L’undicesimo racconto di Arthur B. Reeve, si intitola La fumeria d’oppio, anche questo tratto da Il medico dei sogni, in una nuova traduzione di Mario Luca Moretti e mia, Franco Giambalvo. Il libro uscirà presso Edizioni Scudo a cura di Giorgio Sangiorgi e Luca Oleastri
Al momento su questo sito sono disponibili i seguenti capitoli:
1. Il medico dei sogni,
2. Analisi dell’anima
3. La Sibarita
4. Il salone di bellezza
5. Il circuito fantasma
6. Il Detettàfono
7. La maledizione verde
8. Il sarcofago della mummia
9. L’elisir di lunga vita
10. La tossina della morte
La storia non si concluderà in questo capitolo, ma solo nel prossimo che pubblicheremo giovedì 14 novembre. Nel frattempo godetevi questa decadente ed esotica ambientazione di inizio novecento, nei bassifondi del quartiere cinese…

 

O’Connor tirò via il lenzuolo che la copriva e nel polpaccio della gamba si rivelò un brutto foro di proiettile. Per quanto brutto, tuttavia, era tutt’altro che letale e non sembrava indicare nulla della vera causa di morte. Estrasse dalla tasca un proiettile leggermente deforme che era stato estratto dalla ferita e lo porse a Kennedy, il quale esaminò attentamente ferita e proiettile. Sembrava un normale proiettile, ma nell’estremità appuntita c’erano tre o quattro piccole incisioni o depressioni, rotonde e molto superficiali, profonde solo una minima frazione di centimetro.

“Davvero insolito,” osservò lentamente. “No, non credo che si sia trattato di un suicidio. Né si è trattato di un omicidio a scopo di lucro, altrimenti i gioielli sarebbero stati portati via,”

O’Connor mi guardò con approvazione. “Esattamente quello che ho detto,” esclamò.

“Era già morta prima che il suo corpo fosse gettato in acqua.”

“No, su questo non sono d’accordo con lei,” corresse Craig, continuando l’esame del corpo. “E non si tratta nemmeno esattamente di annegamento.”

“Strangolata?” suggerì O’Connor.

“Con qualche mossa di jiu jitsu?” intervenni, memore del fatto che il giapponese si comportava in modo strano al Clendenin.

Kennedy scosse la testa.

“Forse lo shock della ferita da arma da fuoco l’ha resa incosciente e in quello stato è stata gettata giù,” azzardò Walker Curtis, apparentemente molto sollevato dal fatto che Kennedy la pensasse come con O’Connor, perciò in disaccordo con la polizia portuale riguardo alla teoria del suicidio.

Kennedy alzò le spalle e guardò di nuovo il proiettile. “È davvero insolito,” fu tutto ciò che disse. “O’Connor, penso che lei abbia detto qualche istante fa, che sono accaduti degli strani fatti da queste parti. Cosa intendeva?”

“Be’, come ho detto, il lavoro della squadra portuale di solito non è molto difficile. I pirati del porto di regola non sono assassini. Per la maggior parte sono semplici ladri o contrabbandieri di merci false che lavorano con guardiani del molo disonesti e capitani di barche corrotti e imbroglioncelli.

“Ma in questo caso,” continuò il vicesceriffo, con la faccia accigliata al pensiero di dover confessare un altro mistero del quale non aveva soluzione, “è qualcosa di ben diverso. Sapete che lungo tutta la costa da questa parte dell’isola ci sono case vecchie, fatiscenti e, alcune, abbandonate. Da alcuni giorni gli abitanti del quartiere si lamentano di strani avvenimenti riguardanti un luogo in particolare, che un tempo era la residenza di una famiglia benestante. È a circa un miglio da qui, di fronte alla strada che costeggia la riva; ha di fronte, dall’altra parte della strada, i resti di un vecchio molo che con l’alta marea si allunga per qualche metro nell’acqua.

“Ora, per quanto io ne possa capire, sembra che ci sia stata una misteriosa barca fantasma, molto veloce, senza luci e con un motore accuratamente silenziato, che negli ultimi tempi si è avvicinata al vecchio molo, in notti in cui la marea era abbastanza alta. Sulla banchina hanno visto muoversi una luce, che all’improvviso si spegneva, per poi riapparire. Chi la controllasse e perché, nessuno lo sa. Quelli che hanno provato ad avvicinarsi a quel posto si sono presi uno spavento che non dimenticheranno facilmente. Per esempio, un uomo si è avvicinato furtivamente e, pur non pensando che l’avessero visto, gli hanno sparato all’improvviso da dietro un albero. Ha sentito il proiettile che gli trafiggeva il braccio e si è messo a correre, è inciampato e la mattina dopo si è risvegliato nel punto esatto in cui era caduto, senza conseguenze, se non per una ferita leggera che, per qualche tempo, gli ha impedito di usare il braccio destro nei lavori pesanti.

“Dopo ogni visita della barca fantasma si sente, secondo il racconto dei pochi che l’hanno osservata, il calpestio dei piedi sul vialetto di pietra che parte dal molo, ricoperto di erba e alcuni hanno detto di aver sentito anche un’automobile silenziosa e spettrale come la barca. Abbiamo perquisito tutta quella strana casa vecchia, ma non abbiamo trovato nulla, se non un bel po’ di assi e persiane allentate da giustificare quasi ogni rumore o combinazione di rumori. Nessuno però ha detto che ci fosse altro se non il calpestio dei piedi che andavano avanti e indietro sui vecchi marciapiedi all’esterno. Sono stati uditi due o tre spari e sul molo dove è avvenuta la maggior parte dei presunti fatti misteriosi abbiamo trovato un bossolo appena esploso di una cartuccia.”

Craig prese la cartuccia che O’Connor tirò fuori da un’altra tasca e, cercando di mettere insieme il proiettile e la cartuccia, osservò: “entrambi da una calibro 44, probabilmente una di quelle armi vecchio stile a canna lunga,”

“Ecco,” concluse mestamente O’Connor, “lei sa tutto quello che sappiamo della faccenda finora.”

“Posso tenerli per il momento?” chiese Kennedy, preparandosi a mettere in tasca la cartuccia e il proiettile e dai suoi modi capii che in realtà sul caso sapeva già molto più della polizia. “Ci porti in questa vecchia casa e attracchi, per favore.”

Più e più volte, Craig passeggiò su e giù per il molo fatiscente, con gli occhi fissi al suolo, alla ricerca di qualche indizio, qualsiasi cosa, che potesse dare indizi sui delinquenti. Persone vere, loro, certamente e non qualche equipaggio di pirati spettrali del porto dei tempi andati, perché c’erano tutte le prove di qualcuno che aveva fatto su e giù per la passeggiata di recente, non una ma molte volte.

All’improvviso Kennedy inciampò in quella che sembrava una lattina di sardine, solo che non aveva alcuna etichetta o segno. Giaceva nell’erba folta e arruffata accanto al vialetto, come se fosse caduta lì e fosse passata inosservata.

Eppure, non aveva nulla di straordinario in sé. Barattoli di latta ce n’erano dappertutto, segni di una civiltà decadente. Ma a Craig era subito venuta un’idea. Era una lattina nuova. Le altre erano arrugginite.

Aveva staccato il coperchio e all’interno c’era una massa nerastra e viscosa.

“Oppio da fumo,” disse alla fine Craig.

Tornammo sui nostri passi riflettendo sul significato di quella scoperta.

O’Connor aveva fatto uscire gli uomini tutto il giorno alla ricerca di un indizio sull’automobile menzionata in alcuni dei resoconti forniti dai locali. Finora il meglio che era riuscito a trovare era la segnalazione di una grande macchina da turismo rossa che arrivava da New York su un traghetto in ritardo. C’erano su un uomo, una ragazza e un autista con gli occhiali e un berretto calato in testa in modo da essere praticamente irriconoscibile. La ragazza avrebbe potuto essere la signorina Curtis e, quanto all’uomo, avrebbe potuto essere Clendenin. Nessuno si era preoccupato molto di loro; nessuno aveva preso il loro numero di targa; nessuno aveva prestato attenzione a dove fossero andati dopo l’attracco del traghetto. In effetti, il rapporto non avrebbe avuto alcun significato se non si fosse saputo che dall’estremità inferiore dell’isola di New Jersey, la mattina presto era salita sul primo traghetto una grande macchina da turismo rossa che rispondeva all’incirca alla stessa descrizione, con un solo uomo e l’autista ma nessuna donna.

“Mi piacerebbe rimanere qui con lei stanotte, O’Connor,” disse Craig mentre ci separavamo. “Ci vediamo più tardi. Nel frattempo, farò visita a Jameson, per i suoi ben noti contatti con i giornali del quartiere a luci bianche,” e qui mi fece l’occhiolino in tono un po’ scherzoso, “per vedere se può fare qualcosa per farmi ammettere nel dorato palazzo della droga, sulla Quarantaquattresima Strada.”

Dopo non poche ricerche, Kennedy e io scoprimmo il nostro “hop joint” e fummo ammessi da Nichi Moto, di cui avevamo sentito parlare. Kennedy mi diede l’ordine di osservare, ma di stare molto attento a non dare l’impressione che stavo osservando.

Nichi Moto, con un occhio agli affari e non alla nostra capacità di assorbire il più possibile per stimolare le nostre capacità giornalistiche, ci condusse rapidamente in una grande stanza dove circa una mezza dozzina di clienti abituali giacevano lunghi distesi su singoli divani realizzati con certo gusto o su cuccette di bambù, fumando la pipa, o la preparavano con grande aspettativa usando gli strumenti posti sui vassoi che avevano davanti.

Kennedy mi sollevò dalla responsabilità di cuocere l’oppio facendolo per lui per tutti e due e lasciandomi incidentalmente intendere di non inalarlo e di respirarne il meno possibile. Ciononostante, stetti subito male, mentre lui, in qualche modo, doveva essere riuscito a prendere molto meno roba di me. Un paio di tiri e Kennedy fece un segno a Nichi.

“Dov’è il signor Clendenin?” chiese in tono familiare. “Non l’ho ancora visto.”

Il giapponese sorrise in modo accattivante. “Non lo so,” disse semplicemente, ma così, se non altro, seppi almeno che il tizio conosceva l’inglese.

La fumeriaKennedy aveva quasi iniziato a far finta di preparare una terza “pipa” quando un nuovo, inatteso arrivo fece un segno entusiastico a Nichi. Non riuscii a cogliere tutto ciò che si dissero, ma avvertii poche parole cioè “il capo” e “salta picchio,” che è un sinonimo di oppio. Ma l’uomo scomparve senza unirsi ai fumatori e Nichi sembrò diventare molto inquieto e ansioso. Evidentemente aveva ricevuto ordine di fare qualcosa. Sembrava volesse chiudere il locale per andarsene. Pensavo avesse ricevuto la soffiata che ci sarebbe stata una retata, ma Kennedy, che era stato più vicino, aveva sentito più di me e aveva colto la frase: “ci vediamo nello stesso posto.”

Non passò molto tempo prima che fossimo tutti gentilmente accompagnati fuori.

“Almeno sappiamo questo,” commentò Kennedy, mentre mi congratulavo con me stesso per la nostra fortunata fuga, “Clendenin non era lì, e stasera aveva qualcosa da fare, perché ha mandato a chiamare Nichi.”

Tornammo nel nostro appartamento per rinfrescarci un po’ in vista della lunga veglia che sapevamo ci aspettava quella notte. Con nostra sorpresa, Walker Curtis aveva lasciato un messaggio in cui diceva di voler vedere Kennedy immediatamente e da solo e anche se non ero presente riporto la sostanza di ciò che gli disse. Sembrava che non avesse voluto dirlo a O’Connor per paura che la notizia finisse sui giornali e causasse uno scandalo ancora più grande, ma pochi giorni prima della tragedia era venuto a conoscenza che sua sorella era decisa a sposare un uomo molto ricco, un commerciante cinese, importatore di tè, di nome Chin Jung. Non sapeva se ciò avesse o meno a che fare con il caso. Credeva di sì, perché da molto tempo, sia sulla scena che dopo, Clendenin esercitava su di lei una grande influenza e osservava con occhio geloso le avances di tutti gli altri. Curtis era particolarmente ostile verso Clendenin.

Mentre Kennedy mi raccontava della conversazione durante il tragitto a Staten Island, cercai di mettere insieme i fatti, ma come uno dei famosi puzzle cinesi, non ne venivo a capo. Dovetti ammettere la possibilità che fosse stato Clendenin a litigare per il suo attaccamento a Chin Jung, anche se non sono mai riuscito a capire quale sia il fascino che alcuni orientali esercitano su certe ragazze americane.

Per tutta la notte osservammo pazientemente dal punto di osservazione di un vecchio capannone, vicino alla casa, ma anche al molo fatiscente. Fu molto strano, soprattutto perché non avevamo idea di cosa sarebbe potuto accadere ammesso che ci fosse andata bene e avessimo visto qualcosa. Ma la nostra pazienza non fu ricompensata. Non successe assolutamente nulla. Era come se sapessero, chiunque fossero, che eravamo lì. Durante le ore trascorse, O’Connor passava il tempo in un borbottio sommesso, raccontandoci di tanto in tanto le sue esperienze a Chinatown, luogo che ora si impegnava a voler ripulire. Da Chinatown, coi suoi covi, i giocatori d’azzardo e gli scagnozzi ci spostammo verso i legittimi interessi commerciali e io almeno, fui sorpreso di scoprire che c’erano dei commercianti per i quali persino O’Connor aveva un grande rispetto. Evidentemente Kennedy non voleva violare in alcun modo la fiducia di Walker Curtis, né menzionare Chin Jung, ma con una domanda mirata su chi fossero gli uomini migliori nella Celeste comunità, ottenne da O’Connor un elenco di una mezza dozzina di nomi. Chin Jung era in cima alla lista. Tuttavia, la notte passò e ancora non accadde nulla.

Fu a metà mattinata, mentre stavamo provando a dormire nelle nostre stanze in alto, che il telefono cominciò a squillare insistentemente. Kennedy, che stava riposando, semplicemente per rispetto delle mie fragilità umane, così credo, in un istante fu al ricevitore. Era O’Connor. Appena tornato nel suo ufficio al quartier generale dove aveva trovato la denuncia per un altro omicidio.

“Di chi si tratta?” chiese Kennedy, “e perché lo collega al nostro caso?”

La risposta di O’Connor fu chiaramente clamorosa, a giudicare dall’espressione di sorpresa sul volto di Craig. “Il giapponese… Nichi Moto?” ripeté. “Ed è lo stesso tipo di ferita non mortale, gli stessi segni di asfissia, le stesse circostanze, compresa l’auto rossa denunciata dai residenti del quartiere.”

Quel giorno non accadde nient’altro, tranne questo infittirsi della trama con l’omicidio di Nichi, così peculiare. Vedemmo il suo corpo ed era come aveva detto O’Connor.

“Quell’uomo non era allo stesso livello di Clendenin,” rifletté Craig dopo aver studiato il secondo omicidio. “La domanda è: per chi e per cosa lavorava?”

Non c’era ancora alcuna risposta e il nostro unico piano era di vegliare anche quella notte. Questa volta O’Connor, non sapendo dove sarebbe caduto il prossimo fulmine, accettò il suggerimento di Craig e decidemmo di trascorrere il tempo a viaggiare sulla più veloce delle barche a motore della polizia, mentre la forza di sorveglianza lungo tutta la costa cittadina fu silenziosamente potenziata, con l’ordine di restare estremamente vigili.

O’Connor all’ultimo momento dovette lasciarci andare da soli, perché, durante il suo tentativo di ripulire Chinatown, era successa la cosa peggiore, sia pur non del tutto inaspettata. Era scoppiata di nuovo la guerra tra gli antichi rivali, gli Hep Sing Tong e gli On Leong Tong, ben noti gruppi di piantagrane nel piccolo distretto ed erano stati uccisi tre orientali.

Non è particolarmente piacevole navigare senza meta su e giù per il porto su una barca della polizia di cinque metri, per quanto salda e veloce possa essere.

Ogni ora andavamo a un posto di polizia per riferire e per tenerci in contatto su ciò che poteva interessarci. Successe verso le due del mattino e proprio vicino alla Battery. Quelle che parevano due torce brillarono sull’acqua una volta, poi due dalla parte anteriore di un traghetto che percorreva la sponda di Brooklyn.

“Fari d’automobile,” osservò Craig, senza quasi prestarvi più attenzione, perché avrebbero potuto essere semplicemente alzati e abbassati due volte per prova da un viaggiatore di ritorno in ritardo. Anche noi eravamo vicino alla costa di Brooklyn. Immaginate la nostra sorpresa nel vedere una luce di risposta proveniente da una piccola barca sul fiume che altrimenti sarebbe stato privo di luci. Spegnemmo prontamente le nostre luci e ci dirigemmo a tutta birra verso il punto in cui la luce si era accesa sul fiume. Finalmente succedeva qualcosa e ci lanciammo.

Continuammo a correre dietro alla strana imbarcazione, il fantasma che aveva spaventato Staten Island. Per circa un miglio sembrò che stessimo guadagnando terreno, ma uno dei nostri cilindri cominciò a far cilecca: la barca virò bruscamente dietro un’ansa della riva. Dovemmo rinunciare anche a tentare il sorpasso del traghetto che andava nella direzione opposta.

La calma di Kennedy di fronte alla nostra apparente sconfitta mi sorprese. “Oh, non è niente, Walter,” disse. “Stanotte sono scappati, ma ho trovato l’indizio giusto. Domani, appena aperta la dogana, capirai. È tutto basato sull’oppio,”

In seguito alla visita di Kennedy alla dogana una gran parte del segreto fu chiarito. Dopo anni di lotta contro il clan dell’oppio sulla costa del Pacifico, il clan aveva cercato di “aggirare” gli ufficiali doganali e di contrabbandare la droga a New York.

Non ci volle molto per trovare l’uomo giusto con cui parlare tra gli ufficiali doganali. Né Kennedy fu sorpreso di apprendere che Nichi Moto era in realtà un detective giapponese, una sorta di informatore nel gruppo di Clendenin e lavorava per tenere il governo in contatto con i nuovi arrivati.

Il ritrovamento della lattina di oppio sulla scena dell’omicidio di Bertha Curtis e l’inseguimento del motoscafo senza luce avevano finalmente messo Kennedy sulla giusta strada. Con uno degli ufficiali delle entrate facemmo un salto a Brooklyn e trascorremmo la mattinata a ispezionare le navi provenienti dai porti sudamericani attraccate nella zona in cui era sparita la barca fantasma.

Viaggiammo di nave in nave finché alla fine arrivammo a quella su cui, giù nel gavone delle catene, trovammo un falso pavimento con sotto un altro gavone. C’era uno scompartimento di mezzo metro quadrato e al suo interno, ben imballati, giacevano quattordici grandi cilindri sigillati ermeticamente, ciascuno colmo di piccole lattine come quella che Kennedy aveva trovato l’altro giorno: roba per un valore di quarantamila dollari a carico, per non parlare delle migliaia che erano già state sbarcate chissà dove.

Era stata una buona giornata di lavoro, ma fino a quel momento non si era riusciti a catturare l’assassino né a chiarire il mistero di Bertha Curtis. Qualcuno o qualcosa era stato capace di attirare la ragazza in trappola. Era Clendenin? Indagando sulla casa della Quarantaquattresima, scoprimmo che era chiusa e non c’era nessuno. Lui dov’era?

Tutte le morti misteriose erano rimaste misteriose. Bertha Curtis aveva portato il suo segreto nella tomba, dove era entrata, a quanto pareva, di sua spontanea volontà, con l’auto rossa, lo sconosciuto compagno e l’autista dagli occhialoni. Mi chiedevo ancora quale collegamento potesse esserci con l’oppio di contrabbando.

Kennedy, tuttavia, non si abbandonava a tali speculazioni. Gli bastava che la scena fosse cambiata all’improvviso e nella maniera più inaspettata. Lo trovai a leggere voracemente tutto ciò che veniva stampato sui giornali a proposito della nuova guerra delle tong, le bande cinesi.

“Dicono molto della guerra, ma poco della causa,” fu il suo secco commento. “Vorrei capire se ciò sia dovuto alla chiusura delle fumerie per l’intervento di O’Connor, o alla convinzione che una tong aiuti tutte le altre nel contrabbando di oppio.”

Kennedy ignorò tutti gli aspetti pittoreschi sui giornali e selezionò il punto più importante per il caso che ci stava a cuore. Risultava che una tong usava rivoltelle di una certa marca, un’altra usava una marca diversa. Il proiettile che aveva ucciso Bertha Curtis e poi Nichi Moto proveniva da una pistola del tipo usata dagli Hep Sings.

La differenza nella marca delle armi sembrò suggerire qualcosa a Kennedy e invece di restare impegolato nella guerra fra gangsters si ritirò nel suo infallibile laboratorio, dicendomi di usare il mio tempo per raccogliere più informazioni possibili. Quando andai a trovarlo, era circondato da microscopi e da un sistema molto sensibile per scattare microfotografie. Alcuni suoi negativi erano di quasi trenta centimetri di diametro e, per quel che capivo, avrebbero potuto essere immagini della superficie della luna.

Mentre ero lì entrò O’Connor. Craig lo interrogò sulla guerra delle tong.

“Si ricorda,” esclamò O’Connor, quasi traboccante di soddisfazione, “che questo pomeriggio avevo un appuntamento con Chin Jung, uno dei maggiori mercanti della zona. Naturalmente lei sa che quelli di Chinatown non vogliono problemi con gli affari e pare che lui e altri del suo giro temano che, se non verrà fermata la guerra delle tong, ciò costerà molto… denaro. Tra non molto celebreranno l’anniversario della fondazione della repubblica cinese e il Capodanno cinese e temono che saranno rovinati se non finirà la guerra.”

“A quale tong appartiene?” chiese Kennedy, senza smettere di esaminare una fotografia attraverso un monocolo da orologiaio.

“Nessuna,” rispose O’Connor. “Con il suo aiuto e quello di un giudice di un tribunale che conosce il nostro amico cinese come un libro aperto, abbiamo avuto un incontro questo pomeriggio con le due tong ed è stata ripristinata la tregua per due settimane.”

“Molto bene,” rispose Kennedy, “ma questo non risolve gli omicidi di Bertha Curtis e del giapponese. Dov’è Clendenin, secondo lei?”

“Non lo so, ma almeno così posso portare avanti il caso. Cosa sono tutte queste foto?”

“Ebbene,” cominciò Kennedy, togliendosi il monocolo dall’occhio e pulendolo con cura, “uno specialista del crimine parigino ha formulato un sistema per identificare i proiettili di rivoltella che è molto simile a quello del dottor Bertillon per identificare gli esseri umani.”

Prese una manciata di fotografie notevolmente ingrandite. “Queste sono le fotografie dei proiettili che mi ha inviato. La canna di ogni arma lascia dei segni sul proiettile che sono sempre uguali usando la stessa canna, ma mai identici per due diverse canne. In questi grandi negativi ogni dettaglio appare molto distintamente e si può decidere con assoluta certezza se un determinato proiettile è stato sparato da una certa rivoltella. Ora, utilizzando lo stesso metodo, ho realizzato fotografie simili, notevolmente ingrandite, dei due proiettili che sono apparsi finora in questo caso. Il proiettile che ha ucciso la signorina Curtis mostra gli stessi segni di quello che ha ucciso Nichi.”

Raccolse un altro gruppo di immagini. “Ora,” continuò, “solo guardandoli non si può sapere se è stato usato il percussore di un fucile o il cane di una rivoltella, ma sono diversi in ogni caso. Anche tra una medesima marca di armi i segni sono diversi e possono essere rilevati.

“La cartuccia, sia in un fucile che in un revolver, viene colpita in un punto che non è mai esattamente al centro o sul bordo, a seconda dei casi, ma è sempre lo stesso per quella stessa arma. Ora l’estremità del cane esaminata al microscopio reca certe irregolarità di marcatura diverse da quelle di ogni altra arma e la cartuccia sparata con quella presenta particolari marcature dovute a quel martello, così come succede coi martelletti di una macchina da scrivere sulla carta. Facendo microfotografie di percussori o martelli, con particolare riferimento alle estremità arrotondate, nonché fotografie delle corrispondenti cavità arrotondate negli inneschi da essi sparati, riusciamo a identificare con certezza le cartucce sparate da ogni ben preciso fucile o pistola.

“Vedrà sul bordo delle fotografie che ho fatto uno schizzo approssimativo che richiama l’attenzione sul segno a forma di ‘L’ principale caratteristica di questo martello, anche se ci sono altri segni ben chiari che si vedono bene al microscopio, ma non così bene in una fotografia. Noterete che i rilievi sul cane risultano invertiti sulla cartuccia, allo stesso modo in cui un carattere metallico e il carattere stampato sono invertiti l’uno rispetto all’altro. Tanto per chiarire, le depressioni all’estremità del martello diventano caratteri in rilievo sulla cartuccia, e i caratteri in rilievo sul martello diventano depressioni sulla cartuccia.

“Guardi alcune di queste vecchie fotografie e vedrà che differiscono da queste. Manca il segno a forma di ‘L’. Alcuni hanno cerchi, altri una serie molto diversa di buchi e rilievi, un insieme di caratteri esaminati e misurati al microscopio completamente diversi da quelli di ogni altro caso. Ogni segno è unico, per cavità, linee, cerchi e irregolarità. Le leggi del caso sono decisamente contrarie a che due di questi possano avere gli stessi segni, quanto possono essere con le impronte digitali di due diversi soggetti umani. La teoria del percussore, utilizzata in un famoso caso del Maine ed è altrettanto infallibile quanto la teoria delle impronte digitali. In questo caso, quando troveremo il proprietario della pistola con il segno a ‘L’, avremo l’assassino.”

Potevo capire che qualcosa stesse lavorando nella mente di O’Connor. “Molto bene,” intervenne, “ma lei sa che in nessuno dei casi la vittima è stata uccisa a colpi di arma da fuoco. Sono stati asfissiati,”

“Ci stavo arrivando,” rispose Craig. “Ricorda lo strano segno sulla punta di quei proiettili? Erano dei proiettili, detti, narcotici, invenzione di uno scienziato di Pittsburg. Hanno la proprietà di causare nelle loro vittime un sonno quasi immediato. Basta un leggero graffio provocato da questi proiettili sonniferi, come nel caso dell’uomo che spiava gli strani avvenimenti di Staten Island. Il farmaco, solitamente la morfina, viene trasportato in minuscole cavità sul cappuccio del proiettile, viene assorbito dal corpo e agisce quasi all’istante.”

La porta si spalancò e Walker Curtis entrò eccitato a grandi passi. Sembrò sorpreso di vederci tutti lì, esitò, poi fece segno a Kennedy che doveva parlargli. Infatti, parlarono per qualche istante e alla fine colsi l’osservazione di Kennedy: “Ma, signor Curtis, devo farlo. È l’unico modo.”

Curtis annuì rassegnato e Kennedy si voltò verso di noi. “Signori,” disse, “Mr. Curtis, esaminando gli effetti di sua sorella, ha trovato un biglietto di Clendenin che menziona un’altra fumeria d’oppio a Chinatown. Mi ha chiesto di indagare in privato, ma gli ho detto che sarebbe stato impossibile.”

Alla menzione di un covo nel distretto che stava ripulendo, O’Connor aveva drizzato le orecchie. “E dov’è?” chiese.

Curtis menzionò un numero di Dover Street.

“Il ristorante Amoy,” esclamò O’Connor, afferrando il telefono. Un attimo dopo stava già stabilendo i mandati per un’incursione immediata col capitano della stazione di Elizabeth Street.

 

Traduzione
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© 2024 by Franco Giambalvo
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Arthur B. Reeve: Kennedy & Jameson
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nasce il 5 ottobre 1880, muore il 9 agosto 1936, è stato uno scrittore americano di misteries. È conosciuto soprattutto per aver creato il personaggio del Professor Craig Kennedy, talvolta chiamato "Lo Sherlock Holmes americano"