Il dodicesimo racconto di Arthur B. Reeve, è Il cartello della droga, come sempre tratto da Il medico dei sogni, in una nuova traduzione di Mario Luca Moretti e mia, Franco Giambalvo che uscirà presso Edizioni Scudo a cura di Giorgio Sangiorgi e Luca Oleastri
Al momento su questo sito sono disponibili i seguenti capitoli:
1. Il medico dei sogni,
2. Analisi dell’anima
3. La Sibarita
4. Il salone di bellezza
5. Il circuito fantasma
6. Il Detettàfono
7. La maledizione verde
8. Il sarcofago della mummia
9. L’elisir di lunga vita
10. La tossina della morte
11. La fumeria d’oppio
La storia iniziata col capitolo 11, che potrete consultare se ve lo siete perso, si concluderà in questo capitolo. Come abbiamo detto, godetevi questa decadente ed esotica ambientazione di inizio novecento, nei bassifondi del quartiere cinese…

 

Mentre da Chatham Square ci affrettavamo verso Chinatown vedemmo che il quartiere celebrava le sue festività con lunghe stringhe di petardi e col suono discorde delle cornamuse dei più famosi musicisti ed era tutta un’allegria di bandiere rosse con un sole bianco a diciotto raggi su sfondo azzurro. La nuova tregua delle tong e l’anniversario erano più che mai motivo di gioia.

Per quanto affrettata, la retata al locale Hep Sing era stata preparata con cura da O’Connor. La casa che cercavamo era una dei più antichi slums, con un vistoso ristorante al secondo piano, un negozio di curiosità al livello strada, mentre nel seminterrato era visibile solo l’esposizione di un’enorme e ordinata pila di casse di tè. Un attimo prima del nostro arrivo le finestre delle abitazioni sopra il ristorante erano piene di gente, ma tutti scomparvero prima ancora che le asce cominciassero a colpire la porta del seminterrato che si sarebbe detto un magazzino per il negozio di sopra.

La fragile porta esterna fu rapidamente abbattuta. Ma era solo una prima porta. Un’altra accolse gli incursori. Le asce si mossero rumorosamente e i piedi di porco squarciarono la porta blindata, rivestita di ferro, della ‘ghiacciaia’. Dopo averla abbattuta, dovettero aprirsi la strada attraverso un’altra porta identica. Le porte spesse e la pila di casse da tè spiegarono perché dall’esterno non si sentiva il rumore del gioco d’azzardo e di altre pratiche proibite.

Scostando una tenda entrammo nella stanza principale. Scoprimmo una scena di confusione con frettolosa partenza degli occupanti.

Kennedy non si fermò qui. All’interno c’era anche un’altra stanza, per i fumatori, molto diversa dal posto alla moda che avevamo visto nei quartieri alti. Era bassa, modesta, disgustosa. L’odore era ovunque fastidioso; c’era sporcizia dappertutto che alla lunga avrebbe generato malattie. Era un inferno che puzzava di sudore, oscurato da dense nubi di fumo.

Lungo le pareti erano stati costruiti tre ordini di cuccette in legno duro. Qui non c’era eleganza; tutto era sordido. Diversi cinesi, in vari stadi di stordita indolenza, farfugliavano in un oblio incoerente, uno stato che suppongo possa dirsi di ‘calma orientale’.

Lì, in una cuccetta, giaceva Clendenin. Il suo respiro lento e incerto diceva che era sotto l’effetto della droga e giaceva supino accanto a un aggeggio con una pillola semicotta ancora nel fornello della pipa.

Il problema era svegliarlo. Craig cominciò a schiaffeggiarlo con un asciugamano bagnato, dicendo di tenerlo in piedi. Lo muovevamo avanti e indietro, stordito, quasi insensibile, e sognava, borbottava, delirava.

Seguì un’esclamazione frettolosa di O’Connor mentre estraeva dai magri cuscini della cuccetta una pistola a canna lunga, una calibro 44 come quelle usate dai capi delle tong, la stessa marca di quella che aveva sparato a Bertha Curtis e Nichi. Craig la afferrò e la infilò in tasca.

Tutti i giocatori erano fuggiti, tranne quelli troppo drogati per scappare. Erano andati al di là di una porta che conduceva alla cucina del ristorante. Craig non si fermò ma saltò di sopra e poi di nuovo giù, attraverso una scala antincendio, in un cortiletto sul retro. Ci dirigemmo a tentoni attraverso una sorta di breve vicolo, o meglio attraverso un intricato dedalo di vicoli e un labirinto di anfratti ciechi. All’apparenza eravamo nel retro di un negozio in Pell Street.

Mi bastò un attimo per varcare un’altra porta ed entrare in un’altra stanza, piena di aria fumosa, sporca, sgradevole e fetida. Anche quella stanza sembrava piena di casse da tè. Craig ne aprì una. C’erano pile e pile di barattoli di oppio, un vero tesoro di droga.

Dappertutto, pentole e padelle misteriose, colini, recipienti di legno e strumenti. L’odore dell’oppio durante la lavorazione era inconfondibile, perché l’oppio da fumare è diverso dalla droga medicinale. Sembrava che lì fossero immagazzinate e preparate le scorte per migliaia di fumatori in tutto il paese. In un angolo, in una bacinella, una massa del prodotto finito che pareva melassa. In un altro angolo c’era l’apparato per rigenerare lo yen-shee cioè l’oppio già fumato. Questa, secondo me, era finalmente la sede del ‘cartello della droga’, come l’aveva chiamato una volta O’Connor, il regno segreto del re dell’oppio, la parte americana del ricco consorzio di Shanghai.

Si aprì una porta ed ecco apparire un cinese, stoico, riservato, indifferente, con il volto che esprimeva tutta l’astuzia e la crudeltà orientale. E se pure traspariva in lui la tipica abilità orientale per gli intrighi, possedeva, tuttavia, il fascino della cultura orientale, grande caratteristica della sua Terra.

Nessuno disse una parola mentre Kennedy continuava a perquisire il posto. Alla fine, sotto un mucchio di spazzatura, trovò una rivoltella avvolta a caso in un vecchio maglione. Sotto quella luce intensa, Craig estrasse rapidamente la pistola di Clendenin, vi inserì una cartuccia e sparò contro il muro. Ne inserì un’altra nella seconda pistola e partì un secondo colpo.

Dalla tasca estrasse poi una piccola lente d’ingrandimento e due microfotografie. Si mise a studiare i proiettili esplosi.

“Eccolo”, esclamò Craig, riuscendo a malapena a trattenersi per aver ottenuto il risultato sperato dalla sua caccia, “eccolo lì: il segno simile a una ‘L.’ Questa cartuccia porta un marchio preciso che non può essere ottenuto da nessun’altra pistola al mondo. Nessuno degli Hep Sings, anche se usano tutti la stessa marca di arma, potrebbe duplicare questo segno; nessuno dei loro uomini armati.”

“Ci sono dei proiettili”, riferì un poliziotto che stava frugando ancora tra i rifiuti.

“Stia attento, amico”, lo avvertì Craig. “Sono drogati. Li lasci. Sì, è la stessa pistola che ha sparato a Bertha Curtis e Nichi Moto: spara proiettili narcotici per fermare chiunque interferisse con il contrabbando di oppio, senza però uccidere la vittima.”

“Cosa è successo?” chiese O’Connor, arrivando senza fiato dalla sala da gioco dopo aver sentito gli spari. Il cinese rimase immobile, silenzioso, impassibile. Alla sua vista O’Connor sussultò: “Chin Jung!”

“Il vero leader delle tong”, aggiunse Craig, “e l’assassino della ragazza bianca con cui era fidanzato. Questo è l’autista stralunato dell’auto rossa che ha incontrato la barca dei contrabbandieri guidata da Bertha Curtis, ignara di tutto, fino alla morte.”

“E Clendenin?” chiese Walker Curtis, senza capire.

“Uno strumento… poveretto. La caccia nei suoi confronti era diventata così intensa che dovette nascondersi nell’unico posto sicuro, presso gli operai del suo datore di lavoro. Doveva essere talmente terrorizzato che si è quasi ammazzato fumando.”

“Ma perché il cinese avrebbe dovuto sparare a mia sorella?” chiese Walker Curtis stupito dalla piega degli eventi.

“Sua sorella”, rispose Craig, quasi con reverenza, “per quanto distrutta dalla droga, alla fine ha avuto un rimorso, quando ha compreso il vasto complotto per corrompere migliaia di persone. L’investigatore giapponese dell’agenzia delle entrate ha ottenuto da lei le informazioni… ed entrambi ne hanno pagato il prezzo. Ma hanno distrutto il nuovo clan dell’oppio: abbiamo catturato i capi della banda.”

Fuori dal labirinto di strade, tornati su Chatham Square, non perdemmo tempo per recuperare la nostra sicurezza nella stazione sopraelevata, prima che un membro delle tong potesse vendicarsi su di noi.

La celebrazione a Chinatown era finita. Era come se il sistema nervoso di quel posto fosse rimasto paralizzato dal nostro intervento improvviso e violento.

Un treno per il centro mi portò in ufficio per scrivere il pezzo, perché lo Star scriveva sempre articoli speciali sulle pittoresche notizie di Chinatown. Kennedy andò nei quartieri alti.

Fatta eccezione per pochi istanti al mattino, non vidi più Kennedy fino al pomeriggio successivo, perché la guerra delle tong si era rivelata un aspetto così interessante da costringermi ad aiutare e organizzare gli incarichi che avrebbero descritto ogni dettaglio.

Riuscii però a scappare il più presto possibile, perché sapevo che non sarebbe passato molto tempo prima che qualche altro guaio si impadronisse di Kennedy per un qualche mistero e volevo essere sul posto quando ciò fosse avvenuto.

Il Cartello della drogaE infatti scoprii di aver ragione. Appena tornato dal mio frettoloso viaggio in metropolitana, trovai un uomo seduto con Craig nel nostro soggiorno, alto, tarchiato, una ciocca di capelli scuri ricci e fitti, naso affilato e appuntito, occhi da furetto e baffi rossastri arricciati alle estremità. Non ebbi difficoltà a decidere quale fosse il suo mestiere, anche se non sapevo chi fosse. Era il tipico detective che, proprio per il fatto di essere completamente nella parte, non poteva passare inosservato.

“Ultimamente abbiamo perso tantissime cose alla Trimble”, stava dicendo, “e ormai abbiamo superato la fase in cui potevano essere semplicemente incuriositi. È quindi indispensabile, almeno per me, capire, o perderò il lavoro. E a quanto pare mi trovo di fronte a uno dei più intelligenti taccheggiatori che si siano mai approfittati di un grande magazzino. Solo il cielo sa quanto è riuscito a rubare nei vari reparti e quando spariscono cose di grande valore come pezzi di gioielleria da migliaia di dollari, è davvero troppo.”

A sentire il nome del grande magazzino Trimble ho subito capito chi fosse quell’uomo e la rapida presentazione da parte di Kennedy che mi spiegò trattarsi di Michael Donnelly, un detective del grande magazzino, fu del tutto inutile.

“Non ha qualche sospetto?” chiese Kennedy.

“Ebbene sospetti sì,” disse Donnelly lentamente. “Per esempio, un giorno, non molto tempo fa, una donna ben vestita e dall’aspetto raffinato si è presentata al reparto gioielli chiedendo di vedere una collana di diamanti che avevamo appena importato da Parigi. Dicono che l’ammirasse moltissimo, la studiò, la provò, ma alla fine se ne andò senza comprarla. Un paio di giorni dopo tornò e chiese di rivederla. Questa volta accanto a lei c’era per caso un’altra donna che stava valutando alcuni ciondoli. Le due cominciarono a parlare della collana, per quel che ricorda l’impiegato e la seconda donna cominciò a esaminarla criticamente. Ancora una volta la potenziale acquirente se ne andò senza prender nulla. Ma questa volta quando lei se ne fu andata, rimettendo le cose nella cassaforte, l’impiegato esaminò la collana, pensando che forse la donna aveva scoperto un difetto e aveva deciso di non comprarla. Infatti, era una replica in pasta; ma probabilmente sostituita alla collana vera da una delle due donne elegantemente vestite.”

Prima che Craig potesse fare un’altra domanda, suonò il campanello della porta e io feci entrare un uomo azzimato, di media statura, dalla voce pacata, che avrebbe potuto essere un venditore ambulante o un contabile. Tirò fuori una carta dalla custodia e rimase in piedi di fronte a noi, evidentemente in dubbio su come procedere.

“Il professor Kennedy?” chiese infine, tenendo in equilibrio il cartoncino tra le dita.

“Sì”, rispose Craig. “Cosa posso fare per lei?”

“Vengo da Shorham, la gioielleria della Fifth Avenue,” iniziò bruscamente, mentre porgeva il biglietto a Kennedy. “Ho pensato di passare a trovarla per consultarla riguardo a una cosa strana accaduta di recente al negozio, ma se è impegnato, posso aspettare. Il fatto è che avevamo in mostra un bellissimo collare di perle, e qualche giorno fa sono venute due donne…”

“Ditemi,” lo interruppe Kennedy, spostando lo sguardo dalla carta al volto di Joseph Bentley e poi a Donnelly. “Cosa succede: un raduno di truffati? Sembra che ci sia un’epidemia di taccheggio. Quanto avete perso nella vostra ditta?”

“Circa ventimila in tutto”, rispose Bentley con mesta franchezza. “Perché? È stato derubato anche qualche altro?”

 

Traduzione
© 2024 by Mario Luca Moretti
© 2024 by Franco Giambalvo
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Arthur B. Reeve: Kennedy & Jameson
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nasce il 5 ottobre 1880, muore il 9 agosto 1936, è stato uno scrittore americano di misteries. È conosciuto soprattutto per aver creato il personaggio del Professor Craig Kennedy, talvolta chiamato "Lo Sherlock Holmes americano"