Il terzo capitolo de “La giovinezza di Tarzan tra le scimmie” è quello più tragico per la famiglia Greystoke e ci piace lasciarlo così, come lo ha voluto il suo autore: in trepida attesa di un futuro migliore.
Per leggere gli altri capitoli seguite la presentazione seguente:

 

La giovinezza di Tarzan tra le scimmie: Capitolo I

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La giungla di Tarzan: Capitolo II

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Tarzan tra le scimmie; Capitolo IV

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Tarzan combatte: capitoli V e VI

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Tarzan legge e combatte

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Tarzan e un suo simile

"La giovinezza di Tarzan tra le scimmie" capitoli VIII e IX, in cui il giovane Tarzan scopre il dolore per la morte e affronta per la prima volta un altro uomo.Capitolo VIII. Il mattino seguente la tribù pigramente attraversava la foresta dirigendosi verso il mare. Il...

Capitolo III.

Erano già da qualche tempo svegli quando l’alba colorava con le sue pallide luci il cielo a oriente e fu con un vero senso di sollievo che salutarono il nuovo giorno malgrado che nella notte avessero riposato ben poco. Consumata una parca colazione di carne salata, di caffè e biscotti, Clayton iniziò la costruzione della capanna perché solo fra le solide mura avrebbero potuto trovare tranquillo e sicuro riposo.

Il compito che si era proposto era difficile e impiegarono quasi un mese, sebbene non si trattasse che di costruire una piccola stanza. La capanna era fatta di pali cementati con l’umida argilla che si trovava scavando il suolo nei dintorni. Costruì un piccolo focolare e quando la modesta abitazione fu completata l’intonacò all’esterno con quattro pollici d’argilla.

Alle finestre applicò dei grossi rami intrecciati che formavano una fitta inferriata che avrebbe resistito anche agli sforzi di un grosso animale e così l’aria poteva ricambiarsi senza che ne scapitasse la sicurezza.

Il tetto spiovente fu ricoperto con rami combacianti che rivestì di uno strato di erba e foglie amalgamati dall’argilla.

Con pezzi delle casse che avevano contenuta la loro roba, costruì una porta e riuscì molto solida, tanto che Clayton e Alice la contemplarono soddisfatti.

Impiegarono due giorni a costruire due cardini con legno duro intorno a cui la porta poteva quasi agevolmente girare.

Quando i coniugi si erano già insediati nella loro nuova abitazione diedero gli ultimi tocchi e nella notte per riposare con una certa sicurezza ponevano innanzi alla porta ammonticchiati le casse e i bauli.

Con una certa facilità costruirono un letto, delle sedie, un tavolo e qualche armadio rudimentale; dopo circa un mese essi avevano sistemato così bene la loro abitazione che, se non fosse stato il timore delle belve e se non avessero troppo sofferto per la solitudine opprimente, avrebbero potuto dirsi veramente felici. Nella notte, malgrado che le belve venissero a ruggire attorno alla loro capanna, potevano finalmente riposare perché si erano abituati e avevano finito per non badarci più.

Altre volte avevano intravisto nell’oscurità delle grandi ombre come quella che si era disegnata sulla collina la prima notte, ma sempre lontane, cosicché non erano mai riusciti a capire se si fosse trattato di uomini o di bestie.

Le scimmie, gli uccelli policromi si erano ormai abituati alla presenza di quei due esseri eccezionali: erano certamente i primi che essi vedevano e, vinte le prime ritrosie, spinti dalla curiosità congenita nelle creature selvagge, presero dimestichezza coi due solitari inglesi, tanto che gli uccelli venivano a prendere il becchime dalle loro stesse mani.

Un pomeriggio, mentre Clayton stava costruendo altri vani in aggiunta al primo, vide improvvisamente le bertucce fuggire urlando spaventate, mentre ogni tanto si volgevano impaurite a guardare verso le alture vicine. Si fermarono accanto a Clayton tremanti e pareva che volessero avvisarlo del pericolo imminente. Così Clayton poté scorgere il motivo della loro agitazione: era l’uomo belva che lui ed Alice avevano intravisto solamente nella oscurità della notte.

L’enorme bestia avanzava nella jungla semieretta sul busto ed ogni tanto posava a terra i pugni chiusi come per riposarsi, emettendo cupi grugniti inframmezzati da un ringhiare sommesso.

In quell’istante Clayton stava abbattendo un albero per le sue costruzioni poco lontano dalla capanna.

Dopo i primi mesi trascorsi relativamente tranquilli e senza che nessuna grossa bestia avesse interrotto la loro quieta esistenza. Clayton aveva trascurato anche le più elementari precauzioni, cosicché in quel momento non aveva né fucile né rivoltella per difendersi.

Quando vide lo scimmione uscire dal folto degli alberi e indirizzarsi verso di lui, sentì un brivido di freddo corrergli per la schiena. Siccome il bestione gli tagliava la ritirata verso la capanna, pensò ad Alice e, armato solamente della scure, si lanciò per l’unica via di probabile salvezza girando al largo per raggiungere la capanna e gridando a sua moglie di entrare nella capanna, di rinchiudervisi senza preoccuparsi per lui.

Lady Greystoke era seduta poco discosto dalla capanna. Alla voce di Giovanni alzò lo sguardo e vide lo scimmione che con una agilità impensata balzava per tagliare la strada a suo marito. Prima di entrare si volse in tempo per scorgere una orribile scena: lo scimmione si era messo tra la porta e Clayton; questi urlò ad Alice di chiudere la porta e si preparò alla lotta. Egli sapeva di andare incontro a una orribile morte e anche Alice lo intuiva. Gli occhi del grosso scimmione avevano dei lampi d’odio sotto le sopracciglia di irte setole: le zanne poderose brillavano minacciose nell’orrenda bocca spalancata da cui uscivano ringhi cupi.

Dietro la belva Clayton scorgeva la porta della sua dimora e con suo terrore vide apparire sulla soglia Alice armata di fucile.

La donna che aveva sempre avuto un sacro terrore delle armi da fuoco, ora si apprestava a tirare su lo scimmione come una indomita leonessa che si appresta a difendere i suoi nati.

— Entra nella capanna Alice! – gridò Clayton – ritorna per l’amor di Dio!…

Ma non aveva ancora finito di urlare il suo avvertimento, che lo scimmione si scagliava su di lui. Clayton stava per calare la sua scure sull’orribile testa dell’antropoide, ma questi con una rapida mossa gliela strappò di mano lanciandola lontano e con un ringhio feroce stava ormai per azzannare la gola dell’uomo, quando un colpo d’arma da fuoco risuonò nell’aria.

L’enorme scimmia ferita nel mezzo della schiena atterrò Clayton con un pugno e si volse contro il nuovo nemico. La giovane donna presa dal terrore tentò ma invano di sparare un altro colpo e siccome ella non conosceva il maneggio dell’arma il cane batté a vuoto.

La scimmia con urli di rabbia e di dolore balzò sulla povera donna che cadde priva di sensi. Nello stesso istante in un tentativo disperato, Clayton balzava sullo scimmione e, afferratolo per le spalle, con sua somma meraviglia riuscì facilmente a farlo cadere riverso, mentre stava chinandosi per afferrare la fragile donna. Ma oramai la morte lo aveva irrigidito.

Clayton constatò che la grossa bestia non aveva fatto in tempo a nuocere ad Alice e sollevatala delicatamente la portò sul letto nella capanna. Dopo due ore, la poveretta riprendeva i senti e le prime parole che riuscì a profferire preoccuparono Clayton. Ella volse attorno lo sguardo pieno di stupore, poi con un largo respiro di sollievo, disse:

— Oh. Giovanni, siamo a casa nostra? Che brutto sogno ho fatto. Mi pareva di non esser più nella nostra bella casa di Londra, ma in una brutta isola dove delle bestie ci assalivano.

— Calmati Alice cara – e mentre profferiva queste parole delicatamente le accarezzava la fronte e si chinava trepido a baciarla sui biondi capelli che avevano il colore del sole. – Dormi Alice cara, i sogni passano!

Quella notte venne alla luce nella piccola capanna, sulla soglia della vergine foresta, un bimbo mentre nel silenzio si udiva cupo urlare un leopardo e un ruggito profondo destava l’incantesimo misterioso della foresta.

Lady Greystoke non si riebbe più da quello spavento e visse dolorante e triste ancora un anno senza uscire dalla capanna con l’idea fissa di essere ancora in Inghilterra. Nella notte si destava di soprassalto e chiedeva al marito il motivo degli strani rumori che turbavano il loro sonno e come mai i servi non accorrevano alla sua chiamata. Ed i mobili erano così rozzi e primitivi.

Il marito desolato non tentò mai di disingannarla. Nelle altre cose ragionava benissimo e comprendeva tutte le premurose attenzioni che Clayton aveva per lei e per il suo bambino. Egli sapeva benissimo quali pene e quali dolori attendevano la poveretta se fosse stata nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Orinai aveva perso ogni speranza di soccorso e credeva solamente che il caso avrebbe potuto ricondurli in paesi civili. Intanto cercava di abbellire la capanna: pelli di leone e di pantere ricoprivano i pavimenti e le pareti e aveva costruito nuovi scaffali e armadi per riporvi i libri. Coll’argilla aveva costruito vasi rudimentali in cui fiorivano i più bei fiori della jungla e coi bambù e con lunghe erbe resistentissime aveva costruito delle cortine. Coi pochi ferri e attrezzi che aveva rivestì il pavimento, le pareti e il soffitto con assicelle.

Si meravigliava di essere riuscito colle sue mani delicate ad abbellire la sua capanna così da renderla una comoda abitazione, ma amava quel lavoro perché lo faceva per la moglie e per il figliuoletto. Non si nascondeva le sue responsabilità, tuttavia poteva superare le difficoltà coll’aiuto della sua forte intelligenza.

In quell’anno Clayton fu assalito più volte dalle grandi scimmie che sembrava che si fossero dato convegno nei dintorni, ma siccome usciva sempre armato non temeva l’assalto degli antropoidi. Aveva rinforzato l’inferriata delle finestre ed alla porta aveva applicato un saliscendi di sua creazione cosicché poteva allontanarsi per la caccia senza alcuna preoccupazione perché le belve non potevano introdursi nel suo quieto asilo. Oramai gli animali si avvicinavano raramente alla casa perché temevano quel rifugio da cui usciva il fuoco e il tuono.

Nelle lunghe ore d’ozio Clayton si dilettava a rallegrare la moglie, leggendo ad alta voce alcuni libri specialmente per l’infanzia, libri che avevano portato con loro per il nascituro nella presunzione che fossero rimasti lontani dall’Inghilterra per lunghi anni.

Dedicava parecchio tempo anche a scrivere il suo diario che custodiva gelosamente in una cassettina di ferro e narrava le sue vicende in lingua francese. Era ormai passato un anno dalla nascita del bimbo, quando Alice morì di una morte dolce, tranquilla e serena, così serena che Clayton si accorse solamente dopo alcune ore del suo trapasso.

Nei primi giorni che seguirono la morte della moglie, non comprese né mai riuscì a comprendere interamente, la gravità della sua nuova situazione, né provò il dolore che avrebbe sofferto in condizione normale e con un bimbo lattante da allevare.

Le ultime pagine del diario le scrisse il mattino seguente la morte di Alice e vi descrisse, con tutti i dolorosi particolari, la sua situazione; da queste pagine traspare un senso di indifferenza, di spossatezza generata dalla sofferenza e dalla disperazione; pare che quest’uomo piegato dal dolore non abbia più avuto neanche la forza morale ih sopportare quella sventura.

— Il piccino piange perché ha fame… che posso fare Alice?

Dopo aver scritto quelle parole che dovevano essere le ultime della sua esistenza, Giovanni Clayton distese le braccia sulla tavola che aveva fatto per la sua donna che ora giaceva rigida e fredda accanto a lui, poi abbandonò il capo singhiozzando su di essa. Passarono lunghe ore piene di silenzio in cui pareva di sentir cadere le foglie. In quel silenzio solenne com’è il silenzio della morte, pareva sospeso, tremulo, il pietoso vagito di una piccola creatura umana.

 

La nostra copertina è un frame tratto da Tarzan © 1999 Disney.

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(Chicago, 1º settembre 1875 – Encino, 19 marzo 1950) è stato uno scrittore statunitense, autore, fra l'altro, del ciclo di romanzi incentrati sulla figura di Tarzan, il personaggio della giungla allevato dalle scimmie che ha alimentato la fantasia dei lettori e degli appassionati di cinema di più di una generazione.