il meccanismo, e si allontanò. Egli aveva preso con sé il coltello per mostrarlo ai suoi compagni, ma si era appena inoltrato nella jungla quando improvvisamente gli si pararono innanzi delle grandi ombre e una gigantesca figura si rizzò da un cespuglio. Era Bolgani, il grosso gorilla pronto ad aggredirlo.

Tarzan non era un vecchio bertuccione adulto, non era che un piccolo fanciullo inglese e, sebbene i suoi muscoli avessero uno sviluppo superiore alla sua età, non si sentiva in grado di affrontare l’enorme bestione. Ma nelle vene di Tarzan scorreva il sangue di una schiatta d’intrepidi cacciatori, e per di più aveva vissuto per dieci anni la selvaggia vita della jungla e, sebbene una lotta aperta contro il suo crudele avversario non lasciasse adito che a scarse speranze di salvezza, decise di affrontarlo.

Il suo cuore accelerava i palpiti, non per paura, ma per quella eccitazione procuratagli dall’avventura insolita. Ogni via di scampo era preclusa, ma se avesse potuto fuggire lo avrebbe fatto senz’altro, non per evitare la lotta, ma per quell’elementare buon senso che gli faceva riconoscere la sua netta inferiorità. La fuga, quindi, era impossibile e si apprestò a sostenere il balzo del suo antagonista senza tremare, senza un cenno di esitazione e senza palesare alcun segno di paura. Coi pugni chiusi, percosse l’enorme bestione che stava per piombare su di lui, ma era una lotta impari, come una mosca contro un elefante.

Ma nella mano destra impugnava un’arma micidiale, il coltello che aveva raccolto nella capanna e, proprio mentre le poderose zanne stavano per lacerare le sue carni, volse la punta luccicante verso il petto villoso squarciandolo. Con un urlo di dolore, il gorilla abbandonò la preda.

Il fanciullo scimmia in un lampo comprese perfettamente quale uso poteva fare del coltello, e mentre il gorilla ritornato all’attacco lo aveva atterrato colpendolo violentemente con un pugno, Tarzan affondò la lama fino al manico nel grosso petto dell’animale.

Questi come era sua abitudine nella lotta dava gran colpi a Tarzan colle mani e cercava di addentare il collo o il petto del ragazzo. Rotolarono sul terreno abbracciati per qualche metro. Tarzan col braccio lacerato da un’enorme ferita da cui perdeva abbondante sangue continuava a colpire all’impazzata ma sempre con minor forza col coltello finché, persi i sensi, il giovane Lord Greystoke si irrigidì su un ammasso di putrida vegetazione morta.

A circa un miglio di lontananza i suoi compagni avevano udito nella foresta il cupo urlo di sfida del gorilla. Come era sua abitudine, Kerciak riunì i componenti della tribù per constatare se mancava qualche membro ed anche per prepararsi ad affrontare l’odiato nemico. Quando si accorsero che mancava Tarzan, Toublat si oppose vivamente di andare in soccorso alla scimmia bianca. Neppure Kerciak aveva spiccata simpatia per il figlio adottivo di Kala; approvò l’esposto di Tublat e ritornò a dormire su un mucchio di foglie secche. Invece Kala senza por tempo in mezzo, e senza dilungarsi in chiacchiere, si era lanciata correndo tra i folti rami e il groviglio delle liane verso la direzione da cui venivano l’urlo del gorilla che risuonava ancora sotto la volta scura della foresta. La notte era scarsamente rischiarata dalla luna che era nel primo quarto e al pallido chiarore gli alberi proiettavano delle ombre grottesche semoventi. Dove i raggi della luna riuscivano a penetrare attraverso il fitto fogliame, e a raggiungere il suolo, le ombre sembravano ancora più cupe.

Kala balzava silenziosa da un albero all’altro come un mostruoso fantasma, guidata dall’infallibile istinto e da quel senso di orientamento che si acquista nella vita selvaggia della jungla.

Dagli urli del gorilla che si facevano sempre più distinti intuiva ormai che era vicina al luogo della tragedia. Improvvisamente cessò ogni grido. Kala nel profondo silenzio non udiva più nessuna voce che potesse precisarle chi era stato l’avversario del gorilla.

Non poteva neanche lontanamente immaginare che il suo piccolo Tarzan avesse con le sue sole forze potuto abbattere un grosso gorilla maschio; perciò, quando credette di essere nelle vicinanze del luogo della tragedia, usò tutte le cautele del caso, movendosi con prudenza e osservando attentamente coi suoi occhietti per scorgere i probabili avversari. Finalmente intravide che tutti e due giacevano su un piccolo spiazzo rischiarato dai rami lunari e con vivo dolore constatò che accanto al tozzo gorilla ormai cadavere, vi era il piccolo corpo di Tarzan ricoperto di ferite.

Kala volò presso Tarzan e con un gemito lamentoso strinse fra le braccia il piccolo corpo inanimato per sentire se dava ancora qualche segno di vita. Il piccolo cuore batteva ancora debolmente.

Lentamente, con tutte le delicatezze che le suggeriva il suo affetto, riattraversò la foresta per ritornare presso la tribù. Lo curò amorevolmente per molti giorni, per lunghe notti procurandogli da mangiare e da bere le cose più delicate e rimaneva estatica, quasi in contemplazione allontanando con la larga mano gl’insetti e le mosche che ronzavano attorno al pallido viso del ragazzo-scimmia. Colla tiepida e umida lingua lambiva le ferite per ripulirle e medicarle perché quella era tutta la sua chirurgia, tutta la sua medicina. Lentamente la natura operava il miracolo della guarigione.

Nei primi giorni Tarzan rifiutava ogni cibo e cogli occhi socchiusi, colla fronte che ardeva per la febbre, era come in uno stato di sopore. Non domandava altro che da bere. Kala glielo dava come poteva colla sua stessa bocca.

Le sue amorevoli attenzioni, le sue delicatezze erano pari a quelle di una vera madre; la povera creatura selvaggia curava con vera abnegazione il piccolo trovatello che il caso le aveva affidato.

Un giorno la febbre cessò e il ferito dette segni visibili di miglioramento. Sebbene il dolore delle ferite fosse qualche volta atroce, Tarzan non si lamentava mai. Voleva che Kala gli stesse sempre accanto, ma ormai cominciava a migliorare e la madre adottiva si assentava per lunghe ore in cerca di cibo.

Quella povera e selvaggia abitatrice della jungla, per curare l’orfanello, si era nutrita col minimo indispensabile per non morire di fame, era diventata l’ombra di se stessa nei giorni penosi in cui Tarzan lottava tra la vita e la morte.

TITOLO: La giovinezza di Tarzan tra le scimmie
AUTORE: Burroughs, Edgar Rice
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
CODICE ISBN E-BOOK: n. d.
DIRITTI D’AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

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(Chicago, 1º settembre 1875 – Encino, 19 marzo 1950) è stato uno scrittore statunitense, autore, fra l'altro, del ciclo di romanzi incentrati sulla figura di Tarzan, il personaggio della giungla allevato dalle scimmie che ha alimentato la fantasia dei lettori e degli appassionati di cinema di più di una generazione.