Un nuovo traduttore, Gladis Ubbiali si presenta ai lettori con ben cinque capitoli di Deep Crossing di E. R. Mason. Ricordo ancora a tutti che, oltre a cercare traduttori, stiamo anche provando a immaginare un “bel” titolo italiano.
Gladis Giovanni Ubbiali lavora per una grande casa editrice italiana e traduce dall’inglese. Legge fantascienza e fantasy da più di 40 anni: è entrato nel tunnel con la Fondazione di Asimov e non ne è più uscito. Ama la space opera e i libri che ibridano i generi. Tra gli autori preferiti più recenti Mieville, Reynolds, Thiedar, Farris e Conforti. Quando non legge per passione o per lavoro scatta fotografie, in digitale e analogico.
Siamo ormai arrivati non lontani da metà libro: il comandante Adrian Tarn, già protagonista di Scontro Mortale, ha già interagito con una presenza aliena, una femmina (?) Nasebiana, che doveva rimanere nascosta e che invece oggi lo obbliga a intraprendere questa nuova, misteriosa avventura. Noi sappiamo che Adrian dovrà volare con un piccolo equipaggio, a moltissimi anni luce di distanza per recuperare un oggetto di cui non sappiamo nulla. In questi capitoli i “nostri” ricevono la vera nave su cui voleranno. E non è tecnologia “umana.”
Capitolo 10
Sabato iniziò in calma piatta. Il simulatore di volo era stato spento per caricare e allineare le nuove mappe stellari per le simulazioni oltre l’orbita. Danica aveva preso un giorno libero dicendo che non aveva ancora avuto modo di vedere i dintorni. Io me ne stavo seduto memorizzando le procedure per aprire le ali e per il volo aerodinamico del Grifone, manovre che promettevano di essere impegnative e divertenti. Le velocità caratteristiche erano mostruose: in modalità volo atmosferico, con le ali pienamente spiegate, la navicella sarebbe andata in stallo a 180 nodi. La velocità di approccio finale raccomandata era 220. Questo me la faceva solo amare di più.
Mentre almanaccavo su flap, aerofreni e velocità del carrello, arrivò una chiamata; era Mary Walski che mi avvisava che al cancello principale c’era un corriere con un’assicurata. L’uomo non poteva entrare, quindi dovevo andare io all’uscita e firmare. Il materiale stampato era diventato più sicuro dei documenti elettronici e questa era una crudele ironia. Se un testo esisteva solo in forma stampata non poteva essere facilmente nascosto, copiato o diffuso illegalmente. Se ne esisteva una sola copia era più facile da controllare e più facile da rintracciare. Forse RJ ha ragione a dire che odia la tecnologia.
Fui contento di abbandonare i miei studi e mi diressi al gabbiotto. Il corriere stava discutendo di football con la guardia, qualcosa sul fatto che i Jets erano in ritardo. Quando mi avvicinai si zittì, andò al furgone e tornò con uno strano blocco e una penna dall’aspetto curioso. Lo guardai male: la dannata penna mi aveva preso le impronte mentre firmavo. Il corriere mi porse una valigetta nera con due serrature digitali a combinazione, una per ogni lato della maniglia, e dei sigilli di sicurezza sulle serrature.
Tornato in ufficio, strappai i sigilli, mi sedetti e scrutai le serrature a combinazione. Cinque numeri per ciascuna. Avrei dovuto conoscerli? Mentre me lo chiedevo, il mio computer bippò un messaggio in entrata. Veniva dalla divisione risorse umane e diceva:
Comandante Tarn,
ecco i numeri dei dipendenti che ha richiesto:
L.L. Cummings, 73841 R.L. Anders, 62915
Digitai 73841 a sinistra e la serratura si aprì con uno scatto. 62915 su quella di destra: medesimo risultato.
Quando aprii la valigetta, il primo foglio mi fece ridere. Plastica arancione con stampato in grande “TOP SECRET”. Sotto, una copertina con alcune brevi istruzioni;
TOP SECRET
PERSONALE
NON ARCHIVIARE
DISTRUGGERE DOPO LA LETTURA
DOCUMENTI DI BRIEFING DAL COMANDO
CLASSIFICAZIONE DEL MATERIALE: ATS
DESTINATARIO DESIGNATO: TARN, ADRIAN, COMANDANTE
PERSONALE
REDATTO DALL’UFFICIO PER LE RELAZIONI EXTRAGLOBALI
ATTENZIONE!
Questa è una trasmissione di informazioni riservate e di materiale non destinato alla distribuzione generale. La diffusione dei suoi contenuti a personale non autorizzato e privo dei necessari certificati di sicurezza è strettamente proibita e punibile per legge
TOP SECRET
PERSONALE
Comandante Tarn,
È autorizzato a rivelare le informazioni qui contenute solo se strettamente necessario per portare a termine la sua missione e solo alle persone che ne abbiano un bisogno assoluto. La prego di comprendere che questo accordo è stato stipulato con coloro che ci forniscono tali risorse. Non deve essere effettuata alcuna copia, e dopo il completamento della missione il materiale in questione dovrà essere restituito integro a questo ufficio, che provvederà a inviarlo ai giusti proprietari.
Lecia Townsend
Direttore
Ufficio degli Affari Extraglobali
Washington D.C.
Era facile intuire che dovevano essere le informazioni sui motori classe Stellar. Guardai il simulatore nell’hangar. Non c’erano tende alla mia finestra, ma nel locale non c’era nessuno. Sollevai il leggero foglio di plastica che copriva il contenuto della valigetta.
Erano due manuali molto spessi alloggiati nella gommapiuma. Tutte e due le copertine erano vuote. Una era verde opaco, l’altra grigio chiaro. Estrassi con cautela quello verde e lo aprii alla prima pagina. Il titolo diceva: “Comunicazioni Membrane Ripiegate”.
Ero confuso. Non era quello che mi aspettavo. La pagina successiva conteneva un riassunto. Parlava di comunicazione a lunga distanza con una membrana tra due dimensioni adiacenti. Sfogliai le pagine stupito e trovai i diagrammi di un nuovo pannello di comunicazione del Grifone che non esisteva nel simulatore. Pensavo che dallo spazio profondo non ci sarebbe stata alcuna comunicazione. Questo manuale mi smentiva. Secondo il documento, i dati delle comunicazioni avrebbero potuto essere trasmessi a un pianeta Nasebiano di supporto. Il tempo di trasmissione sarebbe aumentato in funzione dello spazio attraversato, ma avremmo potuto inviare messaggi. Era un Sistema unidirezionale: avremmo potuto inviare ma non ricevere.
Dopo aver gettato una nuova occhiata allungar, presi il secondo libro dal suo incavo. Il titolo in copertina era: “Schermatura Reattiva Multiarmonica”. Lessi velocemente il sommario. Parlava di scudi protettivi. Più avanti c’era il diagramma di un pannello di controllo che non esisteva nel simulatore. Il Grifone aveva degli scudi e dalla descrizione sembravano molto potenti.
Mi lasciai andare sulla sedia. Pareva quasi una missione di guerra. Se nella valigetta ci fosse stato anche un manuale sull’armamento sarei andato fuori di testa. Per come stavano le cose, il Grifone non aveva armi se non quelle leggere, chiuse nell’apposito armadio, ma cominciavo a sentirmi a disagio. Era tutto per far sentire al sicuro l’equipaggio o qualcuno, da qualche parte, si aspettava dei guai? Questa non era tecnologia umana. Che cosa sapevano? Che cosa non ci dicevano?
Con la coda dell’occhio vidi che un addetto alle pulizie era entrato nell’hangar. Misi via tutto, chiusi la valigetta e memorizzai i codici di apertura. Cancellai il messaggio ricevuto e la valigetta entrava a pennello in un cassetto dotato di serratura in basso nella scrivania. Mi appoggiai al tavolo, il mento su una mano; ero perplesso.
C’erano altre cose di cui dovevo occuparmi. Oggi sarebbero arrivati altri membri dell’equipaggio. Wilson era il prossimo. Mi domandai dove fosse e quasi in risposta ci fu un improvviso rumore di vetri infranti. Mi alzai e pensai “Non può essere”. La curiosità vinse rapidamente il dubbio e mi diressi verso la sala ristoro.
Era piegato su un ginocchio con il vassoio in una sola mano, mentre con l’altra raccoglieva frammenti di vetro dal pavimento. Per tenere fede alla sua antipatia verso la moda, indossava pantaloni neri e una canotta gialla. Mary Walski era su di lui e si torceva le mani e scuoteva la testa. Mi appoggiai al divisorio e incrociai le braccia.
“Era pure la mia tazza preferita.”
“Mi dispiace tantissimo. Ho urtato il vassoio. È stato un incidente.”
“Lo sa che è insostituibile, vero?”
“Ne troverò un’altra, lo prometto.”
“Com’è possibile? Viene dalla Stazione spaziale.”
“Gliene troverò una ancora meglio.”
“È possibile?”
Dissi, “Sì, Mary. Garantisco io.” Tutti e due si bloccarono per guardarmi. Wilson strillò e si alzò in piedi. “Adrian!”
“Mary Walski, Wilson Mirtos.”
Wilson mi corse incontro goffamente e mi abbracciò. Fece un passo indietro e mi strinse la mano troppo a lungo. “Cielo, è bello vederti, amico. Questa volta è doppiamente bello.”
Gli misi un braccio intorno alle spalle e sorrisi a Mary. “È un membro della squadra di volo, Mary. Vedrai che ti troverà la tazza. Dobbiamo fare sosta alla stazione, quindi passeremo dal gift shop prima di ripartire.”
Mary si rilassò e lo fissò. “Non ho ricevuto alcuna richiesta di assunzione a suo nome; altrimenti avrei saputo chi era.”
“Sta arrivando. Ho spedito le carte solo un paio di giorni fa” dissi.
“Scommetto che il vassoio era mezzo fuori dal tavolino. Comunque, sono contento di vederti, Wilson.” Lei fece un passo indietro e scosse la testa. “Però, lascio il casino a voi due.” Scosse le spalle e si diresse verso il suo ufficio.
Wilson era cambiato poco dall’ultima volta che l’avevo visto. Il suo grosso petto era lì, sostenuto da due gambe che sembravano appartenere a un pugile. I capelli scuri e corti si erano leggermente ritirati dalla fronte e lo facevano sembrare uno scienziato muscoloso. Le donne lo amavano, in parte perché la sua taglia le faceva sentire al sicuro e in parte perché, contrariamente alla diceria popolare, le dimensioni contano. Wilson era quello che tutti potevano vedere, ma allo stesso tempo lo sguardo attento suggeriva che era pronto all’imprevisto e non lo temeva. Gli occhi nocciola davano l’idea di uno che aveva visto tutto almeno una volta nella vita. Inutile provare a giocarlo. Vedendolo provavo la medesima sensazione di un tempo: era bello che Wilson fosse lì, specialmente se c’era in ballo qualcosa di pericoloso. Ripulimmo I resti della tazza di Mary e rimettemmo attentamente a posto la scopa e lo spazzolone nell’armadio delle scope, in modo che gli addetti alle pulizie non venissero a cercarci. Ci versammo un caffè e ci rifugiammo nel mio ufficio.
“Quindi ecco l’oggetto, eh?” disse Wilson alla finestra sull’hangar
“La metà davanti, perlomeno.”
“Mi ricorda quell’astronave del film sulle scimmie.”
“Non sei il primo a dire ‘sta cosa.”
“Vado matto per i film, lo sai.”
“Ci sarà un sacco di tempo per i film.”
“Dodici mesi, hai detto?”
“È un calcolo approssimativo. Non si sa mai in una missione di ricerca e recupero. Giochi ancora a scacchi?”
“Diavolo, sì. Anche se non vinco molto.”
“RJ viaggerà con noi. Credo che potresti batterlo.”
“Smith? Lo hai trascinato qui?”
“Dubito che avrei potuto tenerlo lontano, nemmeno sparandogli.”
“Be’, comunque, come se la passa quel sedicente filosofo?”
“Al solito. È nell’hangar di fianco, che si addestra sul simulatore dell’habitat. Dovresti passare da lui e fargli sapere che sei arrivato. Ti farà conoscere il nostro Direttore Tecnico.”
“Non vedo l’ora. Muoio dalla voglia di vedere la scatola di latta.”
“Tieniti forte, perché è qualcosa di speciale. Suoni ancora il basso?”
“Ma si capisce. Elettrico per il blues e acustico per il bluegrass.”
“Non portartelo, ok?”
“Accidenti. Scommetto che non si può neanche fumare.”
“Molto divertente. Ecco un tablet con tutto il nostro personale e le risorse. Ti aiuterà a capire. Poi senti il Direttore Tecnico. Quando ti sarai sistemato, conosco un bel posto con delle bariste simpatiche. Ci facciamo qualche birra.”
“Accidenti, è bello essere qui. Ti devo un grosso favore, Adrian. Dopo la tua chiamata, il cielo ha assunto un diverso aspetto. Ti giuro, non vedo l’ora di partire.”
Si alzò, prese il tablet, andò alla porta guardando indietro con un cenno della testa e chiuse la porta così forte da far vibrare il vetro. Il solito vecchio Wilson. Il vetro aveva appena smesso di vibrare quando qualcuno bussò. Aperta la porta entrò un tecnico con un carrello carico di monitor, che girò l’angolo davanti alla mia scrivania
“Ho un ordine di servizio per montare questi e installare i suoi feed video, signor Tarn. Posso farlo ora, o devo tornare?”
“A che servono?”
“Questi forniscono immagini dai due hangar” disse. “Per monitorare quel che succede nei due posti.”
“Wow! Grande. Faccia pure prego.”
“Non ci vorrà molto. Le connessioni sono già a posto.”
“Senta, quello che mi serve davvero è una tenda per ‘sta finestra con vista sull’hangar.”
“Ho anche quella. È arrivata oggi. L’avevamo ordinata. È uno schermo grande come la finestra. È trasparente, ma se vuole un po’ di privacy, può selezionare un’immagine e bloccare la vista dai due i lati. Ovviamente, può servire anche da video.”
“Wow!”
“Eh sì. Se non le è di troppo disturbo, posso montarlo subito dopo questi.”
“Sì, per favore. Ottimo! Vado a farmi un giro.”
Mi divertii a gironzolare, ripulendo il tavolo della sala ristoro e restando a guardare i monitor del centro di controllo. Wilson era chino sulla scrivania vicino a Terry, guardava e faceva domande. Il monitor principale del simulatore dell’habitat riproduceva l’immagine di RJ nei pressi della botola del passaggio di servizio posteriore e porgeva degli attrezzi a qualcuno sdraiato sul fianco in una tuta AEV. Forse era Denard.
Quando l’esercitazione arrivò quasi al termine, andai nell’hangar deserto del simulatore e mi arrampicai fino al ponte di volo. La cabina era fredda e buia. Trovai il punto delle comunicazioni nascoste e degli scudi. Non c’era nulla, solo un rivestimento. Mentre scendevo potevo ancora vedere il mio ufficio, anche se c’era un nuovo pannello video trasparente montato sul vetro. Gli altri monitor contro il muro erano accesi e funzionanti. Uno era settato per controllare il corridoio, l’altro il centro di controllo e il terzo il simulatore ambientale. Si vedeva il tecnico chino sulla mia scrivania. Pareva che stesse armeggiando con il cassetto chiuso. A quel punto, il nuovo schermo si accese, bloccandomi la vista. Corsi lungo il corridoio ed entrai in ufficio con il minor preavviso possibile.
Il tecnico saltò fuori da dietro la scrivania. Non sembrava sorpreso, era preparato. “Stavo sistemando dei cavi. Ho quasi finito.” Lottò brevemente con qualcosa sotto la scrivania e si alzò.
“Il selettore di controllo è qui sul fianco della scrivania. Può gestire qualsiasi monitor e assegnargli una telecamera a scelta. Il grande schermo sulla finestra ha i suoi bottoni proprio sotto la base, qui. Il manuale di istruzioni è sulla scrivania. Se ha domande o problemi basta che ci chiami. Posso fare qualcos’altro per lei?”
“Dovrebbe essere tutto a posto. Grazie.”
“Prego”
Raccolse gli attrezzi e gettò la borsa sul carrello. Gli tenni aperta la porta mentre manovrava per uscire. Appena rimasto solo, andai alla scrivania per ispezionare il cassetto chiuso. Nessun segno di scasso. Aprii il cassetto e la valigetta era ancora lì. La tirai fuori, la aprii e sfogliai i libri: c’era tutto. Sembrava non mancasse nulla.
Mi stavo immaginando le cose? Ero diventato così paranoico che un tecnico video mi sembrava una minaccia? Ma era una coincidenza che si fosse fatto vivo subito dopo l’arrivo dei documenti? Era un caso che pareva lavorare all’unico cassetto chiuso della mia scrivania? Erano solo coincidenze o stavo diventando paranoico? Sedetti, mi sfregai la fronte e decisi che era il momento di smettere per un po’.
Capitolo 11
Il pomeriggio successivo ero in ritardo e tentai di oltrepassare la guardia che oziava al cancello con un semplice gesto amichevole. Mi guardò imperturbabile e tornò al suo tablet. Nel parcheggio, la nuova arrivata armeggiava coi bagagli. Aveva poggiato a terra la valigetta e teneva una borsa su una spalla. Indossava jeans e stivaletti color cuoio allacciati in alto e una camicetta color ambra con le maniche a tre quarti sotto cui si vedeva una collana di perle. I delicati lineamenti del volto avevano un non so che di orientale: astuti e profondi occhi neri, naso piccolo e labbra sottili senza rossetto. Era più piccola di quello che mi sarei aspettato, forse un metro e sessantacinque. Si fermò e mi scrutò non appena mi vide.
“Erin, ce l’hai fatta!”
“La guardia è stata molto gentile. Non aveva i miei documenti ma ha chiesto in giro e alla fine li ha trovati.”
“La guardia è stata gentile con te?”
“È stata molto gentile. Non mi sono ancora registrata, sono appena arrivata. Ma ho parecchie domande, è un brutto momento?”
“Prima è meglio è. Porto io la tua valigetta.”
Ci recammo alla sosta obbligatoria nell’ufficio di Julia, ci fermammo sulla porta del Centro di Controllo, da cui ci scoccarono occhiate lascive, e ci rifugiammo nel mio ufficio. Il mio nuovo schermo impediva la vista dell’hangar mostrando una foto del Pantheon al tramonto. Smanettai un po’ premendo bottoni a caso fino a renderlo trasparente. Restammo a fissare il simulatore sulla sua piattaforma.
“Quindi è vero? Motori classe Stellar?”
“Non li abbiamo ancora visti. Il Grifone vero è all’assemblaggio del Kennedy Space Center e non ci hanno ancora fatti entrare.”
“A che velocità subluce entrano in funzione?”
“Nessuna. Per come ho capito io, il motore classe Stellar ti porta da solo da subluce a velocità luce.”
Sussultò. “Un solo tipo di motore ti porta direttamente a velocità multiluce? Senza motore di amplificazione intermedio?”
“Così pare dalla simulazione.”
“Il valore di assorbimento ed emissioni?”
“Non lo sappiamo.”
“Chi li ha progettati?”
“Ingegneri non umani.”
“Capisco. Posso vedere le specifiche di progettazione?”
“Abbiamo tutti gli schemi dei sensori e dell’interfaccia di controllo, e tutta la circuiteria. Non ci è stato fornito nulla sui motori veri e propri.”
“E che succede se uno si guasta?”
“Ci hanno detto che non si guasta.”
“Ragazzi… gli schemi degli impianti arriveranno?”
“No. Questa è una circostanza speciale. Un’impresa da una botta e via. La nostra missione è localizzare un artefatto, recuperarlo e riportarlo indietro. La stima approssimativa è di dodici mesi.
“E che velocità faremo?”
“Non lo sappiamo, ma lo sapremo.”
“Quante persone?”
“Sette, forse otto, ma scoprirai che gli alloggiamenti sono piuttosto notevoli.”
“Capisco. Quindi, nonostante quello che non sappiamo, impareremo un sacco di roba, no?”
“Andremo più lontano e più veloce di chiunque. Standing ovation, no?”
“Certo. Scommetto che imparerò tutto su questi motori prima della fine.”
“Lo penso anch’io. Ecco il tuo tablet introduttivo. Qui trovi la maggior parte di ciò che sappiamo. Il nostro Direttore Tecnico è Terry Costerly. Hanno preparato un ufficio per te. In realtà puoi scegliere fra tre; forza, ti accompagno, decidi quale vuoi e ti sistemi.”
Ci avviammo nel corridoio fino agli uffici e Erin posò i suoi averi in quello più vicino all’hangar dell’habitat. Mi fermai nel corridoio mentre iniziava ad aprire i bagagli.
“Quando ti sei sistemata, fa’ un giro di orientamento, poi vai da Terry e lui ti organizzerà un programma per familiarizzare con il posto. Sto ancora leggendo i tuoi file e quando avrò finito ti farò qualche domanda.”
“Una missione con un motore che nessuno ha mai visto. Felice di aver risposto al tuo invito, Comandante.”
“Pure io, Erin.”
RJ era seduto nel mio ufficio. La tuta di volo grigia aveva uno sbaffo di grasso sulla spalla.
“Sei scappato ancora, vedo, o ti hanno allentato il guinzaglio?”
“Ti ho visto all’ingresso con una bionda. Ho creduto giusto controllare se lei stava bene.”
“Erin Duan, il nostro secondo esperto di propulsione.”
“Wow! Molto più carino dell’altro.”
“E quello come se la cava?”
“Come ci si aspetterebbe. Terry gli ha simulato una perdita di ossigeno nel passaggio di servizio. È andato e l’ha sigillata, ma poi si è lamentato all’infinito che era troppo semplice e una perdita di tempo.”
“E Terry ha reagito?”
“Ah sì. Dopo l’ultima raffica di lamentazioni, Terry è tornato indietro e ha simulato lo stesso guasto in un modulo di servizio depressurizzato e ha fatto in modo che il vecchio Paris lo riparasse indossando una tuta spaziale. Non così facile. A quanto pare questo lo ha zittito un po’. L’uomo sarebbe già qui a lamentarsi se ti considerasse minimamente significativo.”
“Bene. Ne deduco che l’insignificanza ha i suoi vantaggi.”
“Goditela finché puoi. Non durerà.”
Mentre RJ parlava mi suonò il telefono. Era l’ufficio visitatori del Kennedy Space Center: una persona chiamata Shelly Savoie era arrivata al loro ufficio per errore. Chiedevano se per favore potevamo mandare qualcuno perché era necessaria una scorta.
“RJ, vuoi farti un giro?”
“Volentieri, andiamo via prima che Paris arrivi a spiegarti le cose.”
Lasciando il parcheggio mi avvicinai con cautela alla postazione della guardia. Questa volta non alzò neanche lo sguardo. Girammo intorno all’entrata del settore militare e aumentammo la velocità lungo la Philips Parkway.
“Ehi, prendiamo la strada posteriore che passa dal faro.”
“Fantastico, mi piacerebbe rivedere il vecchio faro. Ecco come dovrebbe essere la tecnologia.”
Svoltammo su Pier Road e guardammo la spiaggia sulla destra. Oltrepassate le vecchie piattaforme di lancio Delta, il campo delle esercitazioni di sicurezza e il poligono, arrivammo alla piattaforma 46. Rallentai fino a fermarmi, e indicai una struttura malandata a destra.
“Vedi quella grossa rampa di cemento che spunta dall’edificio diroccato verso l’oceano?”
“Sì, ne resta ben poco.”
“Negli anni Cinquanta, prima di sviluppare il sistema di guida, lanciavano un veicolo detto Snark da quella rampa. Quasi tutti andavano in pezzi e affondavano nell’oceano. Ho sentito dire da qualcuno che questa spiaggia sia ancora infestata dagli Snark.
RJ rise e strinse gli occhi come se tentasse di immaginarne uno che partiva dalla rampa.
“Sulla sinistra, subito dopo gli alberi c’è una pista di decollo che la maggior parte della gente non ha mai visto, anche se la usano regolarmente. Tutti pensano che esista una sola pista di decollo per lo Shuttle. Questa viene chiamata il “pattinatoio” perché ai suoi tempi un bel po’ di prototipi non atterravano, ma ci slittavano sopra.
“La usano ancora?”
“Ah sì. C’è una torre di controllo. Viene usata per lo più occasionalmente. Vedi quella siepe e quel cancello proprio davanti a noi?”
“Sono abbandonati.”
“Ora. Ma molto tempo fa c’era solitamente ancorato un dirigibile chiamato l’Albertone: veniva usato per la copertura di sicurezza dei radar, prima dei radar attuali. Era un coso che aveva quasi le dimensioni del dirigibile Goodyear ed era ancorato con un cavo speciale anche se aveva il suo timone radiocontrollato e dei motori. La leggenda vuole che ce ne fosse uno uguale usato giù nelle Keys. A quanto pare, durante una tempesta quello delle Keys si è staccato dall’ormeggio ed è andato sull’Atlantico. A mano a mano che la temperatura scendeva, si è abbassato fino a trascinare il cavo nell’acqua. Prima che l’Agenzia potesse metterci le mani sopra, è arrivato un tizio in una barca da pesca e ha pensato che si trattasse di un dirigibile abbandonato. Ha legato il cavo alla barca e ha deciso di rimorchiarlo. Il problema è che, appena si messo in moto, ha ricevuto una bella spinta in su e il dirigibile, la barca e il tizio si sono alzati per aria. Il tipo ha afferrato il giubbotto salvagente, è saltato e il dirigibile si è involato con una barca attaccata sotto. Né l’Agenzia né i militari hanno trovato un modo sicuro per portarlo indietro, per cui hanno mandato un caccia ad abbatterlo. Quella notte, l’equipaggio di terra è entrato di nascosto nell’hangar e ha dipinto un dirigibile sul fianco del caccia, come a dire che ne aveva beccato uno. A me così l’hanno raccontata. Il caccia è nel museo dell’aria e ha ancora su la sagoma del dirigibile.”
“Amico, questa è una bella storia.”
Attraversammo la zona industriale, diretti a ovest oltre il fiume. La strada rialzata della NASA brulicava di traffico e di gente. Parlammo degli impianti che si vedevano e della storia che ci circondava, oltrepassammo le zone di lancio da cui, molto molto tempo fa, i primi space shuttle erano partiti per costruire la prima vera stazione spaziale, il porto circolare che ci aveva offerto un punto d’appoggio per costruire isole in orbita migliori e più grandi. Quelle aree ora erano coperte da enormi cupole, ma il senso di quei tempi era ancora forte in noi. Lontano, il VAB dominava lo skyline e i palchi per gli spettatori erano lì ad aspettare il prossimo grande evento.
Shelly Savoie era seduta sui gradini dell’ufficio Risorse umane. La bruciatura sulla faccia era più notevole di quanto mi aspettassi. Ci presentammo, ottenemmo un badge provvisorio dall’ufficio e la guardammo mentre lanciava le sue gambe su una gigantesca Harley Davidson rosso ciliegia e la riportava in vita.
“Il mio tipo” commentò RJ.
Capitolo 12
L’ultimo, e probabilmente il migliore di noi, arrivò il giorno successivo. Reeves ‘Doc’ Walker entrò nel mio ufficio mentre consultavo le schede del personale. La sua stretta di mano era speciale: dentro c’era una corrente di esperienza e conoscenza che per me era nuova. Il suo atteggiamento irriverente al telefono mi aveva ingannato. In lui c’era della profondità; aveva un atteggiamento di fiducia in se stesso, ma nello stesso tempo sotto c’era dell’umiltà. Non si vergognava del suo successo, ma non lo sbandierava.
Notai che la faccia aveva troppe rughe per essere quella di un cinquantenne. Il suo aspetto fisico sembrava bruciato dal vento. Profondi occhi castano scuro e sopracciglia basse, un mento accentuato e un sorriso rapido e genuino. Sembrava molto più un pilota di caccia che un medico. Gli notai le mani: mani che avevano passato molte ore con una cloche nella sinistra e la manetta nella destra.
Gli chiesi di sedersi, uscii e tornai con due tazze di caffè nero. “Panna e zucchero sono sulla mia scrivania, Reeves.”
“Probabilmente “Doc” sarebbe più appropriato tra noi, Adrian. Ho letto un po’ di cose su di te. Nero va bene. E quello che cos’è?” Indicò la finestra sull’hangar.
“È il ponte di volo del Grifone. Sarà la macchina più veloce e che andrà più lontano di quanto chiunque altro abbia mai fatto.”
“Mhmm. Ho sentito dire di un’astronave che poteva volare come un aeroplano, ma non ho mai pensato che l’avrei vista.”
“Può farlo e farà scalpore. Mi pare di capire che hai lavorato con i Blue Angels.”
“Non proprio. Ho partecipato a parecchi air show che facevano loro. Davo dimostrazioni sui jet per uso personale della Avaron Corporation. Avrei dovuto far vedere che erano a prova di incidente, ma la verità è che ci sono persone che possono distruggere qualunque cosa. In uno degli show, un paio degli Angels vennero a cercarmi. Il capo gruppo aveva un’emicrania del decimo grado della scala Richter, troppo dolorosa per volare. Per colpa di un nervo compresso durante una partita di touch football dietro l’hangar. Gli ho dato del cortisone ed è andato tutto a posto. Dopo questo episodio hanno continuato a venire da me negli air show, oppure se avevano bisogno di qualcosa. Quando preparano nuove esibizioni usano un aereo che li segue e li osserva e alla fine mi hanno invitato a pilotarne uno; poi se gli mancava il quinto, mi chiedevano di volare nelle sessioni di addestramento. Ma non ho mai partecipato a uno show con loro e il mio nome non è mai stato sulla lista di volo.”
“Quei ragazzi sono un gruppo molto chiuso.”
“Più di così non sarebbe possibile. Anche tu hai un bel po’ di ore di volo.”
“Ce l’ho fatta parecchie volte a recuperare errori stupidi.”
“Come tutti, Adrian. Come tutti.”
“A volte di notte ti svegli di colpo.”
Sorrise e bevve un sorso di caffè. “È questo il trucco, non è vero? Cercare di non pensarci.”
“Che cosa ti spaventa di più? Il mondo della medicina o precipitare?”
“Le persone, Adrian. Le persone mi spaventano più di tutto. Quelle che non hanno coscienza. Quelle che pensano solo a se stesse.”
“Vuoi andare a dare un’occhiata al ponte di volo?”
“Fai strada.”
Nell’hangar ci arrampicammo sulla scala esterna e ci affacciammo nella cabina oscurata. Non disse nulla, ma restò lì a guardare con occhio da veterano.
“Quanto tempo hai passato nello spazio, Doc?”
“Non molto, ma si tratta solo di schivare le stelle, no?” Mi guardò con un’espressione mortalmente seria e poi scoppiò in una risata. Non potei fare a meno di unirmi a lui.
“In realtà è vero, ma non si pilota veramente mai. Tutto viene programmato nel sistema di gestione dell’astronave prima di partire, e il computer di navigazione e quello di volo devono approvare quello che hai deciso prima di partire. È molto simile ai velivoli che hai pilotato, ma la scala del display di navigazione è in anni luce o Unità Astronomiche invece che in miglia nautiche. Tutta la faccenda orbitale è roba da joystick e display. E che mi dici dell’attività extraveicolare, mai provato?”
“Ho provato un sacco di volte i voli a zero-G, ma mai in tuta spaziale.”
“Voglio programmare un po’ di simulazione AEV alla piscina del Kennedy Space Center. Ti sta bene?”
“Diavolo sì. Meglio della Disney.”
“Ti mostro il simulatore dell’habitat. Potresti trovarlo interessante.”
Mentre andavamo ci fermammo al Centro di Controllo; RJ e Terry erano lì a guardare un monitor sul quale girava il filmato di una procedura recente. Ci furono le giuste presentazioni e le strette di mano. Danica aveva accompagnato Shelly nel suo appartamento. Nessuno sapeva dove fosse Paris.
Doc rimase veramente impressionato dall’interno del modulo abitativo. Qualcuno aveva settato le pareti degli alloggi per mostrare un pascolo con delle mucche. Avevo un forte sospetto di chi fosse. Come per tutti, anche per Doc il lusso era maggiore di quello a cui era abituato. La più parte dei piloti professionisti passa il tempo libero dormendo in salotto, in uffici sul retro e, qualche volta, anche in macchina. Tornati al Centro di Controllo ho passato a Doc il materiale di studio indicandogli gli alloggi temporanei; quando si imbarcò in una lunga discussione con Terry, io mi eclissai. Doc si stava già organizzando per avere più tempo di volo sul Grifone.
Paris Denard mi aspettava in ufficio. Non aveva gli abiti da lavoro ma un maglione di cashmere verde dall’aspetto ridicolo, pantaloni grigi e mocassini neri. Curiosava in giro, ma teneva le mani in tasca per evidenziare la sua innocenza. Ma non mi ha convinto. In quel momento ho deciso di chiudere l’ufficio a chiave. Io entrai e si fermò guardando in su, per darsi un contegno.
“Ti godi la visuale” commentò e indicò i nuovi monitor settati per vedere il modulo abitativo.
“Li hanno installati solo ieri, ma sì, me la godo.”
“Ti diverti a vedere la gente che salta attraverso i cerchi?”
“Paris, che succede?”
“Scusami se sono brusco, ma questo percorso di addestramento è una stronzata.”
“Sono lusingato che tu abbia considerato l’idea di portarlo alla mia attenzione.” Mi sedetti sull’angolo della scrivania e incrociai le braccia.
Si sedette su una sedia appoggiata al muro. “Io so che cosa sta succedendo qui. È pateticamente ovvio. Lo sai benissimo anche tu.”
“OK, torna indietro un attimo. A cosa ti riferisci esattamente?”
“Stai facendo in modo che il Direttore Tecnico mi tormenti con delle stupidaggini perché sei offeso dalla mia statura.”
Dovetti trattenermi dal ridere. “Paris, non ho detto una parola al Direttore Tecnico sui test o sull’addestramento, e non sono ben sicuro di cosa intendi per ‘tua’ statura. Tutti qui sono al top nel loro campo. Non ci sono subordinati.”
“Il tuo Direttore Tecnico mi ha assegnato compiti al di sotto del mio livello di esperienza. Tu vuoi sminuirmi per farmi sembrare un dilettante, e sbagli, perché non lo accetterò.”
“Paris, parliamoci chiaro. Ciò che hai detto dimostra che il tuo livello di esperienza, come lo chiami, non è così alto come dovrebbe. Se lo fosse, sapresti che i Direttori Tecnici sono entità completamente indipendenti. In una missione sono i poliziotti dell’hardware e dell’equipaggio. Sono fuori dalla giurisdizione di qualsiasi manager e di ogni gerarchia. Si fa così per evitare che persone non qualificate riescano a intrufolarsi in operazioni in cui potrebbero essere un pericolo per la missione o per l’equipaggio. Ogni tentativo di influenzare un Direttore Tecnico fa scattare degli allarmi nell’organizzazione che causano molte più indagini interne di quante immagini. Ti suggerirei di fare attenzione a influenzare Terry Costerly: le conseguenze negative potrebbero essere maggiori di quanto ti aspetti.”
Si bloccò; sembrava vagamente disarmato. Aggrottò la fronte e si morse le labbra; sembrava uno che aveva sbagliato svolta in una città affollata e non sapeva bene che cosa fare.
“Paris, sei sicuro di voler dedicare un anno a questo progetto?”
Riacquistò la sua compostezza. “Ho preso l’impegno.”
“Verso chi, o che cosa?”
“Ne discuterò con Mister Costerly e vedrò cosa ne uscirà.”
“Paris, sappiamo che tu ti reputi in gamba. Ora noi dobbiamo credere che tu lo sia.”
Sbuffò e uscì. RJ stava aspettando fuori dalla porta ed entrò dietro di lui, fermandosi a guardarlo mentre usciva veloce.
“Scommetto che ti sei divertito” disse quando l’orizzonte fu libero.
“Il tipo si crede una leggenda.”
“Sa fare le sue cose bene, Adrian. Quando il Direttore Tecnico ci affida un compito, sa come muoversi e quale sia la procedura giusta. Qualche volta la applica in modo un po’ impacciato, ma conosce il suo campo.”
“Tipo qualcuno che ha tenuto una lezione su qualcosa, ma non ha molta esperienza pratica per farlo?”
“Esattamente.”
“Mhmm. Speravo proprio che potesse mettersi i finimenti e tirare con il resto del gruppo.”
“Che metafora meravigliosa.”
“Comunque, che ci sei venuto a fare qui?”
“Chiacchere. Mi sto addentrando nei sistemi più di quanto sia veramente necessario. A proposito, domani prendo il pomeriggio libero. Hanno bisogno del simulatore per mettere in pari i nuovi arrivati. Voglio andare a pesca con l’alta marea. Puoi prestarmi i tuoi stivali? Spike ha distrutto una gamba dei miei.”
“Direi che il tuo gatto ti manda un messaggio.”
“Questo è certo.”
“Sai che anche la nostra nuova motorista, Erin, ha un gatto? Potreste scambiarvi informazioni sull’addestramento dei felini.”
“Non serve alcun addestramento. Il gatto ha completato il percorso: sono perfettamente addestrato. Il gatto comanda, io sono il suo maggiordomo.”
“Gli stivali sono appesi nel ripostiglio della camera da letto, a destra del vestito che non metto. Hai la chiave.”
“Grazie. Ti prometto di tenerli lontani da Spike.”
Sorrise e mi lasciò ai miei cattivi presentimenti su Paris Denard. L’uomo aveva ricevuto troppi riconoscimenti in cambio di troppo poco dolore, e ora li indossava come medaglie al valore. Un altro po’ di notorietà e il suo ego lo avrebbe portato a un passo dalla trappola che aspetta quelli che amano troppo se stessi. La stessa piccola trappola pericolosa che attira gli arricchiti e coloro che hanno successo da giovani. Quando fama e notorietà fanno presa, improvvisamente ci si trova circondati da un’ampia serie di privilegi eccessivi, praticamente sempre disponibili. In modo innocente si comincia individuando i privilegi che non offendono la nostra morale o la nostra etica, con un occhio su quelli che invece sì, che la offendono; ma dopo un po’ i confini sfumano e diventano tutte cose che ci meritiamo di sicuro, una parte normale della vita eccezionale che conduciamo. I compromessi diventano sempre più grandi, fino a sentirci talmente presi da questi privilegi da essere posseduti dalla spregiudicatezza e dipendere da chi che ce li procura. Questa è la trappola. Ci si perde, un peccato alla volta, finché gli esseri diabolici specializzati nei peccati ci trasformeranno in un loro servitore e faremo praticamente ogni cosa per ottenere i loro scopi. È a questo punto che molti individui ricchi e famosi decidono che non c’è ritorno, non possono lasciare. Si danno da fare per riempire di scandali e di necrologi giornali e riviste: persone che hanno dato così tanto, che erano così amate da far sembrare impossibile che si siano uccise. Saranno ricordate per sempre. Ci sarà gratitudine per sempre.
Poi ci sono quelli abbastanza intelligenti da capire per tempo cosa sta succedendo. Hanno già scoperto che i ponti sono stati tagliati, che sono crollati. Non c’è modo di tornare. Ma andare avanti vuol dire tuffarsi nel buio soli e delusi. L’unica possibilità è eliminare gli eccessi. Abbandonarli del tutto vorrebbe dire diventare una persona normale, con la conseguente spaventosa svalutazione. Quindi si prova a saldare gli stili di vita eccessivi con un’esistenza che non svuoti del tutto l’anima, ma si ottiene solo un crollo più lento e più duraturo. È una piccola storia orribile accaduta a tante persone meravigliose e dotate e allora dovrà pur esistere un sistema per porvi rimedio. Invece le luci sono troppo accecanti e il premio troppo attraente. Le droghe non bastano, possono solo spingere più avanti l’illusione. Paris Denard aveva parecchie illusioni. Una di queste era di quella di accompagnarci nella missione Nadir.
[1] Sport analogo al football americano dove gli atleti giocano senza protezioni poiché per fermare l’avversario portatore di pallone si deve effettuare un tocco a due mani tra spalle e piedi.
Capitolo 13
La nuova settimana iniziò con uno splendido giorno di simulazioni. La prospettiva della partenza verso destinazioni sconosciute diventava sempre più reale: l’equipaggio era completo e iniziava ad amalgamarsi. Feci da copilota per Doc e poi a Shelly. Con mia grande sorpresa, Terry fece provare a Doc una procedura di attracco alla Stazione Spaziale Mondiale e l’uomo la affrontò come se non avesse fatto altro nella vita. “Proprio come un videogame” fu il suo unico commento.
Anche Shelly era una professionista consumata. Se Danica era aggressiva, Shelly era paziente e precisa. Vedere due piloti dotati guidare una nuova nave spaziale era qualcosa per cui valeva pagare il biglietto. Era un privilegio ammirare la loro abilità dal sedile di copilota e non dovetti mai suggerire nulla. Loro non avrebbero potuto ignorarmi più di così, considerandomi una distrazione inutile. Più tardi, al Centro di Controllo, trovai Terry altrettanto giubilante e dovemmo faticare un bel po’ per nasconderlo.
Qualcuno ordinò della pizza. Eravamo nella sala ristoro a scambiarci scherzi e brani di conversazione ottimistica quando il mio telefono squillò. Tenendo in equilibrio un pezzo con salame piccante e funghi, riuscii ad aprirlo e a rispondere. Era RJ.
“Ehi, Kimosabi, sono qui da te a prendere gli stivali.”
“Abbiamo appena fatto un paio di voli da manuale, RJ. La vita è bella.”
“Senti, un paio di cose. Non hai chiuso a chiave la porta laterale?”
“Non credo. Era aperta?”
“Sì. La chiudo io quando esco.”
“OK, grazie.”
“Il rubinetto del lavandino della cucina perde e non riesco a fermarlo. Forse ti conviene farlo aggiustare prima di partire.”
“OK, c’è altro?”
“Solo una cosa. C’è qualcuno che dorme nel tuo letto.”
“Cosa??”
“Pensavo che si trattasse solo di un mucchio di coperte, ma poi ho visto dei capelli neri sotto il cuscino.”
“Capelli neri e lunghi?”
“Capelli neri e lunghi, già visti.”
“Oh-Oh.”
“Ah-Ah.”
“Meglio se vengo a casa.”
“Ricordati di non correre davanti alle guardie.”
Mi affrettai ad avvisare Terry che me ne stavo andando e poi di corsa verso la Corvette. La guardia prese nota e rimase immobile. Stringendo il volante per allentare la tensione, mostrai un sorrisone e gli feci un gesto andando via lentamente, ma appena fuori vista mi misi in velocità tipo volo a livello terra, appena poco inferiore alla velocità che fu fatale al leggendario Dale Ernhardt Sr. Se qualche satellite municipale monitorava la mia velocità, mi ero guadagnato un verbale via mail. Data la lentezza della pubblica amministrazione, probabilmente non sarei più stato a casa al momento del recapito.
Intrufolandomi nella mia stessa casa, la trovai ancora addormentata, con la testa coperta dai cuscini. Senza svegliarla, mi sedetti piano sul letto e alzai lentamente un cuscino. I capelli neri le coprivano la faccia. Li spostai con cura e li accarezzai. Con gli occhi ancora chiusi emise un sospiro e la mano destra le si alzò in maniera incosciente finché non trovò il mio petto e vi si appoggiò contro, attaccandosi a me per la sua sicurezza.
Qualche anno luce fa, io e Nira Prnca ci eravamo legati per caso nel vuoto dello spazio, durante alcuni momenti spaventosi in cui la vita era diventata una prospettiva incerta. Ci eravamo stretti l’uno all’altra come amanti focosi, separati da innumerevoli livelli di supporti vitali pressurizzati, goccioline del suo sangue che le macchiavano la tuta danneggiata, il rosso che mi scivolava tra le dita mentre tentavo furiosamente di curare il disastro. Avevamo condiviso la vita dal mio zaino, scambiato il respiro attraverso un cordone ombelicale di fredda plastica, e ci eravamo fissati attraverso il vetro dei caschi, nella speranza di assicurarci l’un l’altro di essere ancora lì e che nient’altro era altrettanto importante. E poi, quando la vita aveva ritrovato la sua compostezza e la minaccia dell’eternità era passata, entrambi avevamo scoperto che qualcosa era rimasto. Ci eravamo reciprocamente raccontati più di quanto si dovrebbe. Segreti erano stati rivelati. Dovevamo fare un accordo per tenere al sicuro quelle rivelazioni. Doveva esserci intima fiducia.
Lei aveva compreso quanto successo meglio di me e me lo aveva spiegato poco dopo in un modo così primitivo che persino io compresi che qualcosa di straordinario ci aveva cambiati. Dentro, si era avviata una piccola fusione, lasciando la luce delle stelle dove prima c’era solo oscurità; una luce perpetua che aveva benedetto le nostre menti e i nostri cuori.
Accarezzai la decisa linea del mento con il dorso delle dita. La mano che mi stringeva mi tirò giù. Senza aprire gli occhi, si girò e mi mise l’altro braccio intorno al collo, mormorando nel dormiveglia. Appoggiai le labbra sulle sue e fui tirato giù con forza. Le coperte che coprivano il suo corpo nudo furono spinte via. La mano destra armeggiò con la mia tuta di volo, seguita da un mormorio infastidito. Eliminate tutte le barriere, ci agganciammo l’uno all’altra, girando e rigirando, senza fiato per lo sforzo e fermandoci solo per rinnovare gli scambi di sensualità e desiderio. Ogni volta che il desiderio diminuiva, si ripresentava prepotente. Avevamo perso troppo tempo, ma niente era stato dimenticato. La stella bruciava ancora, il patto di intimità era ancora valido. La luce del sole che filtrava dalle tende divenne dorata e poi svanì. Le isole di sonno che si erano insinuate tra gli atti d’amore divennero sempre più lunghe. Infine giacemmo avvolti nel reciproco esaurimento fisico.
Quando la luce del nuovo giorno filtrò attraverso le tende, aprii gli occhi e la trovai al mio fianco che mi guardava, una mano appoggiata sul cuscino per vedermi meglio.
“Che cosa ho fatto per meritarmelo?”
La sua voce era secca e sensuale. “Qualcuno deve tenerti d’occhio, ogni tanto.”
“Come sei arrivata?”
“Immagino che un volo da Washington a Orlando dovrebbe essere facile e veloce. Invece sono rimasta bloccata ad Atlanta per tre ore. Sono rimasta sveglia tutta la notte e sono arrivata al mattino tardi.”
“Non ti daranno per dispersa?”
“Oh, sì.”
“Perché l’hai fatto?”
“Dicerie e indizi.”
“Cioè?”
“Uno di noi due si è arruolato per qualcosa extra-mondo senza dirlo all’altro.”
“Ah-Ah.”
“Quindi in che cosa si è lanciato questa volta il mio eroe in armatura ammaccata?”
“È successo da poco. Cercavo il momento adatto.”
“Mhmm, capisco il tuo dilemma. Non ci sarà mai un momento adatto.”
“Non c’era scelta. Ho dovuto farlo.”
“Non c’era scelta, mammina. Ho per forza dovuto mangiare la marmellata.”
“Ci sono interessi importanti. Debiti da pagare. Alleanze da mantenere.”
“Non è sempre così, amore? Quanto durerà?”
“L’impegno è per dodici mesi, ma da quello che ho visto probabilmente sarà meno.”
Si alzò su un gomito. “Un anno? Un intero fottuto anno? Mi prendi per il culo?”
“Potrebbero anche essere solo sei mesi. Non ho ancora tutti i dettagli. È così segreto che ne sappiamo solo la metà.”
Si lasciò andare supina e alzò le braccia disgustata.
“Non avevo scelta, ti prego di credermi.”
Mi scoccò uno sguardo duro e strinse gli occhi. “Facciamo un patto: d’ora in poi ci arruoleremo in missioni lunghe solo se partecipiamo entrambi.”
“Ok, ma dobbiamo fare una leggera modifica: proveremo ad accettare solo missioni a cui potremo partecipare entrambi. Non voglio trovarmi in una situazione in cui potrei essere costretto a rompere la promessa, o magari tu.
“Ok, è giusto.”
“Poi c’è quella parolina che comincia con ‘Matr…’ e in questi casi dà qualche vantaggio. Anche se l’idea mi spaventa da morire.”
“No proprio. Non voglio l’orribile marchio del matrimonio. Se ti fai vedere nella mia stanza voglio che sia perché vuoi essere lì e non per altro.”
“Non può essere per nient’altro.”
“Ricordi che ti ho parlato del mio ex marito, il diplomatico, che andava e veniva e io andavo su e giù in missione e stavamo insieme per finta?”
“Non sono granché come consigliere matrimoniale. Perché lo dici?”
“Io sarò bloccata per un po’ all’analisi dati e tu torni in verticale. Non voglio che ci succeda la stessa cosa.”
“Nira, non posso proprio farti partecipare a questo viaggio.”
“Ma tu perché vai? So che deve essere un viaggio dannatamente pericoloso, sennò l’agenzia non ti avrebbe scelto. Deve essere qualcosa di davvero importante per loro e così fottutamente pericoloso che pensano che tu sia il solo ad avere la possibilità di uscirne, vivo? Li conosco. È così che fanno. Ho ragione? Perché cazzo hai accettato? Sei al comando. Con l’Electra hai visto la morte in faccia e non ti è bastato? Perché vuoi di nuovo lanciare i tuoi dadi? Perché hai accettato?”
“Bambola, a volte sei troppo intelligente. Ma senti una cosa: che ne è stato dell’extraterrestre che abbiamo riportato indietro sedato dall’ultimo viaggio?”
Esitò poi farfugliò: “Non posso parlarne. È più che top secret.”
“Io sono autorizzato a più che top secret.”
“Ma comunque non posso parlarne. Lo sai, santo cielo.”
“Ecco, esattamente. Devo fare la missione, e non posso dirti perché. Ci sei?”
“Sei un subdolo bastardo, Adrian. Sì, va bene.”
La spinsi a letto e la baciai, parlandole a due centimetri dalle labbra: “Non potresti comunque venire perché non potrei sopportare l’idea che ti possa succedere qualcosa, una cosa qualsiasi. Manderebbe all’aria la mia struttura di comando. Qui, a terra, so che sarai al sicuro. Mi aiuterà a portare a termine la missione e a tornare da te.”
Sbuffò e mi colpì con il cuscino.
Le preparai delle uova strapazzate col cheddar. Le aggredì con la ferocia di una tigre. Sedemmo con una tazza di caffè in mano e ci guardammo mentre cavalcavamo un treno di emozioni in continuo conflitto. Doveva tornare subito; il suo volo era appena dopo le cinque. Sistemammo due sedie pieghevoli nel retro della Corvette e andammo al suo posto preferito sulla spiaggia, appena a sud del Molo. Ci sistemammo in modo che la marea montante arrivasse appena prima delle sedie cercando di dirci le cose importanti e progettando cosa fare per quando sarei tornato. Un viaggio dove nessuno avrebbe potuto disturbarci. Saremmo rimasti finché volevamo e al diavolo tutto. Era molto seria e, per una volta, pure io.
La accompagnai all’aeroporto restando con lei fino a dove era possibile. Il posto era affollato, ma per noi non c’era nessuno. Ci abbracciammo a lungo, fin quando le chiamate per la partenza divennero minacciose. Non mi salutò, ma ci guardammo finché non scomparve.
Il giorno diventò cupo. Avevo pensato di convincerla a chiedere un permesso per rimanere in Florida fino al giorno della partenza, ma avrebbe reso la separazione ancora più dolorosa. Era già stato investito troppo nella preparazione e lei non doveva restare a disposizione per il mio tempo libero, che sarebbe stato troppo poco. Improvvisamente il mio lavoro a Genesis non era così bello. Gironzolai assistendo alle discussioni in corso, al dramma degli errori simulati e delle soluzioni. Ero malinconico, ma il lavoro del team a Genesis era eccezionale e mi risollevò. Lo staff di Julia appariva ogni tanto con delle domande. La sala ristoro era un casino, perché ciò che succedeva era talmente più importante che nessuno se ne prendeva cura. La gente era su di giri, entusiasta. Tutti tranne me.
Capitolo 14
Genesis iniziò a funzionare a pieno regime. Ogni giorno segnava un nuovo livello di efficienza. Nel modulo abitativo, gli specialisti impararono come trovare ogni cosa senza doverci neanche pensare. Lavorarono sulla manutenzione e sull’individuazione e correzione dei problemi. Le rotazioni del personale furono gestite in modo da far sviluppare una buona relazione tra i membri. Quasi tutti furono bravi in questo, qualcuno un po’ meno.
I quattro piloti si alternarono alle simulazioni di volo, un team alla volta, con sostituzioni, per essere sicuri di operare sulla medesima lunghezza d’onda. I test di volo diventarono più aggressivi. Le carte stellari erano state caricate nel sistema, ma i voli orbitali furono l’argomento principale dei test, perché richiedevano lo sforzo maggiore dalla squadra di volo. La programmazione dei viaggi a velocità luce iniziò con rotte simulate oltre il sistema solare. Con sommo sollievo del Direttore Tecnico, nessuno tentò di passare attraverso una stella.
Durante le interruzioni dei test, spesso piloti e tecnici si scambiavano il simulatore. I piloti per imparare a conoscere il modulo abitativo, mentre i tecnici facevano pratica con i controlli sul ponte di volo e la navigazione interstellare. Tutti dovevano essere certificati sul sistema di navigazione. Questo standard risaliva a un paio di incidenti imbarazzanti avvenuti ai primordi del volo a velocità luce: è successo che i navigatori non potevano svolgere le loro funzioni e i piloti non conoscevano abbastanza bene gli strumenti per tornare a casa.
I risultati del nostro equipaggio furono più che incoraggianti. Talmente buoni che sembrava di guardare un gran film: tutti i malfunzionamenti imprevisti avviati dal Direttore Tecnico venivano sistematicamente analizzati e risolti. Solo in pochi casi la missione non avrebbe potuto continuare. La squadra di volo si comportava così bene da essere quasi preoccupante. Ero alla scrivania e da lì vedevo che superavano praticamente qualsiasi cosa gli venisse lanciata contro. I piloti e i copiloti anticipavano benissimo i bisogni reciproci, tanto da agire ancor prima che l’altro finisse di parlare.
Fiducia immensa. Non era possibile adottare questo comportamento.
In un giorno particolarmente di successo, aspettai che Terry venisse nel mio ufficio a darmi i risultati delle prestazioni giornaliere. Mi imposi di non chiamarlo. Queste persone erano troppo intelligenti: se lo avessi chiamato nel mio ufficio, un paio di loro lo avrebbero notato e se ne sarebbero chieste il perché. Si sarebbe sparsa la voce. Terry entrò e mi sorrise come un uomo che stava facendo un gran lavoro.
“Sono bravi, Adrian. Molto bravi. Non so dove li hai trovati, ma hai avuto una bella fortuna.”
“Sono preoccupato.”
“Non riesco a immaginare perché.”
“Troppo bravi.”
“Oh. Non vuoi che gli dia alla testa.”
“Esattamente.”
“Che cosa vuoi?”
“Voglio che si schiantino almeno una volta, per riportarli alla realtà. Nella vita reale non si vince sempre.”
“Hai ragione. Che cosa vuoi che programmi?”
“Voglio una spinta standard per rientrare dall’orbita e poi un incendio all’impianto elettrico. Perdono la spinta gravitazionale e tutta la potenza. Devono aprire le ali, rientrare morti stecchiti senza motori. Il solo punto di rientro è all’estremo dei margini di sicurezza; il computer del sistema di volo dice che possono farcela, ma devono superare degli ostacoli. Quando ci arrivano, un’inversione di temperatura li porta troppo in basso per farcela.”
“Adrian, questo è sadismo allo stato puro. Non ti facevo così.”
“Sarò io il primo a provare questa simulazione. Faremo così: tutti sapranno che cosa sta per arrivare, ma senza conoscere i dettagli. Sapranno solo che mi sono schiantato. Saranno ansiosi di superarmi; si faranno tirare dentro fino al collo. Attireremo la loro attenzione. Ci proveremo tutti da soli. Non voglio che gli altri possano dare un’occhiata prima del loro turno.”
“Bene, devo dire che rendi la vita interessante. Non vedo l’ora: mettere i migliori che ho mai visto in una situazione impossibile. Non riesco a immaginare cosa succederà.”
“Che cosa vedremo sugli schermi?”
“All’impatto vedrai una grande sfera di fuoco su tutti gli schermi. La piattaforma si piegherà di lato e tremerà. Durerà per dieci o quindici secondi, poi il sistema video si riavvia.”
“Perfetto, possiamo farlo girare questo pomeriggio?”
“Certamente. Devo solo assicurarmi che i programmatori tengano la bocca chiusa. Buona parte del team della simulazione e dell’equipaggio sono diventati fin troppo amici.”
“Resto qui in attesa. Fammi sapere l’ora prevista della mia morte e mi assicurerò di esserci.”
Rise e uscì con la mente già intenta a studiare il software.
La simulazione di volo fu fissata immediatamente dopo pranzo. Il condannato mangiò bene. Morte simulata a stomaco pieno. Essere allacciato da solo nel cockpit attivo dava una sensazione un po’ strana, ma mi godetti l’ascesa in orbita e mi presi del tempo extra per guardare il mondo simulato che scorreva sotto di me. Sulla via del ritorno, colpii la cima dell’ultima montagna a 180 nodi. All’impatto la simulazione emise una specie di sospiro, poi un ruggito esplosivo mentre la sfera di fuoco si dissipava e il cockpit si bloccava.
La notizia si diffuse come un fuoco. Qui e là non si poterono evitare conversazioni a bassa voce non volute. Shelly era la prima, ma era troppo intelligente. Si fece di certo delle domande sul fatto di un solo pilota. Durante la discesa l’incendio alle parti elettriche non sembrò preoccuparla. Anche in presenza dell’emergenza le sue reazioni al rientro dall’orbita furono tranquille e decise e, nonostante una condotta di volo meticolosa, esplose esattamente come avevo fatto io. Nel Centro di Controllo le sorrisi e la abbracciai. Negli occhi si leggeva rabbia, che controllò con la perizia di un diplomatico.
Poi toccò a Doc. Cambiai idea e sedetti al posto del copilota, non volendo perdermi un maestro che tentava di indurre un velivolo morto a superare una cresta montuosa. Nonostante la sua abilità sinfonica alla ricerca di una spinta addizionale, esplose in una palla di fuoco come gli altri. Appena finito, entrò al Centro Controllo con una tazza di tè in mano e mi rivolse uno sguardo inespressivo che diceva molto. Lo sapeva. Capiva ciò che stavo facendo. Non lo avevo ingannato neanche per un secondo. Imprecai contro me stesso e lui sorrise.
Seduto al posto del copilota attesi il reset e Danica. Mentre aspettavo arrivò una chiamata. Erano Julia Zeller e Mary Walski.
“Adrian, devi venire qui in ufficio subito.”
“Ora sono un po’ occupato. Di qualunque cosa si tratti può aspettare.”
“No, Adrian. Ferma tutto quello che stai facendo e vieni qui, adesso.”
Sospirai e scossi la testa. Mi fidavo di Julia: non avrebbe insistito se non fosse stato necessario. Potevo vedere il viaggio di Danica verso la distruzione in replica sui monitor. Sganciai le cinture, trovai Doc e gli chiesi di fare da copilota, avvertendolo di non offrire nessun aiuto, e poi andai da Julia.
Era al telefono con qualcuno. Julia puntò al vivavoce e poi a me. “È Richard Allen dall’impianto di assemblaggio. Richard, Adrian Tarn è appena arrivato.”
“Buon pomeriggio, comandante. Stavo per chiamarla non appena avrei avuto l’approvazione dai miei superiori. Siamo quasi pronti a consegnare la vostra nave.”
Rimasi di fianco alla scrivania e l’adrenalina iniziò a scorrere. “Non ci davamo del ‘tu’ una volta? Non so dirti quanto apprezzi la tua chiamata, Richard. Quando potremo vederla?”
“Mentre parliamo stanno mettendo l’ultimo dei sigilli di ispezione. Quando ti piacerebbe venire per una prima visita?”
“Diciamo, questa sera? Dovremmo terminare i nostri test sul simulatore tra pochi minuti.”
“Ottimo. Ci vediamo all’entrata dell’hangar. Julia ha i miei contatti. Quando parti mandami un messaggio.”
“I miei ringraziamenti più sinceri. Richard. Ci vediamo lì.”
Riappese e noi tre rimanemmo a guardarci l’un altro pregustando il momento. Julia chiese impacciata “Possiamo venire?”.
Annuii mentre lei mi dava una penna e un faldone elettronico di documenti che richiedevano la mia firma. Il mio sguardo accigliato non la commosse; mi sorrise e tentò di apparire comprensiva.
Sbalordito, tornai in ufficio. RJ mi beccò nell’ingresso. “Adrian, sono appena morto.”
“Anche tu? Ci deve essere qualcosa nell’aria.”
“Ero chiuso fuori dall’astronave e non potevo rientrare per colpa di chi-sai-tu.”
“Oh, merda.”
“Oh, sì.”
“Beh, c’è qualche buona notizia.”
Inarcò un sopracciglio in attesa.
“Stasera andiamo a vedere il Grifone, a meno che non ci sia una veglia o qualcosa del genere.”
“Wow, qualcun altro lo sa?”
“Non ancora.”
RJ schizzò fuori. Risi tra me e mi avviai; nel mio ufficio c’era Terry che mi aspettava. Era arruffato e confuso; non lo avevo mai visto così.
“Com’è andata, maestro?”
“Lei ce l’ha fatta.”
“Chi ha fatto cosa?”
“Danica ce l’ha fatta. Ha portato in salvo il Grifone.”
“Com’è possibile, doveva essere una situazione senza via d’uscita.”
“Lo era. Mi spiace. Abbiamo persino programmato di modulare il livello di inversione di temperatura in base alla curva di gestione dell’energia del Grifone, in modo che ci fosse sempre un differenziale di pressione troppo alto per ottenere una spinta sufficiente a condurre l’astronave oltre quelle montagne.
“E quindi come ci è riuscita?”
“Ha battuto la simulazione. Ha visto che il margine per oltrepassare le montagne andava da 100 a 200 piedi sull’indicatore di planata e non le è piaciuto. Tutti gli altri hanno pensato che fosse abbastanza. Quando ha colpito l’atmosfera ha riavviato l’unità di potenza ausiliaria e quando l’inversione di temperatura ha iniziato a trascinarla giù, ha riacceso anche i motori del sistema di controllo orbitale. Ovviamente non sono partiti, ma dalla rotazione di quei motori ha ottenuto abbastanza spinta per oltrepassare i picchi. Il radioaltimetro indica che ha superato il più alto per due piedi, sessanta centimetri. Ha planato per il resto del volo, senza alettoni né flap ed è atterrata a un centinaio di metri dalla pista. Non poteva sapere come la gravità avrebbe influenzato il suo rientro, ma ha aspettato abbastanza a lungo da evitare la resistenza del carrello. Non ha neanche graffiato la vernice, accidenti.”
“Fammi capire: sta per schiantarsi sulla cima delle montagne come tutti noi e riavvia i motori al momento giusto per ottenere abbastanza spinta per farcela?”
“Esatto. Come ho detto, le registrazioni indicano che ce l’ha fatta per due piedi.”
“È davvero incredibile.”
“Esatto. E adesso che farai? Si supponeva che ne uscisse umiliata.”
“C’è qualche possibilità che abbia visto il programma in anticipo? Doc ha detto qualcosa? Avrebbe potuto sapere ciò che stava per succedere e prepararsi in anticipo? Ha parlato con Shelly?”
“No, nessuno ha detto niente. Doc era strabiliato come tutti noi. Stava solo navigando a vista. Sono sbalordito. È sempre aggressiva, anticipa l’astronave. Te l’ho già detto, hai fatto un cazzo di affare con questo pilota. Non ho mai visto niente del genere.”
“A che velocità è uscita dalla soglia di fuga?”
“128 nodi. Due nodi più lenta e sarebbe precipitata. Avrebbe dovuto fallire. Che cosa farai ora?”
“So che cosa farò. Lo farò rifare a tutti, con lei seduta di fianco come copilota, e ce lo insegnerà. Dannazione. Sarà una ragazzina a insegnarci. Lo aveva detto che si sarebbe presa la nostra mascolinità, se non stavamo attenti. Credo che l’abbia appena fatto.”
Mentre io e Terry parlavamo, fuori dalla mia porta iniziava a radunarsi un po’ di gente. La voce che il vero Grifone era pronto per un’ispezione si era sparsa alla velocità della luce. Paris Denard si fece strada tra gli altri e non si preoccupò di bussare: aprì la porta e si sporse all’interno.
“Abbiamo bisogno di qualcosa di particolare per procedere?”
“Solo di me, Paris.”
“Aspetterò in sala ristoro.”
“Buona idea.”
Terry e io scambiammo uno sguardo scocciato e lui chiese “Per procedere?”.
“Ci faranno entrare nell’hangar del Grifone.”
“Accidenti, aspetta che spengo tutto.”
Nessuno voleva aspettare e tutti presero il proprio veicolo o si fecero dare un passaggio. Io e RJ nella Corvette guidavamo il gruppo. Sembrava un po’ una parata e un po’ una sfilata del circo. Le guardie al cancello sud furono subito allarmate, poi divertite. Tutti avevano il badge a posto e a tutti fu consentito di entrare.
La gente nel parcheggio del VAB e del Kennedy Space Center si fermò a guardare il gruppo. Riempimmo praticamente tutti i posti vicino al cancello e il direttore Richard Allen uscì ad aspettarci. Quando vide l’esercito dei tifosi del Grifone dirigersi in massa verso di lui, scoppiò a ridere.
“Per fortuna è un hangar grande, Comandante” commentò mentre gli andavo incontro con la mano tesa.
“Niente avrebbe potuto fermarli.”
Guardò il gruppo. “Da questa parte, prego.” Ci condusse alle pesanti doppie porte di metallo e, con un secondo sguardo indagatore dietro le spalle, digitò il codice di accesso e aprì.
Il Grifone era lì, come un trofeo bianco lucido specchiato. Sembrava più grande del simulatore. Si reggeva su una struttura di atterraggio piccola e massiccia, realizzata per occupare il minor spazio possibile una volta ritratta. Non si vedevano spigoli. Era una costruzione in un pezzo unico che sembrava essere stata colata direttamente in un crogiuolo. La mia attenzione andò subito ai motori stellari. Erano montati presso la fusoliera; le prese formavano due ellissi su ogni lato, una più grande e l’altra circa un quarto della prima. Erano fusi insieme come una singola unità e il corpo ellittico più piccolo era all’esterno. Le prese erano coperte e qualcuno, per scherzo, ci aveva messo sopra un nastro che diceva “Rimuovere prima dell’uso”.
Sentii una voce da dietro. Era Paris Denard: “Vedete quelli? Ci sono due motori; quello piccolo è subluce, il più grande ultraluce”. Andò sotto il più vicino e si mise a guardare in su.
Richard Allen era di guardia alla scaletta del portello anteriore. Alzò una mano e chiamò. “Un attimo di attenzione, per favore. La sola cosa che vi chiedo se entrate in cabina è di mettere le soprascarpe antistatiche. Sono qui a destra lungo la rampa di scale. Grazie.”
Quando la fila iniziò a diminuire, mi coprii le scarpe e notai che le mie pulsazioni erano leggermente accelerate. In cima alle scale, il portello sembrava in qualche modo diverso. Come mi aspettavo, il ponte di volo era freddo e scuro, anche se dava una sorprendente sensazione di vita. Alcuni dei controlli e degli interruttori sul simulatore Genesis erano rappresentazioni non funzionali, ma qui tutto era reale e c’era anche qualche extra. Guardai dove erano posizionati i controlli degli scudi e delle comunicazioni. In quel punto c’erano pannelli di accesso che non esistevano nel simulatore. Ancora una volta si fece strada in me l’impulso di sedere nel posto a sinistra, ma lo tenni a bada.
L’habitat e le aree a poppa erano praticamente identiche a quelle del simulatore, sebbene fosse chiaramente percepibile che tutto qui funzionava davvero. Tutto dava la sensazione di una cosa complessa. Mi fermai appena oltre il portello anteriore, guardando l’interno spazioso e bianco dell’area abitabile e tentando di immaginare mesi di vita sospesa lì dentro. Altra botta di realismo. Nella sezione cuccette visitai il compartimento superiore, assegnato al comandante della missione. Mi vedevo proprio lì dentro, ma non riuscivo a pensare a cosa avrei provato. Nella palestra, c’erano i sigilli di ispezione su ogni oggetto. L’equipaggiamento era lì in attesa di diventare necessario. Più oltre, il laboratorio medico-scientifico era più pulito e in ordine di quello del simulatore. Odorava di ospedale. Le superfici d’argento lanciavano lampi di luce. Nel portello posteriore, la botola di accesso al modulo di servizio era chiusa e sigillata. La porta esterna del portello era aperta con delle scale per l’uscita. Mi voltai a guardare la nave deserta. Casa per un anno. Cosa avremmo visto fuori da questo guscio fra sei mesi, a partire da ora? Che cosa avrebbe trovato nell’ignoto questa nave? Chi ci sarebbe stato allora?
Tornati a Genesis, al cancello mi stava aspettando un altro corriere con posta assicurata. Parlava con la mia guardia preferita. Mi identificò e mi chiese di firmare per un’altra valigetta. La infilai nel finestrino del passeggero e la lasciai cadere in grembo a RJ. Proseguimmo, parcheggiammo e RJ avrebbe voluto una spiegazione. Ma quando non gliene offrii, si rassegnò.
In ufficio chiusi la maledetta porta e oscurai la finestra. Sapevo che questa valigetta doveva essere per i motori classe Stellar. I codici dell’altra valigetta funzionarono anche per questa. La aprii, misi da parte i messaggi di sicurezza e fui sorpreso di trovare altri due libri con la copertina bianca. Estrassi quello di sinistra, lo aprii e rimasi sbalordito. Il titolo diceva:
Armamento a raggi ad accumulo di particelle.
Voglio collaborare.
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Nel gruppo abbiamo anche recuperato Paolo Beretta che aveva avuto problemi tecnici e che accogliamo con grande simpatia nel nuovo gruppo di traduttori. Abbiamo una chat Messenger con cui scambiarci opinioni e richieste, da cui contattare direttamente E. R. Mason per le frasi, o le parole che ci paiono complicate, o poco chiare. Inoltre tutti collaborano anche oltre le traduzioni, per la revisione dei testi, o la preparazione delle pagine finali. Aspettiamo disegnatori, per una bella copertina del libro finale! E altri traduttori, naturalmente.
nato nel 1944, non ha tempo di sentire i brividi degli ultimi fuochi della grande guerra. Ma di lì a poco, all'età di otto anni sarà "La Guerra dei Mondi" di Byron Haskin che nel 1953 lo conquisterà per sempre alla fantascienza. Subito dopo e fino a oggi, ha scritto il romanzo "Nuove Vie per le Indie" e moltissimi racconti.